Ivo Lizzola è un professore universitario, è ordinario all’Università di Bergamo, ha riflettuto molto sui percorsi dedicati alla “cura” delle persone. Ha elaborato un’etica della cura che tocca molteplici aspetti della persona (dai giovani drop out, ai carcerati). A lui chiediamo, in questa intervista, una riflessione sul “senso” di questi giorni tragici. A partire dalla sua esperienza in una zona tremendamente colpita come il bergamasco.
Oggi ancora pagine intere di necrologi su L’Eco di Bergamo. Dodici, come da due settimane. Che fanno numeri di certo più alti di quelli ufficiali. Un rosario di volti, di sguardi, di sorrisi; e costellazioni di famiglie, di prossimità. Storie, relazioni, progetti di vita, memorie, speranze, promesse, unicità… che quasi scivolano via in uno sciame. Come inghiottiti in un cielo che si è fatto stretto.
In una rapidità del finire che quasi nessuno spazio e possibilità lascia a racconti, consegne, lasciti, gesti, congedi. Bruciati. E ognuno spera siano almeno un poco serbati nella carezza sconosciuta di un infermiere, un medico, sfinito, sfinita. Pure lei o lui lontano e separato dai suoi cari, a loro protezione.
Cosa resta alfine, cosa regge di queste morti “affollate”, affidate, disperse? Altri popoli e luoghi del mondo hanno continuato a conoscere fino ad oggi nelle guerre e nelle carestie, siamo noi che le reincontriamo dopo generazioni, attoniti. Restano forse il segno, la traccia d’amore, le dedizioni e le promesse: poco più d’un seme.
Professore, in questi giorni, la pandemia che ha colpito l’Italia, in modo particolare la sua Bergamo, sta facendo interrogare in profondità l’ opinione pubblica italiana. Tra questi anche teologi e filosofi. Siamo alla ricerca di un senso a questi giorni. Nel giro di pochi giorni il nostro vivere è cambiato. Viviamo sospesi in momenti in cui fa da padrona l’incertezza sul futuro..
L’incertezza ci è entrata dentro, prima ci preoccupavamo del progetto e della previsione sul futuro, del possibile e del controllo. Affaccendati per assicurarlo, svilupparlo, sperimentare innovazioni, nuovi incontri. C’era scontatezza, diritto, merito, per alcuni anche successo … Vita dalle emozioni e dalle novità… scontate. Era il mio tempo, il futuro mio, frutto delle mie avventure e delle mie intenzionalità.
Bastava non stare troppo vicini alle realtà umane e sociali dove non si può che provare a vivere, nei margini e nei vuoti dei paesaggi interiori, nelle fratture esistenziali: l’illusione per molti era servita.
Ma la vita è precaria, flottant scriveva Paul Ricoeur, incerta e titubante. Ci si trova in vita prima d’ogni esercizio di volontà. E in una “certa necessità di esistere“ – scrive il filosofo. Ma la vita “poi sfugge, si sottrae al controllo”: non si regna su di essa”. Sí, occorre continuare a volerla, sceglierla, la si deve curare, coltivare, anche se poi, in qualche modo, ti lascia.
Stanno morendo tanti anziani e tanti grandi anziani. Le memorie, le continuità di tante storie locali, a volte la tenuta delle relazioni. Muoiono tante donne e tanti uomini comunitari, volontari, persone cariche di saperi e racconti. Testimoni.
Tanti, tutti insieme. Senza avere tempo di celebrarli, di narrarli, di tenerli un po’ nei rosari dei ricordi, dei debiti, delle Ave Maria tra persone raccolte attorno a loro. Come se una generazione venisse decimata. Di una comunità si strappassero radici. Come riseminare riprendendone le consegne?
Sono, anche, i giorni cui si fa esperienza della “distanza” : la distanza di un metro, il divieto di “toccare, di baciare , di abbracciare”. Paradossalmente per mostrare attenzione all’altro devi stare ben lontano. Gabriel Marcel diceva che il “corpo ricorda”. Stiamo sperimentando un’ altra “corporeità”?
C’è una distanza che è nei corpi e che è dei corpi che noi siamo. La sentiamo mordere, radicale: ci sono corpi sommersi e corpi salvati. Corpi esposti, tremanti; corpi in mani d’altri. Corpi rinchiusi e che si sentono vite senza riparo.
In questi giorni molti si sentono sommersi, presi dalla malattia non conosciuta e dagli apparati sanitari. Sentono di non appartenersi più. Gli altri, per ora salvati, da un lato temono di scivolare nel gorgo, dall’altro sentono il peso di una ingiustizia e di una colpa non imputabile.
Con studentesse e studenti, fascia d’età un po’ più protetta oggi, abbiamo riletto I sommersi e i salvati di Levi, le pagine sulla zona grigia, utili a leggerci dentro. Anche a trovare forme di disposizione e dedizione, semplici gesti buoni e giusti. Come quelli di Silvia che mi scrive: “Grazie per la lezione a distanza di ieri. Non ho preso parola perché ero un po’ in lotta con me stessa. Mi capita in questi giorni di sentire un po’ il peso della mia sensibilità, e un po’ di colpa. Come se fossi arrivata al limite, come se non potessi più sopportare di “sentire” o di “compatire”. Per uscirne mi sono dovuta inventare un modo per essere presente. Così mi sono svegliata presto, ho impastato le sfoglie e il pane e ho portato pane fresco ai miei anziani vicini e i croissant ad una mia amica che lavora al Pronto Soccorso, nel reparto Covid.
Mi sono sentita viva, bene. Credo lo farò anche domani”.
Il gesto “inutile” di Silvia che prova a stare presso l’angoscia dei vicini, e l’esposizione rischiosa dell’amica, mi ha ricordato la figura di Lorenzo, l’operaio italiano che Primo Levi ricorda in Se questo è un uomo. Gli aveva portato un pezzo di pane e avanzi di rancio per alcuni mesi, a lui, intoccabile.
“Con il suo modo piano e facile di essere buono”, scrive Levi, raccontava che esisteva un mondo altro, una possibilità di bene, di speranza , “ per cui metteva conto di conservarsi”. Distanza, profondo legame. Sì, il corpo ricorda!
Ma c’è un altro elemento di cui facciamo esperienza : quello della prossimità e della cura. Vengono in mente le parole di Albert Camus scritte nel suo romanzo un capolavoro, La Peste :”Ma lei sa, io mi sento più solidale coi vinti che coi santi. Non ho inclinazione, credo, per l’eroismo e per la santità. Essere un uomo, questo m’interessa”. Oltre ai medici e infermieri, anche giovani che si offrono di portare la spesa agli anziani del proprio condominio o del proprio quartiere anche in zone altamente rischiose… È una bella picconata alla cultura dei muri e della indifferenza. È così?
In questi giorni nei quali la vulnerabilità e la fatica della speranza paiono lasciarci sospesi tra caso e necessità, in cui le domande sul vivere e sul morire restano aperte, pare restino solo degli esili fili della tessitura del mistero dell’incontro. Di un operoso, solidale e sollecito incontro tra le donne e gli uomini.
Dentro le “zone del rispetto” di questa inedita distanza-vicinanza, la cura di sé è cura dell’altro: qui resistono fili di senso, di sogni buoni, di dignità, di giustizia, di gratuità fraterna. Certo nulla ci garantisce che domani sperdimento, rescissione delle radici, cattive nostalgie, ricerca di nuovi idoli rilegittimino l’esercizio della forza tra le donne e gli uomini. Ma ricordiamo le parole di Simone Weil: “ Sembra di trovarsi in un impasse da cui l’umanità possa uscire solo con un miracolo. Ma la vita umana è fatta di miracoli”.
Per far fronte al sottile e intimorito insinuarsi della distanza serve lucidità, cura del sentire l’altro, attenzione a chi stiamo diventando. Se così, allora non possiamo che accettare di chinarci di nuovo, con cura e con intelligenza attenuta, sulla vita, sui legami, sul lavoro, e sulle forme della vita comune che resiste e nasce. Sulla vita che a volte muore.
Tante e tanti si chinano, a volte intervenendo e più spesso impotenti tenendo viva una danza di sguardi più che di tocchi e carezze. “Eppure ho già visto tanta sofferenza in passato- mi dice Beppe, un amico medico- ma è come non avessi mai vissuto… qui c’è silenzio, ci si guarda”. Tenerci negli occhi: uno a uno, una a una. Come salvare il nome proprio di ognuno.
Il dono, la gratuità sono dimensioni proprie d’ogni gesto nostro, nella professione, sul lavoro, a casa, negli incontri, nel gioco … lí o ci offriamo o ci serbiamo solo per noi stessi, per la nostra recita. La prossimità e la cura sono degli umili, dei debitori, dei provati; sono dimensioni di donne e uomini non innocenti, non perfetti, solo riconoscenti.
C’è anche, tragicamente, l’esperienza del dolore assoluto: la morte. Purtroppo tocca chi è già fragile. Il portare il proprio caro sulla soglia delle terapia intensiva e non vederlo più… Uno strazio assoluto, un senso di abbandono non oso immaginare cosa passa nella mente di quelle persone…
All’inizio del corso di laurea magistrale, normalmente faccio due dediche: quest’anno, neppure si parlava ancora della Cina, una l’ho fatta raccontando ai ragazzi del barbiere di Wuhan: avevo letto di quest’uomo che alla fine del suo turno di lavoro andava in quell’ospedale che hanno costruito in dieci giorni a fare un gesto semplicissimo: tagliare i capelli. Dicevo che dovremmo essere come il barbiere di Wuhan, senza sapere che quello in cui saremmo piombati poche settimane dopo. Quel gesto che gli permetteva di vivere, era prima di tutto il suo mestiere, improvvisamente significava di più, ritrovava il suo senso e la sua origine. I gesti della nostra quotidianità, che spesso “distruggiamo” nelle logiche dello scambio e del mercato, hanno dentro comunque il segreto di una cura che questa crisi sta portando in evidenza. Forse potremo riscoprire la profondità dell’affidamento e dell’offerta reciproci.
Certo si muore sempre soli. Ci si lascia, ma ci si può lasciare accanto, in mani care, sentendosi di qualcuno. In questi giorni madri e padri sono morti senza aver più visto figli e figlie, da loro separati. Quanto è vero quel desiderio di ognuno di sentire ancora, infine, il tocco di quando siamo nati, accolti dal palmo di una mano, che ci ha sorretti, puliti, dondolati. Così siamo stati “messi al mondo”. Speriamo di sentire quel palmo sul volto morendo. Oggi per molti, per troppi non si dà.
Non ci resta che sperare, ed è struggente pensare che qualcuno là in una stanza di una Terapia intensiva si ricordi di quella cura e che porti il suo palmo sul nostro, pure se è sconosciuto. Che lo faccia in nome di quella concreta umanità che si è manifestata proprio in quella persona, nella sua vita che adesso finisce. Non possono esserci i parenti? Però ci sei tu, e allora carezzalo, tienigli la mano. Solo questo può lenire la fatica, per chi lo ha amato, della distanza. Quando noi fossimo sicuri di questo, potremmo ringraziare comunque la vita, il fatto che siamo gli uni dagli altri.
È possibile che la solitudine inevitabile non sia un abbandono straziante ma un affidamento; non sia la solitudine dell’abbandono ma un incontro tra poveri.
Anche la Chiesa è colpita dalla Pandemia. Da credente che effetto le fa la domenica senza messa?
“Viene il tempo, ed è questo, in cui si adorerà il Padre in spirito e verità” (Gv, 4) dice Gesù alla Samaritana vicino al pozzo di Giacobbe. È il Vangelo di tre giorni fa. Al di là delle contese su quale tempio, quale monte… Vivere una sorta di pulizia dello spirito, di ritorno alla Parola, d ritrovamento nell’interiorità è il tempo che ci è dato. Che è sempre tempo opportuno.
Quando i riti, i luoghi comunitari, i gesti e le parole scambiate, cantate e “danzate “ insieme, torneranno, forse saranno più capaci (capax: accoglienti, recettive, piene) di serbare e risuonare del dolore e della gioia, dell’ombra e della tenerezza, della fatica e della speranza, della morte e della vita nelle quali la Promessa del Padre si è mantenuta, ha resistito.
La pandemia che entra e scuote coscienze e scelte, pensieri e relazioni, i modi del vivere insieme, e del vivere soli con se stessi, forse chiederà alla Chiesa di aprire al suo interno e sui suoi confini (quelli dove incontra e dialoga con attese, speranze e disorientamenti di tanti uomini) una stagione di riflessione, ascolto, scelta: un Sinodo?. Come una preghiera, corale ed aperta.
Per la fede che sfida porta questa pandemia?
Scriveva Etty Hillesum nel settembre del ’42 “Non potremmo insegnare alle persone che è possibile ‘lavorare e continuare ad avere una vita interiore produttiva e fiduciosa andando al di là delle angosce e dei rumori di fondo che ci assalgono?” Occorre lasciare maturare dentro l’essenziale, mentre tanti, tante cercano in cosa avere fede in questo passaggio. In cosa confidare? Da dove i sostegni per la speranza? Quali gesti e presenze ci si offrono come dono e fraternità? A cosa siamo chiamati?
In noi e tra noi “c’è dell’altro, oltre il bisogno di credere. Si dice, in noi e tra noi, una parola della vita… quasi un sussurro, che può cogliere forse chi vive una fede nuda. Ricordi le pagine di Romano Guardini?
Quando il gesto si accompagna alla charis, alla grazia, l’uomo diviene “un pertugio attraverso il quale Dio e la creazione si guardano”. Così Weil.
Provi davvero la debolezza del credere, credito aperto, speranza di speranza, convincimento non certificabile. Abbandono che attende braccia.
Per l’occidente questa pandemia mette in crisi i suoi miti basati sull’individualismo invincibile.. È così?
Chissà se toccare l’inutile, l’incerto, l’inefficace ci preparerà a tornare a sentire più in profondità il gratuito. La sua energia delicata e decisiva.
È stato recentemente pubblicato (da Castelvecchi) un piccolo testo di Walter Benjamin Esperienza e povertà. È utile per un tempo in cui riuscire così a cominciare da capo, cominciare dal nuovo; a cavarsela con poco, a costruire dal poco, mentre i saperi di prima o toccano il limite o si rivelano futili, se non menzogneri.
Occorrerà, in qualche modo, forse “liberarsi dalle esperienze” quelle ricche, che parevano solidi edifici che tutto spiegavano e garantivano (anche le ingiustizie, i cinismi e le disponibilità) per provare a creare una vita comune in cui fare risaltare una certa povertà ”quella esteriore e alla fine anche interiore, con tanta purezza e nitore che ne esca fuori qualcosa di decente”.
Donne e uomini che sentono “un’esistenza che in ogni piega basta a se stessa, nella maniera più semplice”. Dall’indigenza – toccata nella soffocante ricchezza di cose e opportunità e disponibilità per alcuni, nell’esclusione di molti – alla “povertà” di nuove narrazioni, di inizialità essenziali perché capaci di serbare il cuore di consegne antiche e la cura per il futuro di altri. In un esodo esigente, dai cammini non scontati.
Lì potremo riseminare il bisogno di credere, che in questo tempo è così provato, viene così sfibrato, si tende come la corda di un arco sul punto di rottura. E legando, il bisogno di credere, al desiderio e al compito di sapere, di conoscere, d’essere responsabili.
La politica cerca di rispondere con i suoi mezzi a questa crisi. E le risposte in Europa sono state di due tipi: quella italiana, seguita poi da altri paesi, e quella cinica e sostanzialmente menefreghista di Johnson (che ora sta cambiando idea), il premier inglese. Quale lezione sta dando questa pandemia alla politica?
Parto da lontano. Riflettevo in questi giorni in cui il futuro pare entrato in dissolvenza sul fatto che il sentimento del futuro (e del tempo) ce lo eravamo già giocati. Nella festa del “consumatore globale”, futuro, sogno, mito e rito sono sciolti: lo dice bene Bauman ne Il teatro dell’immortalità. Nulla nasce, non si cerca inizio, non si sperano ci lei nuovi e terre nuove. Al più si “innova”.
La politica si trova ora di fronte alla questione del futuro, non del riparo del presente, alla necessità di un ripensamento profondo, di un riorientamento radicale. Deve pensare alla vita, a partire dalla salute, e a una convivenza che la curi, la coltivi, la faccia fiorire. Accorgendosi che ogni vita è vita comune, è vita gli uni degli altri, di uni dagli altri. Ed è chiaro che le politiche sono efficaci quando si appoggiano, interpretano, orientano scelte e pratiche di vita attente e responsabili, capaci di dedizione e di offerta (anche se oggi si dice sacrificio, e si dice male, ha ragione Luigino Bruni ).
La politica oltre al linguaggio dovrà cambiare sguardo: non si tratterà di chiudere una parentesi, ma di sapere insieme ridisegnare una convivenza nuova, nella quale sobrietà, veglia reciproca, coltivazione di ciò che vale, attenzione alle fragilità, uso dei saperi e dei poteri, siamo ritessuti tra le generazioni, tra le culture. Cura della vita comune, della vita nuova. Progettare e costruire come coltivazione della promessa: di dignitá, di riconoscimento, di cura, nessuno escluso. Inizio, l’iniziare è sempre gesto generoso, è offerta, è incontro. Sull’a venire.
Serviranno politici capaci d’essere umili, con il senso della realtà, con capacità di visione e di ascolto. Capaci di richiamo e orientamento. Testimoni e con cura genitoriale.
Ultima domanda Professore. torniamo al punto di partenza : siamo alla ricerca di un senso a questi giorni… Esiste?
C’è chi ha evocato l’inevitabilità di una certa “selezione naturale” dei fragili, dei vecchi, dei disabili. Che spesso sono anche poveri e marginali. Usando toni che Julia Kristeva definirebbe da “derattizzatori del terzo millennio”, nuovi promotori del merito, della eccellenza, del vitalismo, della purezza.
C’è anche chi ha ripreso le immagini del “flagello di Dio”, della punizione e del castigo, della purificazione: il resto dei perfetti resterà intoccato. I messianismi capovolti che tante vittime hanno già fatto si appropriano del virus.
Ma l’umanità ha già mostrato, anche attraversando catastrofi, che ha reagito alla logica della selezione naturale con la fraternità e la pietà, quella feriale e semplice dei tanti operatori sanitari e della cura oggi. Una umanità che alla sofferenza dura e “ingiusta” accosta la attenzione alle vittime, anche degli altri, lontana.
Nel tempo della paura e dell’angoscia non emergono solo le tensioni fraterne e solidali. Nell’emergenza sembrano cavarsela meglio gli indifferenti, ci dicono gli antropologi e gli psicologi delle crisi. La stessa Zambrano in L’agonia dell’Europa , annota che “ogni disastro consente alla gente di manifestarsi nella sua cruda realtà: è strumento di rivelazione”. Rivela anche la forza del risentimento, della separazione dall’altro. Eppure da lì si svela anche come l’uomo (e lei parla proprio dell’uomo europeo) sia una creatura a cui non basta nascere una sola volta: può, anzi “ha bisogno di essere riconcepito” la speranza è “il suo fondo ultimo”, la nuova nascita.
Dobbiamo ancora pensare, sentire l’esperienza che la vita sta disegnando dentro di noi, tra noi, del nostro tempo. Fare attenzione, dobbiamo fare attenzione: “l’educazione all’attenzione è la cosa più importante” scriveva Simone Weil; e ancora “che cos’è la cultura? Educazione all’attenzione” Anzitutto attenzione allo sventurato.”
Ci sono esperienze che possono essere risvegli. Esperienze limite, immaginali e di scelta, di intuizione conoscitiva e di conversione, e durano un passaggio. Per aprire un nuovo inizio quel passaggio deve diventare una soglia, che introduca a un nuovo viaggio, sorretti dalla speranza in una “ulteriorità”, in un nuovo inizio.
Fonte Eco di Bergamo