Quando ci muoviamo in luoghi conosciuti, o su percorsi definiti, il problema delle mappe e delle guide è tutto sommato limitato. Non ci serve un navigatore o una guida per tornare a casa dal lavoro, se andiamo in autostrada da Milano a Firenze, se passeggiamo sfaccendati per il centro della nostra città. Ne abbiamo bisogno quanto più abbiamo fretta, ci aggiriamo in luoghi sconosciuti, dobbiamo scansare possibili pericoli.
Generalmente, quando qualcosa si reputa servire poco, tendiamo a curarcene in modo superficiale, a darla per scontata. L’abbiamo fatto con i navigatori satellitari, con i buoni propositi e con i leader, ovvero tutte le persone alle quali abbiamo delegato parte della nostra sicurezza e del nostro futuro, salvo trovarci oggi in circostanze eccezionali a chiederci se sanno quello che fanno e se siamo in buone mani. Perché oggi abbiamo spaventosamente bisogno ora e ne avremo ancora più bisogno “dopo”.
Abbiamo trascurato il problema della guida perché ritenevamo “prima” di non averne realmente bisogno, di muoverci tutto sommato all’interno di sentieri tracciati, e di essere anche illusoriamente autori del nostro destino. Questa perdita di centralità della leadership ha indubbiamente indebolito le leadership stesse, la competizione per raggiungerla, la qualità delle persone che le incarnavano, il senso di missione e di responsabilità di cui è investito chi guida delle persone, dal Presidente della Repubblica all’assessore comunale, dall’amministratore delegato al capufficio. Tanta parte del dibattito pubblico di “prima” e dei suoi protagonisti, anche nelle schermaglie più accese, poteva essere accettato solamente se lo si considerava alla stregua di uno show sgangherato, con pochissime conseguenze sulla nostra vita. Alla stessa stregua, ritenendo che in qualche modo la nave andasse e che dovessimo occuparci di “noi”, abbiamo lasciato correre i buchi nei leader economici, nell’informazione, finanche nella sfera dei rapporti lavorativi. La crisi del 2009 ha abbassato drammaticamente ogni aspettativa, se le cose stavano ancora in qualche modo in piedi, se a fine mese si prendeva lo stipendio, se non eravamo messi come la Grecia, allora come si dice a Roma “scialla”, va bene così.
Oggi non è più scialla niente, e non lo sarà per molto tempo.
Siamo con terrore alla ricerca di una guida, della strada, di rassicurazioni. Le cerchiamo oggi innanzitutto da un’autorità non democratica come gli scienziati e i competenti, ai fieri detrattori dei quali appena due anni fa è stato tributato un voto larghissimo in Parlamento e che abbiamo permesso per superficialità che fossero ridimensionati nelle loro prerogative (di sostegno alle decisioni, non di oracoli). Le cerchiamo dalla politica, avendo a turno nutrito seri dubbi che molti, quasi tutti, dei suoi protagonisti fossero non idealmente distanti, ma unfit al ruolo. Le cerchiamo nei nostri capi ufficio, nei nostri fornitori, nei nostri clienti, dei quali abbiamo magari fino a poco tempo fa assai dubitato senza fare nulla, perché scialla.
Agli scienziati chiediamo di salvarci e di far finire presto questo supplizio, ai politici di governare il caos e di evitare le rivolte per la strada, agli altri di salvaguardare il nostro posto di lavoro e il nostro reddito, continuare a pagare le fatture, farci arrivare la materia prima.
Responsabilità e fiducia, da questioni a basso voltaggio in una società cinica e atomica sono diventati oggi e saranno sempre di più questioni incandescenti per la società del dopo, in cui “nessuno si salva da solo”.
Torniamo a guardare con enormi aspettative ai leader, quelli che ci siamo trovati o che abbiamo eletto, votando sempre meno perché ci importava sempre meno, quasi sempre perché meno peggio degli altri, o arguti da talk show, o ben posizionati sulla timeline.
Volevamo Churchill a gestire la crisi, non ce l’abbiamo, non possiamo cambiare, tocca fidarsi.
Dal lato della leadership, resa sempre più casuale la selezione delle élite e desacralizzata ogni autorità, il carico di responsabilità è enorme, spaventoso. Mi ha molto colpito ieri la notizia del suicidio di Thomas Schaefer, ministro delle finanze dell’Assia, il Land tedesco che comprende Francoforte. Il politico della CDU si è gettato sotto a un treno, a quanto sembra schiantato dal peso delle aspettative dei suoi cittadini in termini di aiuti economici a seguito della crisi. Spero sarà l’unico caso, ma è un’immagine di drammatica potenza del carico di attesa della popolazione nei confronti dello Stato, in tutte le sue articolazioni e in tutto il mondo. Sono certo che anche chi guida un’azienda, non importa di quali dimensioni, o qualsiasi altra organizzazione da cui dipendono la serenità e il benessere economico di altre persone senta, o almeno dovrebbe avvertire, la medesima pressione. Nessuno può permettersi di abbandonare la nave, tocca essere responsabili.
Autorità, delega, potere, persino intermediazione (doveva essere finita, remember?) tornano ad acquisire senso, profondità, anche un po’ della sacertà perduta. La tecnica, la tecnologia, è ovviamente ovunque in questa narrazione, serve a contare i contagiati e a tracciarli, a farci lavorare, a informarci, a intrattenerci e speriamo presto a trovare una cura, ma oggi sembra rimpicciolita, riposizionata al ruolo di attributo del potere, di instrumentum regni. Non più usati o marginalizzati da questa, lo Stato e i poteri usano la tecnologia. Ogni dibattito sui confini dell’applicazione tecnologica è politico nel senso che sono gli uomini, le autorità, il potere a ridisegnare il perimetro del “lecito” (quanto e come posso tracciare i cittadini) rispetto al “possibile” (il panopticon digitale).
Uno Stato che torna forte anche a discapito della forza delle élite che lo guidano o concorrono alle sue scelte è un dato nuovo e inaspettato (non il solo ultimamente), con cui è necessario fare i conti per il “dopo”.
Può essere una catastrofe se lo si affronta male, dove “male” significa che vi sono enormi aspettative e poca fiducia da un lato, enorme potere e poca responsabilità dall’altro. Leader narcisi, ancora convinti di parlare ai propri fan su Twitter, o che vellicano i peggiori istinti, o che si preoccupano di perderci il meno possibile, cittadini cinici e disperati, voraci per sé e disinteressati a chi viene dopo, possono essere un impasto terribile e portare a distopie che fa paura anche solo pensare.
Oggi governanti e governati, manager e opera, uomini e caporali sono quasi tutti pugili stanchi e molto spaventati, chi da un pugno per abbattere l’avversario rischia di cadere a sua volta, sfinito. Responsabilità e fiducia sono gli elementi che li possono tenere in piedi. Non promettere cose impossibili, non titillare gli istinti più bassi, non dire corbellerie, non pensare ossessivamente e solo al proprio tornaconto è quello che ci si aspetta da una parte. Non chiedere la luna, non cedere alla pancia, non prendere più del necessario, non cedere a istinti tribali è quello che ci si aspetta dall’altra parte.
La ricostruzione, il “dopo”, sarà sin dall’inizio il banco di prova dell’esistenza o meno di una consapevolezza diversa, dell’aver imparato la lezione.
Per allontanarci dalla distopia serviranno dosi massicce di discontinuità, innovazione e generatività. Discontinuità perché non abbiamo lasciato il migliore dei mondi possibili. Innovazione perché saper utilizzare le tecnologie, l’hanno capito in molti in questi giorni di smart working, non è un gioco per i nipoti, ma una condizione di cittadinanza e un’assicurazione sulla vita. Chi è escluso dalle competenze tecnologiche almeno di base è un cittadino, un imprenditore e un lavoratore debole e oggi togliere competenze è togliere diritti. Generatività, “agire che ammette l’esistenza di un prima, di un adesso e di un dopo, in relazione a cui si assume la responsabilità del proprio darsi, accettando di essere aperti a ciò che non si conosce”, come bussola morale delle proprie azioni di leader e di follower.
A guardia di queste parole d’ordine delicatissime ci sono leader e cittadini stanchi e improbabili, ma abbiamo solo questi, dobbiamo farceli bastare.
Già molto presto sarà possibile capire come tira il vento, misurando la maggiore o minore vacuità delle dichiarazioni, gli appetiti più o meno moderati delle corporazioni, il livello di attenzione verso chi sta fuori, chi non ha posizioni da difendere, soprattutto verso i giovani e l’ambiente. Capiremo subito chi ha imparato la lezione e chi no.
Sarebbe bello se quei sistemi di controllo e lettura fine dei dati di cui oggi si parla per fermare il contagio, e che sollevano inquietanti dubbi sui nostri diritti civili, potessero essere anche strumenti pubblici di controllo pubblico di come saranno spese le risorse per la ricostruzione, dell’impatto delle misure, dell’emergere di nuove priorità. Un informatico di Matera, mago degli open data, ha costruito e aggiorna una mappa open source dei contagi diventata in breve un punto di riferimento per le informazioni sull’evoluzione del virus. Un esempio tra tanti, a riprova che la tecnologia potrà “dopo” avere un ruolo fondamentale nel rifondare le relazioni tra governanti e governati, rafforzando la responsabilità con il controllo di un’opinione pubblica più attenta.
Perché fidarsi è bene, sapere è meglio.
Paolo Manfredi