Frequentemente mi capita di valutare start up italiane, e quasi sempre si intravede la dimensione del sogno ma non del bisogno, alla base del quale risiede tutta la potenza creativa che possiede la dimensione del successo.
Abbiamo qui invece in questa idea, nata da due ragazzi emiliani ex-bancari, come amano definirsi, e quindi di per sé già furbescamente simpatici ai più, la realizzazione di uno scopo utile e durevole.
Colpisce il fatto che non siano riusciti a tutt’oggi a realizzare il loro prodotto principale, la bottiglia in acciaio speciale 18/8, in Italia e questo fa già di per se intravedere i limiti che molto spesso vengono nascosti alle giovani tribù di aspiranti talenti.
Parlando con giovani creativi e sognatori in qualità a volte di mentore, a volte rappresentando loro e fastidiosamente la coscienza del mercato, pare che tutto sia semplice nel mondo del virtuale.
C’è la sensazione sbagliata e distruttiva che sia sufficiente sviluppare un applicazione, pubblicarla e automaticamente si realizzi il successo.
Niente di più errato, se non si riparte infatti dalla necessità, non avremo che giovani disillusi e defraudati di tempo prezioso, traghettati in un limbo indefinito di “fab lab”, (dall’inglese fabrication laboratory), di “co-working”, e, destinati a essere “followers” senza un futuro mercato di sbocco reale.
Ciò che invece più manca è la figura dell’artigiano del digitale come la definirebbe l’amico Andrea Granelli, o, utilizzando un linguaggio più tecnico, dobbiamo ritornare a una strategia “market-driven” e focalizzarci di meno su quella “technology driven”.
In questo contesto si è sviluppato il progetto di Matteo e Giovanni che risponde a un esigenza pratica e quotidiana con una risposta di alto livello in merito a design e praticità abbinando accessori ancor più interessanti del contesto stesso.
Un concetto comune, come quello del bere acqua, se vogliamo, ma in grado di apportare positività e guadagno in un mondo che si trasforma e che comprende al contrario l’inutilità di invadere i nostri territori e supermarket con un bene indispensabile che deve essere reso a tutti fruibile nella sua accezione più razionale, allo sgorgare di fonte.
Serve quindi anche un nuovo valore di design, come affermava Roland Barthes in Miti d’oggi (1957), “L’oggetto è il miglior portatore del soprannaturale (…) la materia è molto più magica della vita”.
Forse, i nostri due amici emiliani non se ne sono resi conto, hanno agito d’istinto, o forse no, questo non ci è dato sapere, ma hanno letto, tradotto e attualizzato il passaggio dal paradigma materialista a quello comunicativo, che si compie con l’avvento dello strutturalfunzionalismo (in particolare nelle opere di Levy Strauss).
Per la teoria strutturalista gli oggetti scambiati nell’atto di consumo assumono un valore simbolico attraverso il quale si attua il passaggio dalla natura (bisogni fisiologici) alla cultura (bisogni indotti).
Con il consumo non si realizza, quindi, solo uno scambio di beni ma vere e proprie informazioni più significative ed espressive dei linguaggi verbali stessi (M. Douglas, 1984).
Il sistema di consumo insomma va inscritto all’interno del più vasto sistema culturale di una società: non si potrà mai spiegare la domanda di un bene basandosi soltanto sulle sue proprietà materiali, ma interrogandosi soprattutto sulle valenze simboliche apportate dal sistema comunicativo su quel bene.
Lo stile di consumo finisce per sovrapporsi allo stile di vita perché ne rappresenta l’epifenomeno più vistoso e concreto, destinato a comunicare un profilo personale, sociale e valoriale, e funzionale all’identificazione, sia di chi lo manifesta, sia di chi lo osserva.
Ecco perciò che bere acqua da un contenitore multiuso e riciclabile diventa un gesto identificativo di un nuovo essere, responsabile, curioso, attento e positivo.