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La memoria e l’anima. Riconoscimento, responsabilità, valorizzazione

di Paola Fandella

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“Ciò che un tempo ci era parso importante, ora lo fu ancor di più; mai in Austria abbiamo amato l’arte con tanto trasporto come in quegli anni di caos, perché di fronte al tradimento del denaro sentivamo che soltanto ciò che era eterno dentro di noi poteva durare per sempre …..

Ogni cantante, ogni musicista dava il meglio di sé, perché ognuno sentiva che quella poteva essere l’ultima esibizione. E noi ascoltavamo rapiti, aperti come non mai al fascino della musica, perché forse era davvero l’ultima volta. Così vivevamo tutti quanti, migliaia, centinaia di migliaia; ognuno, in quelle settimane, in questi mesi, in quegli anni, a un passo dal baratro, attingeva alle sue energie migliori.

Mai ho avvertito, in un popolo o addirittura in me stesso, una volontà di vivere così intensa come in quegli anni, perché la posta in gioco era altissima: la nostra stessa esistenza, la sopravvivenza.”[1]

Queste stesse parole, queste stesse frasi dovrebbero potersi scrivere anche per parlare e, soprattutto, per progettare la rinascita sociale ed economica per il nostro Paese da parte di ognuno di noi. Ed è proprio questo riconoscersi di ognuno di noi nel patrimonio d’arte in cui abbiamo la fortuna di vivere quello che, invece, sembra l’anello mancante, la variabile indebolita della storia della “nostra memoria e della nostra stessa anima”.[2]

Tale “riconoscimento” nella forma individuale va ricostruito o, nella migliore delle ipotesi, re-incentivato ad esternalizzarsi come valore personale e dovere collettivo. Solo assorbendo completamente questa percezione si può pensare di avere la determinazione per porre in essere un processo di ri-educazione alla conservazione ed alla valorizzazione del nostro patrimonio artistico.

E, quindi, solo ri-appropriandosi delle fondamenta che rappresentano la ragion d’essere di una società è possibile ri-generarle nuovamente. La forza di questa presa d’atto, di questo processo che pone al centro il ruolo della responsabilità del singolo nel salvaguardare il valore del patrimonio artistico come patrimonio della collettività assume ancora più rilevanza in quanto indipendente dall’esistenza di un’azione “dall’alto”, ossia dalla presenza di specifiche politiche di programmazione culturale. E, anzi, le azioni del singolo verso la collettività possono essere forze propulsive a indurre politiche culturali altrimenti asettiche e non efficaci.

Ciò pone anche in rilievo la necessità di dover tenere conto di effetti non efficaci nell’ambito di una programmazione pubblica e cioè della criticità nella messa in atto di politiche culturali verso un contesto sociale non pronto o significativamente ricettivo. Allora in questo caso si verificherebbe effettivamente un processo dispersivo – inteso letteralmente come di impoverimento anche economico – della stessa azione pubblica. Rimettendo al centro del problema il ruolo del singolo nel contesto sociale ci si richiama al concetto di “responsabilità” sociale e, quindi, alla necessità di ri-formularla o ricrearla attraverso una capillare sfida educativa.In questo, infatti, risiede la possibilità di ri-appropriarsi del valore del nostro patrimonio: nel processo educativo – o ri-educativo – del singolo.

Questa sfida è tanto più vitale in quanto più si deve confrontare con una ricchezza in termini di patrimonio – culturalmente inteso – che non ha uguali al mondo: basti pensare che l’Italia è il primo paese iscritto nella lista UNESCO del Patrimonio mondiale dell’umanità (con 47 siti, rispetto ai 44 della Spagna , ai 38 della Francia e ai 37 della Germania).[3] E alla straordinaria vitalità della ricchezza culturale in tutte le espressioni artistiche: dall’archeologia, alla storia antica, alla musica, all’arte pittorica e scultorea e architettonica (con più di 4.000 musei e 40.000 immobili vincolati)[4] alle diverse forme di rappresentazione dal vivo, alla rilevanza paesaggistica.

Tutto ciò, però, se non sorretto dall’assunzione della responsabilità del valore sociale può essere oggetto di depauperamento o deperimento o, addirittura, di “aggressione” pauperistica o merceologica. La vitalità intrinseca nel nostro patrimonio artistico e quindi la sua possibilità di conservazione e di valorizzazione si deve, infatti, confrontare, sempre di più in questi anni, con un pericoloso, perché non sempre identificabile o riconoscibile, “pieno” e non con un “vuoto”: “Se l’ignoranza fosse un vuoto, mi dicevi, sarebbe facile riempirlo di cose, di cultura, di civiltà. Ma l’ignoranza, caro mio, è un pieno. E’ un muro, e i muri si possono solo abbattere, oppure scavalcare”.[5]

E questo, purtroppo, è il contesto in cui si deve cercare di rimettere la cultura del nostro paese al centro di una nuova azione propulsiva educativa fondamentale per la ricrescita sociale ed anche economica. Un contesto che fino a questo momento si è “riempito” di tutto ciò che il consumismo e la comunicazione di massa hanno saputo rappresentare. Le spinte sociali che si sono fino qui succedute hanno portato l’individuo, infatti, di fronte ad una rappresentazione del consumo piuttosto che ad una forma di rappresentazione d’arte.

E in questo deve, invece, ri-prendere forma la cultura della valorizzazione del patrimonio artistico. Si deve assumere consapevolezza che la ricchezza derivante dal patrimonio culturale può solo “esprimersi” sviluppando un preciso “canone” le cui linee armoniche si rifanno a criteri che si potrebbero definire “classici” e linearmente consequenziali individuabili come: riconoscimento, cura, condivisione, apertura. Il valore del “riconoscimento” assume il patrimonio artistico-culturale come componente integrante del DNA della nostra formazione.

Questo significa che il patrimonio diventa importante non per dovere ma per essenza stessa del nostra definitezza. In questo si richiama e si riconosce il ruolo fondamentale della formazione e in questo ci si appella senza possibilità di delega (almeno in prima istanza) alla funzione pubblica. In questo si deve esplicitare il primo punto di ogni progetto di politica culturale: il compito di educazione e di formazione del cittadino.

E in questo inizia il processo di “svuotamento” o abbattimento del “pieno” dell’ignoranza. Il significato della “cura” implica che se il patrimonio diventa un valore interiorizzato, la responsabilizzazione di ciascuno di noi viene recepita come una priorità stessa da mantenere e valorizzare; la funzione è ancora privatistica.La “cura” conseguente al riconoscimento come necessario di un “patrimonio” esterno, porta altrettanto necessariamente all’esplicitazione di un rapporto di “Condivisione” dello stesso bene. Questo valore è proprio della forza del patrimonio culturale in quanto finalizzato alla creazione della bellezza, un paradigma che di per sé si origina per l’esterno in quanto si “confronta” con i canoni della natura e della sua armonia. La funzione è intrinsecamente privatistica.

L’ultima “voce” del canone – individuata nell’”Apertura” si completa con la funzione pubblica della responsabilità nella formazione, nell’individuare cioè la responsabilità delle istituzioni attualmente riconosciute come centri di produzione culturale (teatri, musei, fondazioni) a mettere in pratica in prima battuta strategie finalizzate ad aprirsi alla partecipazione attiva da parte degli stessi soggetti fruitori. In questo caso diventa fondamentale (dalla funzione di formazione pubblica) il disporre di progetti per formazione di manager che siano sensibilmente “ispirati” alle discipline artistico-umanistiche per le cui l’elemento della formazione ritorna ad essere predominante. L’azione di apertura diventa un obiettivo primario di natura sociale degli stessi “beni culturali” un obiettivo che attrae di per sé l’effetto di riconoscimento a livello sociale (altrimenti l’arte non verrebbe “giustificata”).

L’esistenza di operatori sensibili alla formazione umanistica consente inoltre di approfondire ed individuare due ulteriori temi assolutamente primari nel processo di valorizzazione culturale inteso come integrale dello sviluppo sociale. Ossia il sistema di crescita del processo produttivo “interno” al bene culturale e, congiuntamente, il fenomeno del turismo culturale. Questi due temi sono, come anticipato, da considerarsi sia del tutto con-primari nell’effetto di valorizzazione sociale-culturale, sia del tutto fondamentali e peculiari nella storia del nostro particolare patrimonio culturale. Con il primo elemento, si intende in particolare l’individuazione della cosiddetta “filiera” dei mestieri d’arte. E cioè di tutti quei lavori e laboratori artigiani che contribuiscono a rendere uniche ed inimitabili le creazioni del cosiddetto made in Italy.

Scuole di formazione e programmi di conoscenza e di comunicazione presso i giovani devono assumersi la responsabilità di far emergere questo “tesoro” di esperienza e di creatività applicata che attualmente proprio nel nostro Paese (e cioè nel paese che ne ha dato origine) è assoggettato a un clima di disaffezione e, per contro, è richiamo d’attrazione per giovani provenenti da tutto il mondo, primi tra tutti i ragazzi dei paesi orientali: si fa riferimento alle scuole di liuteria cremonesi, alle scuole di taglio dei laboratori della Scala, per esempio. Ci si deve chiedere perché “mestieri” il cui connubio con la creatività personale applicata può produrre il massimo grado di realizzazione e di riconoscimento non siano invece se non marginalmente riconosciuti come obiettivi professionali tra e per i nostri giovani. Il valore e la ricchezza dell’artigianato artistico del nostro paese sono variabili qualitative riconosciute al pari dello stesso patrimonio culturale nell’ambito del turismo culturale.

Se fino al 2011[6] ,USA, Germania e Regno Unito, sono stati i primi tre mercati esteri per il turismo culturale italiano[7], gli ultimi due mantenendosi legati alla tradizione del grand tour; negli ultimi anni si affiancano con prepotenza i flussi provenienti dall’est europeo e dai paesi asiatici. Di fronte a questi indicatori, il “fenomeno” del turismo culturale, propone per una “lettura” critica delle cifre esorbitanti (e certamente allettanti) che si palesano concrete anche in vita di una probabile effettiva realizzazione del progetto Expo, una serie di riflessioni in termini di sviluppo gestionale in relazione alla massimizzazione del grado di soddisfazione dello stesso per la valorizzazione del nostro patrimonio e del contemporaneo effetto di proiezione in termini di fidelizzazione del “turista” sia per quanto concerne la diversificazione e la ricchezza del patrimonio offerto e quindi, ad esempio, conoscibile attraverso più viaggi sia per l’offerta continuamente ricca e stimolante derivante dal richiamo dei festival soprattutto di carattere lirico-sinfonico (basti pensare all’afflusso di stranieri alla stagione lirica dell’arena di Verona, al ROF di Pesaro o a quello di Martinafranca).

Ne consegue che lo sviluppo del turismo culturale diventa un progetto strategico e parimenti “sensibile” per la tutela nostro patrimonio, la cui efficacia si deve articolare e misurare solo attraverso un sistema integrato a tutti e livelli e fra tutti i soggetti attivi ed interessati, a garanzia della qualità dell’offerta (i festival lo hanno fin qui sempre testimoniato) dei servizi (collegamenti, alberghi, orari) e del merchandising di riferimento (l’importanza dello sviluppo e della promozione dell’artigianato d’arte contro prodotti spesso contraffatti e di scarsa qualità nonché di produzione non italiana). La creazione del sistema del turismo culturale come sistema integrato tra tutti i possibile attori coinvolti, inoltre, consente di eliminare o, per lo meno, ridurre il rischio altrettanto insidioso per un paese così ricco di patrimonio culturale, purtroppo anche in parte non “riconosciuto”, di alimentare una sorta di “sudditanza” al turista – anche non di qualità culturale – ossia, quel rischio di mercificazione o di “svendita” che a volte, colpisce (e ferisce) anche le Istituzioni più prestigiose[8] e a cui si assiste con un senso di smarrimento e impotenza. La creazione di un sistema “consapevole” diventa, nella nostra condizione, dunque di vitale importanza per il mantenimento del nostro patrimonio e proprio a tal fine, quindi, diventa un obiettivo-indicatore fondamentale per lo sviluppo economico-sociale.

Ancora di più, secondo l’approccio che si è cercato di sottolineare in queste osservazioni, il compito di individuare le variabili del sistema, di farle dialogare in modo partecipativo e di sviluppare sinergie strategiche dovrebbe essere affidato a progetti presentati e gestiti dalle giovani risorse (come si è sottolineato prima “managerialmente” sensibili) che potrebbero mettere in gioco direttamente le proprie energie per ri-pensare il sistema di valorizzazione culturale, pur in uno slancio non completamente autonomo ma modulato da un controllo (flessibile) rispetto a obiettivi collegialmente individuati. La commistione tra formazione e patrimonio si ripropone, quindi, ancora come un tema focale, che può partire anche nel corso stesso del percorso formativo con forme ibride di incentivazione quali , ad esempio, la possibilità di prolungare l’apertura al pubblico dei musei o dei siti archeologici attraverso convenzioni per stage con crediti formativi riconosciuti con le istituzioni che si occupano della formazione dei ragazzi. Questo indurrebbe un senso di responsabilità negli studenti che imparerebbero a coniugare direttamente i risultati della propria carriera – per i crediti attribuiti dallo stage – alla stessa valorizzazione dell’Istituzione artistica alla quale sono stati destinati.

Auspicando così che una forma di riconoscimento possa diventare una forma di “riconoscenza” per l’arte che ci circonda. Paola Fandella [1] Lo scrittore si riferisce, in questo passaggio, agli anni immediatamente dopo la fine della prima guerra mondiale. Cfr. Stephen Zweig, Il tempo di ieri. Ricordi di un europeo, qui nella traduzione di Silvia Montis, ed. Newton Compton, 2013.[2] Cfr. S.Settis, Italia Spa, L’assalto al patrimonio culturale, Einaudi, Torino 2007.[3] Cfr. Elaborazione su dati Unesco 2012, Cfr, http://whc.unesco.org/en/list.[4] Cfr. Fonte MIBAC, Minicifre della cultura, 2012.[5] Cfr. Andrea Bajani, Mi riconosci, ed. Feltrinelli, 2013. Il ricordo è di Antonio Tabucchi.[6] Cfr. dati MIBAC, minicifre della cultura, 2012 [7] Per 8.3 mld di euro.[8] Ad esempio, turisti che pur di avere “testimonianza” della loro presenza in un determinato “tempio” della nostra cultura non si fanno nessun scrupolo nello scattare flash durante una rappresentazione anche e proprio nel teatro considerato più prestigioso al mondo o di auto-procurarsi qualche “innocuo” souvenir di una “rovina”