Una piccola città di provincia; un’alleanza riuscita tra soggetti diversi e qualificati, accomunati da una sensibilità e un’attenzione condivisa; un caso rivoluzionario nella sua semplicità, che testimonia una possibilità e apre una via concreta di intervento, sulla cui scia altre si potranno collocare.
L’idea è semplice ma insieme potente: attivare una rete di famiglie affidatarie, in grado di dare casa, affetto, educazione ai minori stranieri non accompagnati, attingendo tra le famiglie di migranti già inserite in città, e anche tra i singoli che hanno già attraversato quel tipo di esperienza.
Valorizzare la capacità di accoglienza significa abbandonare l’assistenzialismo (unidirezionale e a fondo perso) per produrre valore e legame attraverso l’energia che si sprigiona da due fonti fondamentali: la reciprocità e la gratitudine.
La prima, contrariamente a un senso comune un po’ condiscendente, ha profondamente a che fare con la dimensione dell’ospitalità: che viene da hostis, termine latino che significa tanto ‘straniero’ quanto ‘nemico’ (e non a caso: ciò che non si conosce è sempre minaccioso), al quale si aggiunge il suffisso -pa, che indica il ‘prendersi cura’.
Così, come ci raccontano i promotori del progetto, le famiglie straniere accoglienti ricevono da questo gesto di accoglienza un nuovo sguardo, grato, da parte della città e delle istituzioni, mentre sperimentano la propria capacità di farsi grembo ospitale per storie fragili, come forse un tempo è stata la loro. E questa pratica virtuosa quotidiana contribuisce a ‘capacitare’ le famiglie stesse (per usare il termine di Martha Nussbaum) facendo crescere la loro capacità di relazione e valorizzazione delle proprie risorse.
Consentendo alle famiglie di mettersi alla prova, di sperimentarsi come luogo ospitale, i minori stranieri accolti trasformano in occasione di capacitazione per tutte le parti coinvolte questo legame di reciprocità.
L’altra forza potente è quella della gratuità e della gratitudine. Difficile dare ciò che non si ė ricevuto; conoscere e fare proprio ciò che non si è sperimentato. Colpisce allora il racconto del giovane senegalese, ex minore non accompagnato accolto, che a sua volta accoglie un minore non accompagnato. In un mondo dove tutto ė contrattualizzato, la gratuità ricevuta, che si trasforma in gratitudine, rappresenta un forza dirompente, un ‘di più’ rispetto al dovuto che mette in circolo nuova energia, un’eccedenza che mobilita risorse mettendole in sinergia.
Il circuito della gratitudine non resta infatti confinato al rapporto io-tu, all’obbligazione al contraccambio che il dono rischia così spesso di produrre, ma è eccentrico e vitale, proprio perché la restituzione non procede a ritroso, verso chi ci ha aiutato, ma in avanti, verso chi può aver bisogno di noi. La restituzione più bella è quella che restituisce ad altri. Che mette in circolo risorse fresche e nuove. E, soprattutto, testimonia l’umana capacità di sollecitudine e attenzione per gli altri visti come fratelli; quell’ “I care” che giustamente don Milani aveva messo al centro della propria azione educativa, come antidoto all’ “who cares”? che ci trasforma tutti in potenziali Caino.
Una parola, infine, sull’esperimento del condominio solidale. Così come (in famiglia ė evidente) dividendo si moltiplica, secondo la logica paradossale dell’eccedenza, così l’incontro di fragilità non è necessariamente una somma di criticità, un’addizione che le fa crescere, ma un modo per ridurle e contenerle. Mettere insieme nella stessa casa donne sole con figli, minori non accompagnati, ex minori non accompagnati per i quali ė ormai difficile trovare risorse, con il coordinamento di un volontario in crisi esistenziale per la mancanza di lavoro, può generare, dalla combinazione di fragilità, un contesto vivibile e accogliente, dove vivere una vita dignitosa nella sollecitudine reciproca.
La grande attenzione su questa esperienza di affido interculturale anche da parte di altri comuni fa sperare che la forza dell’esempio e l’eloquenza non retorica della testimonianza (è vero, dunque è possibile!) possano contagiare via via altri contesti, per attivare risposte corali e inclusive alle sfide che il nostro tempo, così impoverito dall’individualismo che produce solitudine e abbandono prima ancora che dalla crisi economica, ci pone.
Fino ad arrivare, magari, a realizzare quel sogno prospettato in chiusura: famiglie straniere che accolgono bambini italiani in difficoltà. Per riaprire gli occhi su questo mondo provato, con uno ‘sguardo nuovo e carico di speranza’.
Chiara Giaccardi
Università Cattolica Milano