Il dramma della “Spagnola”
Raccontano che la “Spagnola” colpiva i più giovani e fu un dramma per il mondo intero che si era da poco lasciato alle spalle un sanguinoso conflitto. Tra i cinquanta e i cento milioni i morti, in una terra popolata da due miliardi di persone. Più di mezzo milione nell’Italia di allora, tra il 1918 il 1920, che aveva all’incirca 35 milioni di abitanti.
I morti di malaria e le cavallette
Mezzo milione è più o meno il numero delle vittime, ogni anno, della malaria, malattia che colpisce ancora più di duecento milioni di persone nel mondo, e tra queste tantissime donne e bambini. Per lo più abitanti di quel continente che è stato recentemente devastato dalle locuste del deserto, quelle che noi chiamiamo “cavallette”. Secondo Save the Children sciami grandi 2.400 chilometri, quasi il doppio della superficie della città di Roma, sono stati rilevati nelle scorse settimane nel nord-est del Kenya e si sono spostate verso il Sud Sudan meridionale e l’Uganda orientale. Sciami talmente grandi che possono contare fino a 192 milioni di insetti e che in un giorno possono mangiare la stessa quantità di cibo che consumerebbero 90 milioni di persone. I tre Paesi colpiti stanno già fronteggiando la scarsità di cibo e almeno un milione e mezzo di bambini stanno soffrendo gravi forme di malnutrizione e hanno urgente bisogno di cure.
La mattanza dimenticata dei bambini di Idlib
Un milione invece sono i civili, la metà bambini e donne, costretti a fuggire negli ultimi mesi dagli alloggi che avevano trovato a Idlib, ultima roccaforte dei ribelli siriani e dei miliziani jihadisti, da mesi al centro di un braccio di ferro militare e diplomatico tra Assad e Erdogan avallato da Putin e dalla nostra vigliaccheria. Le infrastrutture sono distrutte così come le abitazioni. I civili sono intrappolati, non possono ritornare a casa. Gli sfollati sono diretti verso i campi profughi, già sovraffollati all’inverosimile, nelle zone settentrionali della città e di Aleppo. È l’ennesimo dramma di una popolazione martoriata e stremata da una guerra che dura oramai da più di nove anni anche se non è più sotto i riflettori dell’opinione pubblica. Ancora una volta, a subirne le conseguenze sono i civili e come sempre i bambini, vittime di quella che viene definita, senza pudore, una vera e propria mattanza. Per 280 mila di loro non c’è la possibilità di studiare. A essere bombardate sono state anche le scuole e gli asili.
La prima pandemia nell’epoca della globalizzazione
Come hanno scritto gli amici del SAE (Segretariato Attività Ecumeniche) ”se ricordiamo tutto ciò non è per imboccare la via della falsa consolazione che afferma: c’è chi sta (o è stato) peggio. Le ragioni sono altre. Se si vuole comprendere questo nostro tempo come un “segno” bisogna coglierlo nella sua specificità. Essa non sta nella sua tragicità; la storia umana è colma di orrori. Tanto meno lo si trova nel porsi la domanda su “dove è Dio in tutto ciò?”; un interrogativo che l’umanità è nelle condizioni di sollevare da sempre. Quanto è peculiare alla situazione attuale è di essere immersi nella prima pandemia dell’epoca della globalizzazione.”
Non siamo in guerra. Siamo in cura
Due, anzi tre, mi sembrano le cose da fare. Anzitutto “smontare” il linguaggio. Fateci caso: lo storytelling che si è insediato prepotentemente di fronte alla pandemia ha assunto a piene manimetafore belliche con una vera e proprio terminologia della guerra. Che forse, guardando ciò che avviene nel resto del mondo, è inadeguato e inopportuno. Non siamo in guerra. Per questo, Guido Dotti, sapiente monaco di Bose, suggerisce di passare dalla narrazione e dalla convinzione di essere in guerra a quella di essere in cura. “Sia la guerra che la cura hanno entrambe bisogno di alcune doti: forza (altra cosa dalla violenza), perspicacia, coraggio, risolutezza, tenacia anche… Poi però si nutrono di alimenti ben diversi. La guerra necessita di nemici, frontiere e trincee, di armi e munizioni, di spie, inganni e menzogne, di spietatezza e denaro… La cura invece si nutre d’altro: prossimità, solidarietà, compassione, umiltà, dignità, delicatezza, tatto, ascolto, autenticità, pazienza, perseveranza… Per questo tutti noi possiamo essere artefici essenziali di questo aver cura dell’altro, del pianeta e di noi stessi con loro.”
Una ricetta preziosa, soprattutto per quando – speriamo presto – bisognerà ripartire.
Su questa barca ci siamo tutti
Da ultimo, a ciascuno di noi è chiesto di far propria la lezione di queste settimane: sentirsi parte di una comunità di destino planetaria, più grande del perimetro nazionale. In un mondo globalizzato, complesso, interconnesso ogni piccolo evento locale può avere conseguenze su scala mondiale. Nel male come nel bene. Per questo, come ripete spesso Mauro Ceruti servono nuovi paradigmi che ci portino ad accettare la complessità del mondo. Lo sapevamo anche prima, forse lo abbiamo ripetuto più volte quando parlavamo di Hiroshima e di pace, di ambiente e di Amazzonia, ma facevamo fatica a crederlo. Ce lo ha ricordato invece con lucidità papa Francesco la sera della benedizione Urbi et Orbi:
Da settimane sembra che sia scesa la sera… presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati… ma tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti.
La fraternità globalizzata
Noi che parlavamo di confini presidiati e di frontiere chiuse. E’ arrivato un virus che non ha chiesto permesso a nessuno. Per vincerlo sono arrivati da noi medici russi e cubani, cinesi e albanesi. Perché il Covid frantuma il mondo ma lo rimpicciolisce. E ci fa sentire tutti più vicini. Non dimentichiamolo, quando tutto sarà finito.