Il significato del termine “dialogo” sta tutto nella sua etimologia: dal latino dialŏgus, in greco antico διάλογος, è composto da dià, “attraverso” e lògos, “discorso”. Letteralmente, è quel movimento per cui due o più persone si lasciano attraversare dalla parola.
Ne abbiamo parlato con Johnny Dotti, che propone una riflessione sul tema nel libro “Che cosa cercate? Dialoghi e Vangelo”, scritto con Mario Aldegani ed edito da Vita e Pensiero.
Perché Gesù dialoga?
Gesù, in quanto figlio della trinità (cosa di cui sempre ci dimentichiamo, legati come siamo alla nostra idea di Dio monoteista) è di fatto figlio di un dialogo. E così siamo noi, che siamo fatti a immagine e somiglianza di un Dio trino. Più ci allontaniamo da questa dimensione, più diventiamo somiglianti – per dirla con De André – a dei “cinghiali che fanno le equazioni”.
Con chi sceglie di dialogare Gesù?
Significativo è il fatto che Gesù, così come ce lo raccontano i Vangeli, non cerchi il dialogo: solo alcuni dei 12 scelti e analizzati nel libro sono intenzionali e sono quelli con gli apostoli; gli altri semplicemente gli accadono lungo la strada – pensiamo a Nicodemo e al centurione ad esempio. Gesù quasi non è interessato ad intraprenderli, ma poi cede alle insistenze e accetta. Accetta di lasciarsi attraversare dal dialogo e quindi, lui pure, convertire.
Convertire: in che senso?
Pensiamo al dialogo con la Cananea, una donna pagana, che credeva nel dio Baal: è lei a cercare Gesù, insistendo senza fermarsi davanti al suo rifiuto. Umile, disperata, lo convince a prestarle attenzione paragonandosi a un cagnolino che mangia le briciole che cadono dalla tavola del padrone. Quell’immagine illumina Gesù, lo converte: “Donna, grande è la tua fede!” – ed è la fede di chi davvero crede che tutti siamo uguali davanti a Dio.
Questo ci fa capire come il dialogo sia di fatto espressione della fede nell’altro, sia la strada che ci fa uscire dal nostro “io”, diventando il “tu” dell’altro.
Anzi, di più: il dialogo è l’incontro tra due (o più) “tu” dell’altro, perché per realizzarsi tutti i partecipanti devono riuscire ad abbandonare il proprio sé. Ecco che dunque, in ultima analisi, il dialogo diventa il linguaggio della relazione.
Perché, oggi, entrare in questa relazione sembra così difficile?
Forse perché noi interpretiamo il lògos come ciò che misura e definisce, quando invece, originariamente, è ciò che ci fa nascere alla realtà delle cose. E la realtà, si sa, è misteriosa: non la possediamo né mai riusciremo a farlo.
In questo senso i dialoghi di Gesù sono dialoghi di rivelazione. Pensiamo a quello tra Maria ed Elisabetta: in realtà si tratta del dialogo tra i due feti che portano in grembo – Gesù e Giovanni – e che finisce con un canto – quello del Magnificat – che è figlio del sentire profondo.
Questo sentire non si realizza solo tra due persone: San Francesco ci insegna poi che “altro” non è da intendersi come l’universo che include tutto ciò che ci circonda – oggetti animati e inanimati, con cui è possibile dialogare.
Ciò afferma che il dialogo è quanto si più lontano esista dalla dialettica, scontro di due pensieri in cui uno deve convincere l’altro, così come dal chiacchiericcio, il suo opposto.
Come condurre un dialogo che sia davvero aperto, onesto, veritiero?
Avremmo davvero bisogno di uomini, popoli, istituzioni dialoganti, ma la nostra è una cultura armata: il primo passo per costruire il dialogo è disarmarla.
Solo la fede totale nell’altro, inteso come altro che mi riguarda e sta dentro di me, permette quell’esposizione nuda alla vita, quello scoprire la propria radicale fragilità che sta alla base della relazione tra due “tu”. Ma come è possibile aver fede in un altro da cui devo anche, in qualche modo, difendermi?
Come avviare/riavviare il dialogo con le nuove generazioni?
Bisognerebbe smettere una volta e per tutte di fare le cose per loro e iniziare a farle col loro, a stare con loro, con i giovani. In una società di beni e di servizi, infatti, anche l’aspirazione di fare qualcosa di buono per gli altri entra in un meccanismo asimmetrico – quello del medico e del paziente, dell’educatore e dell’utente, del produttore e del consumatore.
Quando la logica del servizio prevale sull’esperienza, è la vita stessa ad essere sacrificata: la vita è misteriosa, per viverla è necessario esperirla con il corpo, l’intelletto, lo spirito. Anche questo noi dimentichiamo, che il termine “cattolico” significa “integrato”, colui che tiene insieme tutti questi aspetti – e certamente non chi porta il proprio dogma ad altri!
Gesù non faceva altro che questo. Aiutava gli altri a crescere, a raggiungere la pienezza, a scoprire la propria identità, a mettersi a nudo. E lo faceva semplicemente stando con loro, in mezzo a loro, ascoltando, domandando, dialogando.
Questa esperienza possiamo farla tutti e tutti possiamo aiutare gli altri a farla. Insieme.