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“Made in Sicily”. Ma fino a quando?

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La manifattura italiana è davvero sorprendente. In Italia abbiamo imparato a trattare di tutto, creando con grande genialità e gusto, e poi con sempre maggiore competenza e flessibilità, nuovi prodotti derivati da materie prima d’eccellenza. Accanto a stoffe raffinatissime, a macchinari dall’impeccabile linea di design, al parmigiano di montagna e all’occhiale in legno d’autore, troviamo anche i succhi, i concentrati e gli oli essenziali di limone, mandarino e arancia rossa di Sicilia.

Salvatore Corleone, uno dei pionieri della lavorazione degli agrumi, iniziò ad esportare alla fine del 1800 l’unico prodotto allora di interesse dei mercati – l’olio essenziale di limone – derivato da una lavorazione manuale che prevedeva il taglio in due del limone, il suo svuotamento e la spremitura della buccia contro spugne di mare. Poi le spugne venivano spremute con un torchio a mano per estrarne l’emulsione. Infine, attraverso un processo di decantazione, si otteneva la famosa “essenza a spugna” apprezzata in tutto il mondo.

Riassumendo: una materia prima di grande qualità legata alle peculiarità del territorio, un’incredibile attitudine tecnologica-artigianale, la ricerca della bellezza e l’esaltazione dei sensi, una capacità di intrapresa che fa leva sulla narrazione di persone, prodotti, territori e le loro relazioni. Sono un po’ queste le caratteristiche che hanno fatto grande il Made in Italy. Come giustamente ha recentemente affermato Stefano Micelli [1], il Made in Italy è ben più di un prodotto, è un’idea del mondo. E’ un progetto culturale. Lo si vede bene in Agrumaria Corleone, così come a molte delle imprese italiane incontrate in questi anni : il Made in Italy è uno stile di vita, di lavoro, di crescita. Secondo Marco Bettiol [2], la proposta commerciale di un’impresa sarebbe successiva alla proposta culturale. Come dire: prima capiamo chi siamo, cosa ci distingue, il valore che produciamo, poi trasformiamo tutto questo in narrazione per i mercati. Tutto semplice, allora? Per nulla, soprattutto laddove la filiera del valore va costruita attraverso pazienti alleanze territoriali, produttive e valoriali.

Agrumaria Corleone non produce direttamente. Dunque per l’approvvigionamento della materia prima dipende da fornitori siciliani, volendo mantenere con coerenza e determinazione la linea tracciata dal suo fondatore e portata avanti con grande intelligenza dai discendenti, di trattare prodotti esclusivamente “Made in Sicily” riconosciuti e apprezzati in tutto il mondo. Oggi in Sicilia le coltivazioni di limoni – solo per fare un esempio concreto delle enormi difficoltà per mantenere vivo il Made in Italy – stanno diminuendo drasticamente. Ci sono problemi di passaggio generazionale e di profittabilità (vale la pena restare a coltivare la terra dei genitori e dei nonni?) che si innestano sulla mancanza di interventi strutturali a sostegno dell’agricoltura di qualità. Così – oltre a far fronte alla mutevolezza delle condizioni metereologiche che impatta su quantità e qualità della materia – diventa indispensabile investire sulla compattezza, stabilità e qualità della filiera per rendere robusta un’alleanza che dà lavoro a molti e che può costituire spazio di crescita futura.

Come raccontano in Agrumaria Corleone, la domanda di estratti ed oli essenziali c’è e si potrebbe fare molto di più. Ma è evidente che non ci sono le condizioni per questo sviluppo. Gli interventi istituzionali sono pochi, quando non inesistenti. Non c’è un disegno, una visione. Mancano strutture ed infrastrutture: relazionali, della mobilità, della connettività, dell’innovazione. Si avverte l’urgenza di policy di lungo periodo a sostegno di quei prodotti che fanno il Made in Italy, cioè la parte più solida e dinamica della nostra economia. In Agrumaria Corleone sono fedeli alla loro storia e all’intuizione del bisnonno Salvatore: si resta in Sicilia e si producono solo prodotti siciliani.

E per far questo si investe in ricerca e tecnologia; si tessono relazioni fatte di mani strette e di visite negli agrumeti; si portano i grandi buyers internazionali a conoscere sul campo i fornitori e a toccare i limoni sulla pianta; si sperimentano nuovi prodotti e processi per raggiungere quegli standard di qualità e di eco-sostenibilità sempre più elevati richiesti dal mercato globale; si diventa narratori di una bella storia di famiglia-impresa su nuovi mercati.

Ma ciò potrebbe non bastare. Se il Made in Italy è una cultura – e capiamo tutti facilmente che lo è – tutti devono metterci un pezzo. Perché la cultura è il “tra” condiviso tra gli uomini e tra le storie, un “tra” che si incorpora in prodotti, processi, appartenenze, relazioni ma anche in dispositivi materiali ed immateriali – dall’autostrada alla banda larga, alle reti di cooperazione e al marketing territoriale – che quell’identità peculiare continua a rigenerare e a rendere riconoscibile. Orgogliosamente riconoscibile. Se così, all’appello per mantenere vivo, creativo e produttivo il Made in Italy manca qualcuno. E questa volta a disertare potrebbero non essere gli imprenditori.

[1] Stefano Micelli, Il Made in Italy? Non è un prodotto, ma un’idea del mondo, Linkiesta, 1.7.2015
[2] Marco Bettiol, Raccontare il Made in Italy. Un nuovo legame tra cultura e manifattura, 2015, Marsilio, Venezia