La cultura digitale separa, come mai prima, gli adulti dai giovani. Il che contribuisce alle incomprensioni tra genitori e figli sui temi ambientali.
Generare significa essere generosi. Non basta mettere al mondo e abbandonare. I nostri figli oggi ci chiedono di essere pienamente generativi, di essere generosi, cioè, di prenderci cura e di lasciarli volare con le loro ali. I feroci attacchi che in questi giorni abbiamo visto all’indirizzo dei giovani che manifestano per la salvaguardia dell’ecosistema e contro l’inerzia di molti governi di fronte ai rischi del riscaldamento globale, sono certamente sintomatici. Adulti contro ragazzi.
Genitori contro figli. Stiamo sperimentando un pezzetto di quel famoso conflitto intergenerazionale di cui tanto si è parlato negli ultimi anni, ma che finora non si era ancora manifestato in modalità così evidenti. Nei nostri paesi occidentali la popolazione invecchia, facciamo pochi figli e, naturalmente, questo comporta uno spostamento del baricentro del potere verso le generazioni più anziane, per loro natura più avverse al cambiamento, più rigide e tradizionaliste. La dinamica sociale, alimentata dal voto politico sempre più sbilanciato verso gli interessi degli adulti e degli anziani, ha da tempo esaurito la fluidità e la spinta riformatrice. Si accorcia l’orizzonte temporale di riferimento, ci ammaliamo di “breve-termismo”.
Questo è il contesto nel quale irrompe Greta con il suo movimento ; questo è il contesto nel quale si scatena la reazione inconsulta di opinionisti, intellettuali, politici e gente comune che fatica a comprendere e, quindi, per difesa, attacca questi ragazzi con argomenti che spesso rasentano il ridicolo. Per sminuire la portata del risveglio ambientalista di questi giovani li si dileggia, se ne sottolinea l’incoerenza e l’ignoranza, li si invita a stare a scuola ad imparare invece che scendere in piazza a scioperare, si evocano complotti fatti di manovratori occulti e finanziatori interessati ai profitti di una colossale operazione di marketing. E se invece questi giovani si fossero solo svegliati dall’indolenza? Quella stessa indolenza di cui gli stessi adulti, per anni, li hanno accusati. Quella stessa indolenza verso cui noi stessi adulti, genitori, spesso li abbiamo instradati.
Ma no, meglio accusarli, come abbiamo letto in questi giorni su stampa e social, di pretendere l’aria condizionata, di fare lezione col computer, di avere un televisore in ogni stanza, di passare le giornate a usare strumenti elettronici, di andare a scuola in macchina invece che a piedi, di essere pieni di cose, di comprare i vestiti più costosi e ‘trendy’. Li si invita, per questo, prima di protestare, a spegnere l’aria condizionata, ad andare a scuola a piedi, a rinunciare ai telefonini e a leggere un libro, a farsi un panino invece di mangiare cibo confezionato. Nella certezza che niente di tutto ciò accadrà, perché sono egoisti, maleducati, manipolati da persone che li usano, proclamando di avere una causa nobile mentre si trastullano nel lusso occidentale più sfrenato. Li si invita a svegliarsi, a maturare e chiudere la bocca, a informarsi dei fatti prima di protestare. Tutto riportato in maniera letterale.
Che dire, quindi, di un adulto che, con gretto paternalismo, intima ad una intera generazione di giovani di chiudere la bocca?! Che dire ad un adulto che non comprende che tutte quelle manchevolezze, quei limiti e quelle incoerenze, che ora rinfacciamo ai nostri figli – sono superficiali, non sanno perché scioperano, sono tutta fuffa e apparenza -, in realtà sono le nostre manchevolezze, i nostri limiti e le nostre incoerenze. Siamo noi adulti che li accompagniamo a scuola coi SUV, anche se dobbiamo fare 100 metri, siamo noi che gli abbiamo messo il televisore in camera, che gli abbiamo messo l’Ipad e il cellulare in mano a dieci anni perché così stavano buoni ed erano sempre rintracciabili, per la nostra tranquillità, mica la loro; siamo noi che li abbiamo riempiti di “roba”, di cose inutili e abiti “trendy”, forse per risarcirli dell’affetto e del tempo che non riuscivamo più a regalargli. E ora che loro ci dicono, anche se in maniera scomposta e a volte incoerente, che non gli va, che gli stiamo rubando il futuro, che desidererebbero prospettive migliori e che vorrebbero che noi adulti ce ne occupassimo subito, gli intimiamo di stare zitti, di imparare prima di parlare, di tornare a scuola. Senza capire che, in realtà, gli abbiamo rubato anche quella.
Proviamo a chiederci, infatti, quanto investiamo in istruzione e formazione, fanalino di coda in Europa, e quanto, invece, in pensioni? Proviamo a chiederci quanto bruciamo in azzardo e quanto spendiamo per i servizi per l’infanzia. Quanto l’evasione fiscale e la corruzione che non riusciamo o non vogliamo combattere sottragga risorse alla qualità dei servizi che potremmo offrirgli, ai nostri figli. Date le premesse, ciò di cui bisognerebbe sorprendersi non è l’azione di Greta, ma piuttosto il fatto che non ce ne siano mille, centomila come lei che tutti i giorni ci mettano brutalmente davanti alle nostre responsabilità.
Il resto sono scuse. Sono le nostre scuse. Fatte di colpa e autoassoluzione. Fatte da parte di anziani spaesati e anche un po’ spauriti in un mondo che cambia troppo in fretta, che non riescono a capire e tantomeno a governare. Ad aggravare il tutto, poi, c’è il dirompente meccanismo edipico. Un meccanismo nel quale, non solo i giovani contestano i padri per smuoverli dalla loro inazione, ma con il quale minano alla radice il tradizionale processo di trasmissione della conoscenza verticale che si è andato rinforzando in questi decenni. L’affievolirsi dei rapporti orizzontali tra i giovani, la riduzione delle quotidiane occasioni di socializzazione e la trasformazione digitale delle modalità di interazione, ha lasciato all’istruzione formale, verticale e spesso paternalistica, il quasi-monopolio della formazione dei giovani. Non è sempre stato così.
Fino a non molti anni fa, i giovani imparavano dagli altri giovani,coetanei o poco più grandi, almeno tanto quanto imparavano a scuola. Erano conoscenze diverse, la vita, le esperienze, i miti, le passioni, si plasmavano, spesso, proprio nella relazione tra coetanei. Un retaggio della nostra storia antica quando erano i ragazzi e le ragazze ad insegnare ai loro pari in quella che Vygotsky definiva la “zona di sviluppo prossimale”. La vicinanza di età e la prossimità nelle fasi dello sviluppo rendono, infatti, i pari, maestri particolarmente efficaci.
Tra gli Hadza, un gruppo di cacciatori e raccoglitori che abitano in Tanzania, così come in molte altre società arcaiche, i giovani molto presto imparano le attività necessarie per loro sussistenza. Già a cinque anni i bambini sono in grado di procurarsi da soli circa il 50% del loro fabbisogno energetico giornaliero. I genitori li incoraggiano fabbricandogli dei piccoli giocattoli utili per scavare alla ricerca di tuberi o per cacciare uccelli o roditori, ma le conoscenze delle tecniche e dei trucchi necessari per l’uso di questi strumenti vengono trasmessi dagli altri giovani del gruppo. La propensione all’insegnamento cresce, naturalmente, con l’età, perché con l’età si accumulano nuove esperienze, ma la trasmissione di queste avviene raramente in maniera strutturata tra adulti e bambini; molto più frequentemente sono i pari a far circolare tra loro le conoscenze necessarie alla sopravvivenza in un ambiente ostile. Qualcosa di simile sembra accadere oggi, soprattutto a causa della cultura digitale che separa, come mai prima, gli adulti dai giovani.
Essere nativi digitali segna una frattura ulteriore, oggi, rispetto alle tradizionali differenze tra giovani e adulti. Quasi un salto di scala, che fa vivere giovani e adulti, ancor più che nel passato, in mondi paralleli, con linguaggi, simboli e modalità di interazione totalmente differenti. Nelle reazioni scomposte di non pochi adulti alla mobilitazione ambientalista dei giovani, questi elementi giocano un ruolo non secondario. La profonda differenza nel linguaggio, la perdita del monopolio nei processi di trasmissione della conoscenza, l’esclusione da un mondo che sfugge alla comprensione, non fanno altro che rinforzare e portare a livelli critici un atteggiamento verso i propri figli degno di Crono.
Ma se la reazione a queste nuove energie che si sprigionano non può certamente essere l’opposizione preconcetta e pretestuosa, anche i facili entusiasmi aiutano a poco. L’innamoramento giovanilistico da parte di adulti nostalgici per un movimento che è ancora scomposto, confuso e disorganico non giova al movimento stesso. Credo che, in questo senso, una terza via sia possibile ed è la via della generatività, termine etimologicamente contiguo non solo a “generare”, ma anche a “genitore” e a “generosità”. La radice greca è forse ancora più interessante perché fa riferimento al “far essere” e al “far compiere”.
Come da tempo vanno raccontando Mauro Magatti e Chiara Giaccardi (Generativi di tutto il mondo, unitevi! Manifesto per la società dei liberi, Feltrinelli, 2014) l’approccio generativo ai temi del sociale deve sempre considerare una dinamica nella quale al mettere al mondo deve seguire il prendersi cura e, infine, il lasciare andare. Non basta, cioè, mettere al mondo dei ragazzi e delle ragazze se poi, non solo non ce ne prendiamo cura, come singoli e come comunità, ma li osteggiamo e li contrastiamo in modi tanto aggressivi quanto ridicoli. E quando ci rinfacciano di avergli rubato il futuro è che dicono: non solo che abbiamo rovinato il pianeta, ma che non gli abbiamo offerto tutte le opportunità che avremmo potuto.
E dopo la cura c’è il distacco. Questa è, forse, la fase più complessa. Riconoscere autonomia e dignità di interlocutore credibile a questo movimento è il passaggio più difficile, ma ineludibile, se si vogliono incanalare in modo positivo tutte le energie che sono state attivate. Come sottolinea ancora Magatti, la generatività sociale vive della tensione tra il desiderio di realizzare qualcosa di significativo e la capacità di essere efficaci nel perseguire tale obiettivo. I nostri figli, oggi, risvegliati e mobilitati, vivono in pieno questa tensione. A noi la scelta se aiutarli a scioglierla o tarparne le ali lasciandoli prigionieri.