Se la storia del nostro Paese può essere efficacemente raccontata a partire dai suoi monumenti, ciò è particolarmente vero nel caso del complesso architettonico di San Nicolò l’Arena, al centro di Catania: edificio del tardo barocco siciliano e centro benedettino tra i più significativi in Europa, il complesso prende forma nel XVI e si sviluppa nel secoli integrando il segno di eventi naturali – dalla lava al terremoto – nuovi stili – le continue modifiche fino all’unità d’Italia – e funzioni – da centro monastico a sede universitaria.
La rilevanza del bene viene confermata nel 2002, quando l’Unesco la include nel patrimonio mondiale quale edificio tra i più rappresentativi del tardo barocco siciliano, e, nuovamente, nel 2008, nel momento in cui il monastero viene riconosciuto dalla Regione Sicilia “opera di architettura contemporanea” grazie all’intervento di restauro dell’architetto Giancarlo De Carlo.
Visitando il complesso si rimane colpiti dalla vitalità che il complesso promana. Questo luogo è ancora, straordinariamente vivo. Saranno gli studenti che sciamano interrottamente tra aule e giardini, riconfermando ogni giorno il legame irrisolvibile tra il passato e il futuro; sarà la passione con cui fino ad oggi alcune figure illuminate hanno dedicato anni della loro vita a studiare, raccogliere, documentare e trasmettere la storia di questo bene; sarà la presenza di alcuni “guardiani”, come il geometra Antonino Leonardi, che ne hanno compreso l’anima profonda e continuamente la rinnovano nell’indirizzare gli interventi; sarà, infine, l’azione dell’associazione Officine Culturali che da qualche anno sta cercando di rendere accessibile e comprensibile il patrimonio culturale qui depositato ad un numero sempre più ampio di persone, italiane e straniere.
L’azione di Officine Culturali si inserisce dunque, consapevolmente, nell’alveo di una storia illustre che è soprattutto una storia di “cura” – alcuni nomi su tutti: l’architetto De Carlo, il preside della Facoltà di Lettere Giuseppe Giarrizzo, il già citato Antonino Leonardi – di cui l’associazione ha scelto di prendere, coraggiosamente, il testimone. Cosa non facile in Italia, dove l’eredità storico-artistico-culturale rischia non raramente di essere vista come una voce di costo, più che un capitale da valorizzare. Cosa ancor più complicata in Sicilia.
Difficile, quasi ovunque, avviare percorsi innovativi. Difficile ricevere credito e attivare circuiti virtuosi di fiducia e di cooperazione. Difficile smarcarsi da modelli obsoleti di pensiero e di pratica, dalla settorializzazione delle competenze, del carico burocratico. Anna Mignosa, una dei fondatori di Officine Culturali, è determinata: “Stiamo dimostrando che si può fare. E che si può fare in un modo diverso.” Dove il concetto di “diversità” può essere tradotto quale capacità di intrapresa, responsabilità personale e organizzativa, innovazione, sostenibilità, indipendenza dai tradizionali canali di finanziamento che hanno non raramente costituito l’occasione per nuove e poco limpide obbligazioni.
L’intuizione di Officine Culturali è anzitutto la scelta di valorizzare il bene a partire dalla sua apertura alla città e ai flussi turistici globali che arrivano a Catania, e dal suo inserimento in reti nazionali ed internazionali sempre più ampie, grazie ad una spiccata capacità di coniugare l’articolazione di proposta culturale di qualità supportata da nuovi modelli comunicativi. Oggi, l’associazione si propone come un’interessante esperienza di promozione di un patrimonio storico-artistico a partire dall’ideazione e realizzazione di percorsi didattici e turistici, anche grazie alla raggiunta integrazione della proposta con quella di altri monumenti catanesi, e all’organizzazione di momenti di socialità, eventi culturali e occasioni di aggregazione per la città intera.
La valorizzazione è, del resto, un inarrestabile processo di contagio: l’avvio di circuiti virtuosi attorno ad un bene tende a non arrestarsi ai confini perimetrali dello stesso. In un movimento assolutamente generativo, l’oggetto della cura si ampia, così da coincidere sempre più – nell’immaginario come nelle pratiche – con l’intero territorio e le sue risorse dormienti che vengono risvegliate, mobilitate e orientate.E’ anche in questi termini che Casavola e Trigilia parlano della valorizzazione delle risorse locali come di una “nuova occasione”, per il Sud (ma anche per l’intero Paese), dove queste ultime sono il “patrimonio di beni culturali ed ambientali, di conoscenze legate al progresso scientifico e di saper fare diffuso, radicato in specializzazioni produttive, che contribuiscono a definire l’identità di un luogo”.
La nuova occasione è dunque, anzitutto, un’occasione di riscoperta dei “talenti” locali e della propria identità distintiva – ciò che chiamiamo “cultura” e che, insieme, e solo insieme, può generare sviluppo economico e sociale.Il percorso fatto fino ad oggi da Officine Culturali sembra dirci che la valorizzazione è anzitutto un processo di riconoscimento di un valore – quello di una eredità culturale – da cui si originano e si affermano nuovi valori. Come a dire che valorizzare la cultura produce nuova cultura e che valorizzare un bene produce nuovi beni. Se collochiamo tutto ciò dentro i processi di emergenza e convergenza globale di nuovi e più sofisticati bisogni culturali (la domanda di conoscenza è particolarmente articolata e proviene da sempre nuove aree a livello mondiale) è facile comprende il vantaggio competitivo di cui potrebbe agevolmente godere il nostro Paese.
Non solo, come ha opportunamente ricordato recentemente Leonardo Becchetti, parliamo di beni non delocalizzabili, ma soprattutto di beni non riproducibili. Ce lo raccontano tanti imprenditori che, nonostante tutto, decidono di restare in Italia grazie alla possibilità di “respirare” quella bellezza, quell’armonia e quel gusto, vero nutrimento per la creatività e l’innovazione.Ma un passaggio va chiarito: è attraverso il riconoscimento del valore del bene che esso viene “rigenerato”, in una nuova alleanza spazio-temporale tra passato, presente e futuro.
Così oggi, anche grazie a Officine Culturali, complesso monastico e città si appartengono nuovamente: il monastero è aperto ed accogliente e per questo è abitato, frequentato, attraversato, conosciuto, contemplato, conservato, rinnovato, amato. Il monastero è vivo. Ed è per questo che esso riesce ad attirare le nuove generazione e i tanti turisti che ogni anno lo visitano a cui esso consegna una memoria e un germe di futuro.Il riconoscimento di un valore consente dunque di illuminare il rapporto di reciprocità, potremmo dire di reciproca appartenenza tra le persone, Catania, la Sicilia, l’Italia, il mondo e quel particolare bene – che non a caso, dicevamo, è stato simbolicamente inserito tra i siti protetti dall’Unesco – e permette di intravedervi l’incredibile reticolato di legature e responsabilità: il diritto di godere pienamente di questa preziosa eredità, da un lato, e di conservarla, custodirla, elevarla, trasmetterla, dall’altro.Non da ultimo il riconoscimento porta alla cura, che l’azione che Officine Culturali sta sperimentando, insegnando, testimoniando.
Solo dentro questa cornice, un bene può diventare occasione di sviluppo, poiché superate le trappole della mera strumentalità e della banalizzazione, ciò che si riscopre è un rapporto rispettoso – di più: affettuoso! – che passa dalla conoscenza e dalla frequentazione, dall’ascolto e dalla pratica – il bene si vive – che diventa opportunità di crescita, nel senso più ampio: umano, relazionale, culturale, sociale e anche economico, come l’esperienza catanese sta cercando di dimostrare.In questo avvicinamento progressivo il bene è valorizzato e con esso anche professionalità e competenze, così come – sebbene, oggi, purtroppo ancora solo in misura ridottissima – un intero territorio nel quale il bene è incistato.
Ciò apre la questione della gestione dei beni comuni e della difficoltà di uno scaling up delle esperienze di innovazione che troppo spesso rimangono vittima della miopia, della frammentazione, della burocrazia, o anche, più semplicemente della diffidenza al nuovo e del cinismo.In questa luce l’iniziativa di Officine culturali appare oggi particolarmente innovativa poiché cerca di avviare almeno tre interessanti movimenti:
a) il primo riguarda gli studenti in formazione che, adeguatamente accompagnati e preparati, diventano tour guide del complesso museale: Officine Culturali opera quindi come raccordo funzionale e di senso tra scuola e lavoro, educando alla passione per la cultura e per il proprio lavoro; all’imprenditività cooperativa e all’azione win-win; alla tessitura di reti locali e sovra locali;
b) il secondo riguarda la natura dell’esperienza che, se supportata da politiche “friendly”, potrebbe trasformare un’esperienza iniziata come puro volontariato in soggetto economico di natura cooperativa capace di generare nuove opportunità di lavoro;
c) il terzo riguarda il posizionamento dell’esperienza come parte di un vero e proprio sistema di coesione e di promozione territoriale culturale e turistica – tutto da costruire – in grado di combinare più settori produttivi (marketing, ricezione alberghiera, turismo marino balneare, enogastronomia, etc) ed intercettare più interessi e sensibilità (turismo nazionale e globale, didattica, accademia, socialità urbana, volontariato culturale, etc).
Il percorso è ancora lungo e per nulla semplice, soprattutto dentro un quadro di infinite resistenze all’avvio di un serio lavoro di rete, di sostanziale debolezza sia della sfera istituzionale che della società civile, del prevalere di pattern di intervento oggi non più sostenibili economicamente e socialmente, qual è, purtroppo, la situazione non solo siciliana ma di molta parte del Sud Italia, dall’altro. Ma la strada aperta da Officine Culturali – una provocazione generativa in un panorama che non sempre riesce a riconoscere “la nuova occasione” che anche la crisi (non senza costi) rappresenta – appare un passaggio obbligato per far rinascere il nostro patrimonio culturale e con esso riattivare le comunità e dare ossigeno allo sviluppo.