Milani, 81 anni, perse la moglie nell’attentato di piazza della Loggia a Brescia.

«Oggi come allora deve prevalere l’idea di ricostruire, uniti e con un senso nuovo dello Stato»

A Brescia i numeri della strage da coronavirus continuano a crescere, 6.298 contagiati accertati e 887 morti, determinando un clima che per alcuni versi ricorda — tra similitudini e differenze — un’altra strage che ha segnato la storia della città e del Paese: la bomba neofascista di piazza della Loggia, 28 maggio 1974, otto morti e oltre cento feriti. Manlio Milani fu testimone, sopravvissuto e vittima di quell’eccidio in cui perse la moglie Livia e alcuni dei più cari amici; lui si salvò per caso e oggi, a 81 anni compiuti, guarda attonito e preoccupato alla carneficina e alla paralisi provocata dal Covid-19. Che uccide persone conosciute, amici e amici di amici.

Che cosa accomuna la strage di oggi a quella di 45 anni fa?
«La morte improvvisa, che porta con sé il mancato accompagnamento alla fine della vita da parte di familiari e amici. Oggi per questo virus si muore negli ospedali da soli, senza l’assistenza e il saluto affettuoso dei propri cari, nemmeno dopo il decesso. Lasciando in chi resta un vuoto che ricorda ciò che accadde a noi in piazza Loggia; una mutilazione a cui non si è preparati e provoca quasi dei sensi di colpa per non aver potuto dare alle persone scomparse tutto ciò che avresti voluto. È il sentimento che emerge dai necrologi sui giornali, ai quali si affidano pensieri che non si sono potuti condividere con le persone scomparse».

C’è anche l’intreccio tra destini personali e collettivi ad avvicinare le due stragi?
«Certo, sia pure nella differenza tra un’epidemia e un atto terroristico indiscriminato. Il male e il dolore che provoca colpisce solo alcuni, ma riguarda tutti. Quando il 28 maggio tornai dall’obitorio mi sentii dire “siamo tutti colpiti”; erano morti mia moglie e i miei amici, ma poteva morire chiunque fosse in piazza quel giorno, come negli altri attentati. Il virus, come la bomba, aggredisce indistintamente».

La reazione a quello che sta accadendo, invece, è diversa da quella di allora.
«Dopo la bomba dovemmo mettere i nostri corpi insieme, uscire dalle case per difendere la democrazia; gli stessi funerali divennero un rito identitario e rappresentarono la prima risposta della società civile. Oggi, all’opposto, la giusta risposta è stare isolati; partecipare rimanendo chiusi in casa. Ma l’obiettivo è comune a quello di allora: difendere la convivenza futura e dare una prospettiva diversa alle nuove generazioni».

Per la strage del ’74 avete combattuto oltre quarant’anni, ma siete arrivati all’accertamento della verità; anche stavolta Brescia sarà in grado di reagire?
«All’epoca riuscimmo a superare le divisioni iniziali e le fratture accentuate dalla strage, che solo col tempo è diventata un patrimonio comune, al di là delle divisioni politiche. Oggi come allora deve prevalere l’idea di ricostruire insieme, senza rinunciare alle idee ma pensando al bene comune».

Per voi i funerali furono un rito identitario, oggi non si possono celebrare.
«È un ulteriore elemento di sofferenza, che aumenta il vuoto provocato dalla mutilazione improvvisa. La visione angosciante di quelle bare trasportate di notte sui camion militari, accompagnate solo dai rumori dei mezzi di trasporto, le fa sembrare per certi aspetti abbandonate a sé stesse più di quelle dei migranti morti a Lampedusa. Una solitudine che porta i familiari dei deceduti a comunicarne per quanto possibile la scomparsa, a recuperarne l’umanità anche solo riproducendone i nomi sui giornali».

Come si possono superare questi momenti di solitudine?
«Credo che dovrà venire il momento di un riconoscimento pubblico a tutte queste vittime, ma intanto c’è la solidarietà; quella verso chi è impegnato in prima linea, come medici e infermieri, e quella che si esprime mantenendo i giusti comportamenti a protezione di noi stessi e degli altri. Mi pare che questo sia stato compreso, quando esco la mattina per andare in edicola a comprare i giornali incontro pochissime persone. Può servire a riscoprire un’idea di Stato che non sa solo impartire ordini ma anche stimolare il senso di responsabilità».

È un auspicio anche per il futuro?
«Sì. C’è da augurarsi che questo patrimonio di solidarietà non vada disperso in nome di interessi di bottega, ma serva a stimolare riflessioni sulle carenze e sulle priorità a cui le istituzioni e la politica sono chiamate a dare risposte. Per esempio al sovraffollamento delle carceri, riemerso in occasione di questa emergenza; o all’immigrazione: questa vicenda ha dimostrato che non ci sono confini da difendere per proteggerci, e mi auguro che certi slogan del passato non vengano ripresi. Ed è importante la centralità del Parlamento, nella gestione di questa crisi e soprattutto nella ricostruzione che dovrà venire dopo».