Riporto qui la versione integrale di una mia “chiacchierata digitale” con la redazione del settimanale online Parmateneo, ripresa poi in alcune frasi nell’articolo “Il Covid-19 può rilanciare la politica o è soltanto un’illusione?” del 21 aprile 2020, a firma da Laura Storchi. Le domande redazionali erano in verità cinque, ma qui mi fermo alla quarta, per abbreviare.
Ho anche rivisto e integrato numerosi passaggi, per adattare il testo al contesto comunicativo di questo blog, e insieme, aggiungo, a quello del corso di Sociologia delle emozioni collettive che tengo per il Corso di Laurea Magistrale in Giornalismo, cultura editoriale e comunicazione multimediale (nel cui ambito peraltro si realizza il settimanale Parmateneo). Le lezioni del corso si sono interrotte per le note ragioni due mesi or sono, e la didattica è continuata in varie forme ‘a distanza’ .
Mi auguro che anche questa forma-intervista possa essere utile a riflettere sulla rilevanza dei processi emozionali condivisi per la vita eco-sociale umana in generale, e in questa inedita condizione, in particolare, dove gli umani sono colonizzati per tutto il globo (incluse le popolazioni più avvezze a colonizzare, presumibilmente le più spiazzate) da un inatteso, invisibile e pervasivo agente non umano.
Domanda 1. Il Coronavirus ha portato diversi Paesi a instaurare misure di limitazione delle libertà personali e di sorveglianza che, nonostante minaccino l’assetto democratico dello stato, sono state accettate dal “basso”, da un popolo che si è scoperto impaurito e patriottico. In molti temono che queste misure possano mantenersi finito il periodo d’emergenza. Pensa che nelle persone possa permanere un sentimento di paura e che, per questo tollereranno ciò che è loro imposto o prevarrà in loro l’interesse per altri diritti (libertà di espressione, di movimento, tutti i diritti relativi alla privacy)?
Rimanendo per brevità all’Italia, consentitemi di partire da una premessa piuttosto diversa: non mi sembra affatto che il popolo italiano si sia scoperto oggi impaurito al punto da mostrarsi disponibile a essere governato secondo criteri non democratici. Erano anni che le cose andavano, o se vogliamo precipitavano, in questa direzione…
Che cos’era, domando, il governo gialloverde, caduto solo pochi mesi fa – e caduto, si badi, solo per uno scivolone del suo sfarfallante pezzo da novanta che chiedeva apertamente i pieni poteri, non certo per un sommovimento democratico popolare –, che cos’era, dicevo, se non una risposta in chiave nazionalista, antieuropeista e antidemocratica alle crescenti paure collettive di impoverimento progressivo, dopo i sogni di espansione illimitata degli anni 90 e la caduta rovinosa di quei sogni nelle grandi crisi esplose tra il 2007 e il 2011? (v. POST).
Una risposta, cioè, alle dilaganti paure di perdere il livello dei consumi abituali? E di venire schiacciati, ancor più, su di un presente privo di futuro, se non addirittura carico di un futuro ecologicamente minaccioso? Paure che avevano alimentato, non dimentichiamo, risentimenti di massa elettoralmente maggioritari, rivolti per così dire verso il basso (i migranti e chi li aiutava) e verso l’alto (le cosiddette élite, la maledetta Europa)?
E l’elettorato italiano non aveva forse sostenuto in netta maggioranza quel governo, persino di fronte alle sue più vistose inconcludenze e alle sue smaccate ingiustizie verso i migranti e i richiedenti asilo?
Le mie non sono domande, si badi, sulla natura dei nuovi e nuovissimi ceti politici emergenti fino a ieri, per quanto protervi e incompetenti, per difendere quelli, ahinoi improvvisati e spesso ballerini, di oggi. Sono domande, come del resto cerco di fare sempre, in forma riflessiva e non accusatoria, sui più ampi processi emozionali e sociali collettivi al cui interno prendono forma anche le propensioni e le proposte politiche.
Non diamo al Coronavirus, voglio dire, e neppure alle misure di confinamento di massa che ne sono seguite (si sarebbe preferito che non ci fossero? riusciamo a immaginare le conseguenze, per la tenuta degli assetti democratici?), il potere ipnotico di distrarci da come eravamo messi appena prima, e al fondo ovviamente continuiamo a esser messi, in forme presto presumibilmente aggravate e appesantite.
Tutto ciò premesso, il succo della mia risposta alla vostra domanda è questo:
la libera e diffusa accettazione di massa delle attuali misure di limitazione delle libertà porta in sé sia la venatura dell’antica attitudine gregaria ad affidarsi a uomini della provvidenza sia la fragile eppur viva attitudine democratico-solidale a farsi carico del benessere degli altri… Mettiamo al centro, piuttosto, la crisi radicale di civiltà nella quale siamo profondamente immersi da tempo, crisi che l’arrivo del Covid-19 ha radicalizzato drammaticamente e reso più scoperta e ineludibile, non certo creato da zero.
Gli assetti democratici, non dimentichiamolo nel formulare le nostre critiche, sono un miracolo sghembo e improbabile delle vicende umane. Si tratta di assetti per propria natura sempre in crisi. Non fingiamo che siano divenuti patrimonio scontato dei popoli che li hanno adottati (men che meno nel nostro frammentato, familista e iperconflittuale Paese), e che vengano messi in crisi ora da queste misure emergenziali.
Quegli assetti sono già da tempo alle corde in tutto il mondo, dove le figure autoritarie ottengono un credito crescente da ben prima del Covid-19. Né dimentichiamo infine che, come insegna Hobbes, è dal fondo delle nostre paure, sempre, che emergono e riemergono le forme del politico…
Domanda 2. Secondo lei è corretto usare le metafore, che circolano da mesi sul virus, di guerra e nemico o ciò contribuisce ad aumentare gli atti xenofobi nella popolazione?
Devo fare anche qui una premessa: dovremmo anzitutto non dimenticare che le metafore – tutte, sempre – sono più forti di noi. Le metafore sono meta-forme. Non possiamo mica sceglierle a piacimento. Non si fanno ‘usare’. Quando le evochiamo ci siamo già emotivamente e simbolicamente dentro. E quella dell’unione contro un Nemico è antica come le comunità umane, in tante forme diverse, armate e non.
E’ una metafora da millenni molto efficace, per la stessa sopravvivenza delle comunità umane. Per dare forma cioè al sentimento del Noi. Ed è per questo, non perché piaccia di più a qualcuno, che continua ad abitarci in profondità, e a sbucar fuori di continuo, a cercare di dare un senso ordinato, una prospettiva chiara, alle nostre incertezze, paure, angosce.
Nella metafora della guerra al Nemico è immerso spesso persino, magari inconsapevolmente, chi giudicando ‘scorretta’ questa metafora si propone di combatterla frontalmente – assumendola dunque come corpo estraneo da espellere. In sanità e in medicina (pensiamo alla “guerra al cancro”) ricorre addirittura nominalmente, con una disinvoltura che non mi pare abbia mai suscitato scandalo, se non in minoranze limitate (delle quali cerco da parte mia di far parte).
Ciò premesso, rispondo: concordo sulla pericolosità del ricorso alla formula della ‘guerra al virus’, ma con la clausola che smarcarsene davvero è molto difficile, non basta certo desiderarlo.
Per riuscire a farci i conti credo che convenga partire da un’altra metafora, quella della convivenza. Una metafora che stiamo abitando da sempre in vario modo, guerra inclusa. Che comporta fatiche maggiori di quelle che riusciamo ad ammettere.
Per accettarne la sfida ci facciamo infatti aiutare in ampia misura da ‘rimedi’ che pure ci appaiono discutibili, come le carcerazioni, le espulsioni, le emarginazioni, le schiavizzazioni, le colonizzazioni, le psichiatrizzazioni, le farmacodipendenze, le disuguaglianze, le oppressioni di genere, le estrazioni distruttive di risorse dal pianeta, i capri espiatori.
La metafora della convivenza tenta costantemente, generosamente, di sopravanzare quella della nuda guerra, la quale ne è in fondo una sorta di sottospecificazione: uno dei modi insomma (da comprendere prima che giudicare, sennò non sappiamo cosa stiamo giudicando) ai quali si ricorre per tentare di influire, dal proprio posizionamento, sulla più ampia convivenza.
Diceva von Clausewitz che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, ma personalmente tenderei a invertire i termini di questa frase celebre: è la politica a essere il tentativo di continuare la guerra con altri mezzi, senza cioè arrivare, se possibile, alla violenza più distruttiva. Tentativo sempre parziale. E sempre sull’orlo del fallimento, aggiungerei.
A chi continua a pronunciare la parola guerra, in rapporto al Coronavirus, non direi, per continuare a rispondere alla domanda, «Sei scorretto!», ma: «Prova ad allargare lo sguardo, a estenderlo a quel che di fatto stiamo concretamente tentando di fare, con il virus e non solo, al di là e al di sotto delle schermaglie intorno alla parola guerra. Quello che stiamo tentando di fare è molto di più, e più difficile, che guerreggiare: è tentare di convivere. Convivere con il virus, e insieme, naturalmente, tra noi. Noi umani e noi viventi. In una situazione fattasi di colpo molto drammatica».
Ma so bene che ciascuno vede quel che vuol vedere, e dunque mi limiterei a dire quel che sembra di scorgere a me – libero l’interlocutore di fare quel che ne crede. E la prima cosa che mi par di vedere è una matassa incessante e spesso grigia di pratiche di lavoro, cura, servizio, comunicazione, trasporto, amministrazione, negoziazione, riparazione, eccetera: reti quotidiane che rimangono per lo più invisibili, non ‘eroiche’ come battaglie più o meno epiche.
E a proposito di epica: neppure le cosiddette ‘battaglie’ condotte sul ‘fronte’ da medici e infermieri dovremmo considerarle ‘eroiche’, come ahinoi accade, con l’effetto più o meno involontario di banalizzarle e de-umanizzarle, all’opposto del valorizzarle.
La metafora della convivenza, una volta che sia sciolta dagli abbellimenti edificanti e dalla fuga onirica negli auspici, fin troppo ovviamente condivisibili, che in futuro si possa convivere con maggior gioia e giustizia, non è propriamente facile da abitare. Dobbiamo saperci aiutare reciprocamente a farlo.
Poiché convivere, vivere-con, implica la sfida dell’incontro con l’alterità, anche nelle sue implicazioni più sconosciute e inquietanti.
Ovvero: la sfida a saper accogliere, nelle nostre relazioni quotidiane, non solo quella faccia luminosa dell’alterità che ci sorprende portando nelle nostre esistenze bellezza, gioia, grazia, cura, conforto, speranza, amicizia e amore, ma anche quella faccia oscura che ci turba portando in esse incertezza, angoscia, inimicizia, dolore, impotenza, follia… morte.
Quella ‘faccia’ dell’alterità che un pipistrello sconosciuto ci ha presentificato ora in modo così tanto perentorio, ma che è da sempre parte integrante della condizione umana.
Una parte non separabile col bisturi dalla prima – e neppure con un vaccino… Quella parte che tanto facilmente, e comprensibilmente, ci viene di metaforizzare come Nemico da levare di mezzo.
Una condizione, quella della convivenza, fragile e precaria, che richiede investimento costante nella cura fraterna e democratica delle relazioni, umane e viventi, cariche di imprevisti e di ingiustizie – e sempre in crisi – delle quali siamo parte.
3. Pensa che questa costante ricerca di un “nemico” da incolpare e contro cui lottare possa avere, dopo il coronavirus, effetti politici significativi?
Certo che sì, e credo di aver già in sostanza risposto, almeno in parte. Aggiungerei soltanto, collegandomi alla prima risposta, che per interrogarci sulla natura di questi prevedibili effetti politici infausti dovremmo continuare a chiederci: quali sommovimenti emozionali stanno covando appena al di sotto del bersaglio Covid-19?
Prendiamo due forme estreme di questi ‘sommovimenti emozionali’:
– risentimenti intensificati dal terribile sconquasso esistenziale, economico e sociale in atto, proiettati a cercare rimedio, magicamente, nel sacrificio di capri espiatori reclutati ai margini del consorzio sociale e appena al di là del confine, sotto la guida di roboanti inviati dalla Provvidenza;
– nuove capacità di attenzione reciproca, di cura fraterna delle relazioni e di riforma radicale delle istituzioni democratiche comuni, nell’orizzonte di finalità collettive ispirate a criteri di giustizia, accoglienza e libertà, nel quadro di una Europa rinnovata e di un contenimento progressivo delle emissioni di CO2 nell’atmosfera.
Il calcolo delle probabilità sembra propendere, non da oggi, per la prima delle due risposte. Ma naturalmente, a nessuno di noi – situati come siamo in chissà quale punto degli assai più vasti campi relazionali e delle molteplici traiettorie temporali di cui siamo parte, sempre e solo parte – è dato sapere.
Ci compete di agire dentro una profonda incertezza, scommettendo, prima ancora che prevedendo. Io scommetto, diciamo per farla breve, sulla seconda delle due possibilità, prescindendo da ogni calcolo delle probabilità…
Domanda 4. Dicono che dopo l’emergenza tutto cambierà. Secondo lei cambieranno le priorità delle persone? Questo potrebbe avere effetti politici?
Certo, tutto è già ora cambiato, anche se non ce ne avvediamo (v. Pillola), e continuerà a cambiare. Se nel senso di confermare le tendenze già in atto da prima o nel senso di cambiare l’ordine usuale delle priorità… rimando alla risposta precedente.
Sarebbe necessario, certamente, un grande sforzo di immaginazione politica. Nuovi carismi, anche, come solo nelle epoche di grande crisi spirituale accade che possano germogliare. Carismi all’altezza della forza evocativa di un Papa Francesco, la sola figura che sembra in grado oggi, di fatto, di distoglierci per qualche momento dall’ipnosi da Coronavirus – e però figura non politica, ed è falsamente consolatorio, come si fa talora, prenderla per tale, accusando altri di non fare altrettanto.
Una ipnosi, mi si lasci però aggiungere – poiché questa intervista si sta svolgendo in un contesto giornalistico, e per una pubblicazione, Parmateneo, che si realizza nell’ambito di un Corso di studi in giornalismo, che mi vede pure impegnato come docente –, una ipnosi, dicevo, nella quale il mondo del giornalismo ha una grande responsabilità di fatto. Una responsabilità alla quale non so quanto corrisponda una adeguata consapevolezza.
Mi chiedo: quanto ambisce a tenerci incollati alla ipnosi da Coronavirus, momento per momento, la gran parte dei giornalisti, della carta stampata, del web e della televisione? In quanti, mi verrebbe da chiedere provocatoriamente, sono perdutamente innamorati del virus? Dei brividi di angoscia collettiva che procura e della gloria che questi brividi porta alle loro pratiche operative quotidiane?
Per completare la mia risposta alla vostra domanda, se le cose cambieranno, direi: come le cose cambieranno dipende molto dal mondo dei giornalisti, da come stanno raccontando, già ora, quel che ci accade. Più di quanto siamo avvezzi a pensare. La cosiddetta ‘popolazione’, i cosiddetti ‘cittadini’ e i cosiddetti ‘politici’ e altri attori sociali ancora, nella società dell’informazione globale incessante (sottolineo: incessante), non sono delle entità ‘naturali’ non-raccontate, date come ‘nude e crude’ prima e indipendentemente da come vengono raccontate, momento per momento, dal sistema globale dell’informazione: ne sono il frutto.
Il mondo globale dell’informazione continua, preso nel suo insieme (che è anche contraddittorio e conflittuale, beninteso), ha una responsabilità formativa enorme, immediatamente politica, come mai prima nella storia umana. E la occulta però spesso, aggiungo per continuare nella provocazione, sotto l’alibi oggettivista della missione di informare – come si dice – intorno ai cosiddetti fatti.
Come se i fatti fossero ‘cose’ che s’impongono all’attenzione umana ‘da fuori’ per forza propria, magicamente, diventando ‘informazione’ senza concorso attivo e creativo del descrittore, salvo errore o malafede. E venendo poi ‘trasmesse’, come si suol dire con un verbo rivelatore, ad altri, rimanendo magicamente intatte, sempre salvo errore o malafede.
Senonché, c’è una questione che viene prima del tema dell’errore e della malafede. La questione di che cosa si intende con le parole ‘fatto’ e ‘informazione’. Che non sono e non possono non essere cariche di ambivalenze e ambiguità: mai in-nocenti.
L’informazione non si ‘trasmette’ mai, si crea sempre, volenti o nolenti, almeno finché siamo tra vivi, come ho avuto occasione di argomentare e sottolineare varie volte, nei miei corsi e non solo (v. La conoscenza ecologica, Cortina 2010, cap. I e Partecipare stanca, Battei 2015, Introduzione).
Posto che in ogni attimo le ‘cose’ che accadono e non accadono nel cosmo sono infinite, letteralmente infinite, e che nessuno sguardo né orecchio umano è situato né mai sarà situato al di fuori del cosmo, ne consegue che a trasformare operativamente quell’infinito in alcune manciate limitate e finite di segni e segnali di un qualche genere – chiamate ex post appunto “fatti” – sono sempre azioni umane, concretamente situate in chissà quale punto del cosmo.
E nella produzione di quelle manciate di segni e segnali che costituiscono le mappe in base alle quali momento per momento percepiamo, sentiamo, pensiamo, giudichiamo e interagiamo – questo volevo sottolineare –, mai come oggi è attiva una vastissima rete di giornalisti e altri co-facitori quotidiani di ‘fatti’, che interagendo febbrilmente scelgono momento per momento ‘che cosa’ battezzare, confermare o negare come ‘fatto’, e scegliendo insieme, per caratterizzarlo, parole, virgole, gesti, inquadrature, immagini e tonalità, tra infinite possibilità – infinite letteralmente.
I giornalisti non sono soli, beninteso, in questa incessante opera ideativa, che coinvolge in vario modo tutte e tutti noi. Né sono certo i soli a condividere la radicata superstizione, de-responsabilizzante, per la quale le azioni del descrivere e del trasmettere sono o possono essere in-nocenti. Si trovano anzi in compagnia di molti autorevoli scienziati e studiosi, nonché di larga parte delle persone cosiddette comuni, nella grande tribù moderno-occidentale. Ma ciò non attenua a mio parere le loro responsabilità – anzi…