«L’IMPRESA è un motore per lo sviluppo del territorio, un veicolo per restituire quello che il territorio mi ha dato». Questa è la filosofia di Enrico Loccioni, l’imprenditore marchigiano che alla soglia dei settant’anni ha costruito «due chilometri di futuro» lungo il fiume Esino, rendendo completamente ecosostenibili i suoi stabilimenti. L’avventura di Loccioni e di sua moglie Graziella Rebichini nel mondo dell’automazione è cominciata cinquant’anni fa, grazie all’incontro decisivo con Vittorio Merloni, che si rivolse alle competenze locali per dar corpo a un’intuizione: controllare la qualità dei prodotti prima di venderli. Così è nata la Loccioni, specializzata nei sistemi automatici di misura e controllo per il miglioramento della qualità, oggi installati in oltre 40 paesi del mondo.
La qualità è stata il suo trampolino verso la crescita.
«In realtà la storia comincia da prima, nella valle di San Clemente, dove sono cresciuto nella fattoria di mio nonno. Lì ho imparato a non sprecare niente e a occuparmi del territorio che mi circonda. Lì ho scoperto di essere ingegnoso e ho costruito una pompa rudimentale per sollevare l’acqua con un motorino, che ha migliorato la vita dei contadini, non solo quella di mio nonno ma anche dei suoi vicini, da cui ho ricevuto le mie prime commesse».
Come si arriva da lì alla Loccioni di oggi, considerata uno dei gioielli italiani della sostenibilità?
«Al centro c’è sempre stata l’attenzione per il lavoro ben fatto, che ci ha resi competitivi a livello mondiale, ma anche per le persone, che questo lavoro lo fanno. Abbiamo un rapporto molto stretto con l’area in cui ci siamo sviluppati e da cui proviene l’80 per cento dei nostri collaboratori. È naturale prendersi cura del territorio in cui operiamo e in cui queste persone vivono. Nasce da qui il proficuo rapporto pubblico-privato avviato con la Regione, prendendo in concessione un tratto del fiume Esino, che abbiamo bonificato e su cui abbiamo costruito la Leaf Community, un esempio di smart-city che produce più energia di quella che consuma. In questo laboratorio di sostenibilità si vive in una casa a zero emissioni, ci si muove con mezzi ecologici e si lavora in edifici a basso impatto, alimentati da fonti rinnovabili ».
Nella Leaf Community si aspira al buono ma anche al bello…
«L’impresa deve sempre seminare bellezza. Il ponte pedonale, che abbiamo affidato a un architetto tedesco molto impegnato sul fronte della sostenibilità, Thomas Herzog, è stato selezionato ed esposto alla Biennale Architettura di Venezia 2018».
Ora è arrivato il momento di adottare anche la valle di San Clemente.
«L’intento è di riportare all’agricoltura le tecnologie che abbiamo creato, per migliorarne la sostenibilità. Siamo partiti misurando la ‘buccia’ della terra, quei primi 20 centimetri di suolo così importanti per la nostra alimentazione e così maltrattati dalle pratiche intensive, tanto da perdere i tre quarti della loro fertilità. Per ricostituire la fertilità perduta, ci vuole la rotazione delle colture. Il nostro obiettivo è dimostrare che l’agricoltura si può fare diversamente e che in questo modo si possono riportare le persone in campagna. Perché, come dice Aldo Bonomi, non c’è smart-city senza smart-land».
Quali sono i progetti che avete avviato?
«Ci siamo dedicati alla filiera del pane, selezionando il terreno, il tipo di grano tenero, la macinatura, fino al fornaio che lavora con la pasta madre e ora produce un pane veramente straordinario. Poi alla filiera dell’olio, cercando di capire di cosa ha bisogno il terreno per produrre meglio. Con la sensorizzazione delle arnie abbiamo appurato che le api producono di più se stanno bene. In prospettiva, contiamo di misurare tutte le filiere, dal campo al consumatore, nell’ambito del progetto Arca (Agricoltura per la Rigenerazione Controllata dell’Ambiente), che abbiamo lanciato insieme a Giovanni Fileni e Bruno Garbini. Lo scopo è riprogettare i percorsi dal suolo alle persone, coinvolgendo le comunità locali e le imprese agricole in chiave di economia circolare».
La tecnologia al servizio della natura.
«La rigenerazione dei territori passa inevitabilmente per l’innovazione tecnologica. Ma anche per la formazione delle persone. Accanto all’abbazia di Sant’Urbano stiamo realizzando una scuola, dove si tratteranno tutti gli aspetti del digital farming, con ragazzi di età diverse, fino all’università. Abbiamo già una collaborazione con la Duale Hochschule di Stoccarda. Perché il futuro si riprogetta insieme ».