In un tempo in cui gli impatti depressivi causati dal Covid sulle nuove generazioni si sommano ad una preesistente “crisi del desiderio”, diventa fondamentale riconoscere e promuovere le esperienze di un nuovo educare capaci di tenere “viva” la vita.

Una di queste è una banda musicale di Finale dell’Emilia, raccontata in un recente studio realizzato dal Centro di Ricerca ARC dell’Università Cattolica di Milano dal titolo “Al ritmo della vita. Storia, metodo e generatività della Banda Rulli Frulli”, pubblicato ora da Erickson e presentato in occasione dell’inaugurazione della nuova Stazione Rulli Frulli, quartier generale dei progetti nati dal “metodo” Rulli Frulli.

Nel 2010, Federico Alberghini, giovane maestro di batteria, dà avvio ad una piccola marching band che vede ragazzi di età e capacità diverse, compresi alcuni giovani con disabilità, suonare insieme strumenti costruiti con materiali di recupero. L’iniziativa, dapprima osservata con qualche perplessità, cresce in numeri e qualità musicale e si trasforma in una vera e propria banda dal nome effervescente.

È però il terremoto che nel 2012 scuote con violenza inaudita l’Emila a far fare un grande balzo in avanti alla storia. Paralizzati dell’incertezza, i ragazzi non vengono lasciati soli. Chiamati ogni giorno a raccolta da Federico sotto il tendone messo a disposizione da Mani Tese, ci si riunisce per farsi forza e darsi speranza, grazie ad un suonare insieme che si rivela perfino più potente delle continue scosse.

Oggi la Rulli Frulli è una realtà apprezzata per la sua valenza sociale, oltre che musicale. Formata da 70 membri tra i 12 e i 30 anni, di cui 18 con disabilità, in questi anni, grazie ai suoi maestri e ai genitori che si sono coinvolti in questa avventura, la banda è riuscita a riconoscersi sempre più chiaramente in un intento pedagogico e in un metodo originale che consente di interagire con successo in contesti molteplici: con i giovani rifugiati, nelle periferie, nelle scuole in interventi di contrasto al bullismo.

Sono cinque le “logiche generative” che danno il ritmo a questa proposta.

Anzitutto, l’improvvisazione in relazione: non si tratta di pianificare e controllare processi e risultati, quanto di “entrare in relazione”, mettersi in ascolto e, creativamente, adattare ciò che si propone al bisogno e al contesto, prendendo quello che c’è e facendolo splendere come oro.

Costruire insieme è il secondo pilastro: nel laboratorio, dove i materiali di scarto rinascono a nuova vita e diventano strumenti unici al mondo, e le relazioni tra diversi educano alla pluralità della vita, la banda offre ai suoi membri la possibilità di fare esperienza non mediata della realtà e dell’alterità.

Nella banda la ricerca della qualità musicale è elevata, ma questa non è mai a discapito dell’inclusione. È una performance non-performativa, dove ognuno è accompagnato a dare il meglio di sé, senza l’obbligo di raggiungere standard predefiniti.

Il quarto punto racconta una inclusione autorizzante: essere accolti nel clima caldo della banda è un imprinting agito poi circolarmente da tutti, grandi e piccoli. Questa fiducia genera: rende ciascuno sempre più “autore” della sua storia, mentre è accompagnato nella banda a sviluppare appieno le sue attitudini e capacità e a contribuire in modo originale al risultato comune.

Infine, l’appartenenza in divenire: la capacità di dare forma e senso al legame tra i membri della banda, un’adesione viva e profonda, che tuttavia non diventa mai totalizzante e omologante.

Negli ultimi decenni abbiamo dato sempre meno spazio alla capacità generativa di persone, organizzazioni e istituzioni. Piuttosto, abbiamo investito sull’autorealizzazione individuale, nell’illusione che da qui passino libertà e felicità. Le patologie dell’uomo contemporaneo, che con il Covid sono state drammaticamente amplificate, raccontano una storia diversa.

Ma c’è una bella notizia che il libro sulla Rulli Frulli rilancia: è possibile aprire nuovi spazi della generazione in cui riprendere a coltivare il desiderio di vita, il mettere al mondo, il rendersi cura, il lasciar andare, movimenti indispensabili per vincere la stagnazione in cui rischiamo di restare intrappolati.

Il tempo presente è colmo di sfide, ma è anche un’opportunità unica per ripensare cosa significa educare, come fare spazio ai giovani ed accompagnarli in una crescita che non si riduca al solo accumulo di competenze tecniche. Come generare senso e riaccendere in loro la passione per una vita “viva”.

Da Finale dell’Emilia arriva un segnale forte e chiaro: di possibilità, ma anche di responsabilità.

 

A cura di Patrizia Cappelletti, Centro di Ricerca ARC dell’Università Cattolica di Milano