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Le nuove “frontiere” della cittadinanza

di Laura Zanfrini

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Cittadinanza e immigrazione Nonostante la spettacolare crescita delle interdipendenze a livello planetario e della mobilità umana, il nostro continua a essere un mondo diviso in Stati, ciascuno dei quali esercita la propria sovranità su un territorio e una popolazione. Eredi dell’ideologia nazionalistica, i nostri Stati si rappresentano come comunità politicamente unitarie ed etnicamente e culturalmente omogenee, in cui la nazionalità si sovrappone alla cittadinanza: in cui, cioè, la membership alla nazione coincide con l’appartenenza allo Stato e la titolarità dei diritti di cittadinanza.

La globalizzazione, e in particolare l’accelerazione delle migrazioni internazionali registrata nel recente passato, hanno però l’effetto di denaturalizzare l’istituto della cittadinanza, rivelando la natura storica e contingente delle fondamentali idee su cui si fonda il concetto di Stato-nazione. A partire dall’idea di confine che, per come è stato definito nella prospettiva nazionalistica, non è più in grado di dare adeguatamente forma all’appartenenza, di funzionare da filtro per l’assegnazione dei diritti e dei doveri associati alla cittadinanza e di legittimare la partecipazione a quei gruppi di solidarietà istituzionalizzata rappresentati dai sistemi di welfare.

Sulla base di queste premesse si può intuire come, nell’attuale società globale, è impossibile pensare al significato e alla pratica della cittadinanza senza prendere in considerazione la questione dell’immigrazione. Detto in altri termini, in gioco non vi è soltanto il destino degli immigrati di oggi e di quelli che verranno, ma la tenuta della coesione sociale e la qualità stessa della democrazia.

Mentre l’ancoraggio a una concezione nazionalistica e il richiamo a una retorica patriottica appaiono sempre più improponibili, la tendenza è a cercare nei tecnicismi legislativi e procedurali la soluzione all’impasse in cui versa l’istituto della cittadinanza (per esempio, individuando il numero “giusto” di anni di residenza necessari a “diventare” italiano); oppure a fare della issue cittadinanza uno strumento nella competizione per la conquista di consenso e potere, sottovalutando il fatto che in gioco vi è la vita di persone “vere”, coi loro progetti e le loro speranze.

Ci si dimentica, in tal modo, che la cittadinanza non è soltanto un viatico per l’accesso a un paniere di diritti e di opportunità, ma è anche un istituto che custodisce valori, principi e visioni del mondo; è il corpo sociale che ha saputo dar vita a istituzioni solidaristiche finalizzate a promuovere inclusione e benessere collettivo; in termini psicologici, è ciò che evoca l’esperienza d’identità e solidarietà che una persona sperimenta nella vita pubblica o collettiva; infine, è un concetto che si declina non solo in una dimensione di appartenenza, ma anche in una dimensione partecipativa. Diversamente da quanto pretende di affermare l’ideologia nazionalistica, così profondamente radicata nel sentire comune, l’esperienza ci dimostra infatti come la cittadinanza non è un attributo ascritto o addirittura innato, bensì qualcosa che si costruisce politicamente e socialmente e che è stato definito, nel corso della storia, in modi diversi.

La cittadinanza, al contempo, non è solo accordata per via politica e istituzionale, ma si costruisce nell’interazione quotidiana, spesso partendo dal “basso”, e spesso attraverso l’iniziativa di soggetti “esclusi” che, attivandosi per la loro emancipazione, concorrono a definire una nuova idea di bene comune. La cittadinanza, infine, non è solo una questione politica, ma prima ancora culturale, che esprime simboli, attese e significati, e che richiede, specie in taluni frangenti storici, una puntuale azione di educazione alla cittadinanza. Il dibattito in Italia Anche in Italia, come si è accennato, è da qualche anno in corso un dibattito riguardo alle modifiche cui sottoporre la normativa in materia di cittadinanza, giudicata dai più incoerente col ruolo che il paese ha ormai assunto nello scenario migratorio internazionale.

Oltre ad avere conosciuto una crescita straordinaria della popolazione straniera residente, l’Italia assiste oggi alla comparsa di una consistente seconda generazione sulla scena pubblica che, così com’è avvenuto nelle altre nazioni, deplora una legislazione che regola l’acquisto della cittadinanza secondo un calendario non conforme alle aspettative e ai progetti di vita di chi è nato in Italia o vi è giunto in tenera età. Non ci inoltreremo però negli aspetti giuridici della questione, sui quali si è del resto accumulata un’ampia serie di contributi. Ci preme, piuttosto, sottolineare alcune considerazioni che dovrebbero stare sullo sfondo di ogni riflessione in questa materia.

L’immigrazione, in altre parole, costringe le società nazionali a ripensare alle basi della coesione sociale, ai valori sui quali si fonda l’identità collettiva, ai principi cui deve ispirarsi il dialogo con l’alterità.

Buona parte degli stranieri che risiedono in Italia hanno ormai maturato – o si accingono a raggiungere – l’anzianità di presenza che la legge richiede per ottenere la naturalizzazione. Analogamente, molti dei loro figli nati in Italia approderanno, nei prossimi anni, alla maggiore età, adempiendo al requisito che la legge prevede per diventare cittadini italiani. Anche se la normativa dovesse restare invariata, si profila dunque una trasmutazione in senso multietnico del “corpo” della nazione italiana e dello stesso corpo elettorale non “voluta” e non pianificata, e soprattutto non preceduta da un’azione di accompagnamento all’esercizio dei propri diritti e doveri di cittadinanza. Dentro un dibattito egemonizzato dalle implicazioni ideologiche e dagli aspetti procedurali, ben poca attenzione ha infatti raccolto il processo che “trasforma” l’immigrato in cittadino, e ai passi che devono accompagnarlo; temi, questi ultimi, che imporrebbero alla società italiana di guardarsi allo specchio e chiedersi cosa significa essere cittadino italiano e, come sopra si diceva, quali sono i principi e i valori sui quali si fondano la coesione sociale e l’identità collettiva.

Processi verso la società inter-etnica Nel preparare il terreno di questa trasmutazione, alcuni passaggi appaiono indispensabili.Un primo aspetto fondamentale è rappresentato dalla necessità di incoraggiare lo svecchiamento di un modello d’integrazione oggi fortemente sbilanciato sulla sola dimensione economica e lavorativa, attraverso una più decisa volontà di promuovere il ruolo dei migranti e delle loro espressioni organizzate nella sfera pubblica, e il loro senso di responsabilità nei confronti della società in cui risiedono. Ciò che va auspicato è una relazione più “matura” tra la popolazione immigrata e le istituzioni della società italiana, che contribuisca a diffondere, nell’opinione pubblica, una immagine dei migranti come soggetti che non si sottraggono ai loro doveri di partecipazione alla creazione del benessere collettivo, di contro all’atteggiamento strumentale – se non addirittura “predatorio” – che sovente viene loro attribuito.

Essa, inoltre, risulta particolarmente cruciale se si guarda alle giovani generazioni nate dall’immigrazione: beneficiarie degli sforzi e dei sacrifici dei loro genitori e investiti di forti aspettative di mobilità sociale, esse sono legittimamente restie ad accettare un destino di subalternità ed esprimono, anche in forma organizzata, il loro desiderio di partecipare attivamente alla vita civile e politica della società italiana.

Va da sé che la propensione (e la capacità), da parte dei migranti, a manifestare il loro impegno civico e il loro coinvolgimento nella sfera pubblica, al di là dell’ambito lavorativo, dipende da molti fattori, che qui non è neppure possibile elencare. Fondamentali sono però le iniziative dirette all’empowerment individuale e delle stesse strutture associative nate dall’immigrazione che spesso sono deboli sul piano non solo finanziario ma anche organizzativo. Così come fondamentali sono le aspettative di una società verso gli immigrati – che spesso si riflettono nei loro comportamenti – e, soprattutto, la struttura di opportunità partecipative ad essi offerte.

Anche in Italia, come negli altri paesi d’immigrazione, questo tema è stato egemonizzato dalla questione del diritto di voto per gli immigrati e dai criteri per l’acquisto della cittadinanza. L’attenzione andrebbe invece soprattutto dirottata sulle iniziative nel campo dell’educazione alla cittadinanza, anch’esse spesso prigioniere di opposte strumentalizzazioni (basterebbe pensare alle polemiche che hanno accompagnato l’introduzione del contratto d’integrazione).

L’educazione alla cittadinanza è, invece, una vera e propria priorità, specie se si considera che la scarsa “qualità” della democrazia in molti paesi d’origine e l’impatto con una società – quella italiana – che si distingue nel contesto europeo per il suo insufficiente spirito di legalità e per il debole senso dello Stato non sono certo premesse ottimali per la maturazione di un spirito civico.

L’obiettivo dovrebbe essere quello di trasmettere l’idea che l’essere cittadino implica una maggiore consapevolezza dei propri diritti – a partire da quello ad essere trattato da uguali – e dei propri doveri, da quello di contribuire al finanziamento della fiscalità generale fino a quello di concorrere alla vita sociale, politica e culturale del paese in cui si risiede, di contro al confinamento in ambienti di vita e di lavoro altamente etnicizzati (e alla diffusa contaminazione con l’economia sommersa e con la cultura dell’illegalità) che continua a caratterizzare tanti immigrati.

Altrettanto importante sarebbe, peraltro, incoraggiare la partecipazione civica anche di coloro che non intendono stabilirsi definitivamente in Italia. In una fase storica contraddistinta dall’intensificazione della mobilità umana e dalla crescente rilevanza degli spazi e delle relazioni transnazionali, è infatti opportuno pensare a forme di mobilitazione e partecipazione compatibili con programmi di residenza temporanea, non fondate su un senso esclusivo di appartenenza a una nazione – secondo una retorica patriottica ormai superata – ma radicate nei contesti di residenza.

Per portare un solo esempio, caldeggiare e favorire – anche attraverso specifiche campagne di reclutamento – la partecipazione degli immigrati al volontariato organizzato avrebbe un importante significato culturale, oltre che presentare vantaggi per le stesse organizzazioni coinvolte. La loro presenza potrebbe infatti apportare un vero e proprio “vantaggio competitivo”, accrescendo la capacità di lettura e risposta ai bisogni del territorio – a fronte di una popolazione sempre più eterogenea e portatrice di bisogni diversificati –, apportando expertise specifici, mutuati dalla propria storia migratoria e dalle vicende del proprio paese d’origine, ma anche rafforzando il processo di internazionalizzazione delle nostre organizzazioni di volontariato e la loro capacità di costruire reti e partnership transnazionali. Alcune sfide aperte. Per una cittadinanza generativa

A ben guardare, infatti, esse ci appaiono prefiguratrici di una “cittadinanza di nuova generazione”, di una forma “generativa” di cittadinanza che lega i cittadini, cioè le persone che convivono all’interno della polis, di uno spazio e di un tempo condiviso che diventa luogo della reciprocità dei diritti e dei doveri. Tale forma di cittadinanza responsabile emerge attraverso modalità di agire connettive, inclusive e contributive [come quelle di cui si dà conto nel presente dossier], dentro un immaginario della libertà che comprende quest’ultima nella sua valenza relazionale e che, di conseguenza, lega la creatività e l’innovazione degli attori sociali con il loro desiderio di appartenenza, di legame e di inclusione.

Peraltro, promuovere l’impegno civile dei migranti e la loro partecipazione al processo democratico può avere un impatto positivo anche nei paesi d’origine nella misura in cui, apprendendo nuovi linguaggi, schemi di pensiero e comportamenti orientati non solo all’emancipazione individuale e al benessere familiare, essi possono contribuire al progresso economico, civile e culturale delle comunità d’origine, facendosi “esportatori della democrazia”, contribuendo al rinnovamento delle classi dirigenti, investendo in progetti di utilità collettiva. La riflessione di questi anni sul tema del c.d. co-sviluppo ci consegna infatti la consapevolezza di come la piena integrazione nella comunità ricevente e la maturazione di una buona capacità di relazione col contesto istituzionale e la società civile non erodono l’attaccamento al paese d’origine, ma semmai fanno dei migranti degli attori strategici per la sua modernizzazione.

Ma c’è di più. Rendendo palesi i limiti delle tradizionali teorie dell’appartenenza e della giustizia fondate sulla finzione di società delimitate dai recinti nazionali, l’immigrazione ci obbliga anche a problematizzare l’assioma su cui implicitamente si fondano i sistemi di welfare e di protezione sociale, costituito da biografie individuali e familiari che si sviluppano all’interno dei confini dello Stato-nazione, fruendo di forme di solidarietà intergenerazionale: nel contesto contemporaneo, l’esperienza dei migranti internazionali può leggersi come paradigmatica di una società nella quale la mobilità e la reversibilità non rappresentano più fenomeni eccezionali, ma eventi normali nelle biografie personali e lavorative.

Al riguardo, alcune esperienze concepite e implementate sui territori prefigurano strade per allargare le pratiche solidaristiche oltre i confini delle nazioni, attraverso iniziative di “welfare transnazionale” nate grazie all’attivismo della società civile italiana e dell’associazionismo immigrato che, liberi dai vincoli normativi e organizzativi che ingessano l’iniziativa delle pubbliche amministrazioni, promuovono progetti capaci di surclassare le frontiere delle nazioni rispondendo ai bisogni dei migranti internazionali e delle loro famiglie, ma anche incoraggiando nuove occasioni di empowerment individuale, associativo e comunitario.

Nel contesto di una riflessione sul futuro della cittadinanza queste esperienze pionieristiche additano una serie obiettivi da perseguire a livello politico-istituzionale: la necessità, innanzitutto, di attribuire portata transazionale alle politiche sociali (cominciando con l’affrontare la questione della portabilità dei diritti); così come quella di rafforzare le sinergie e la cooperazione tra paesi diversi – non solo per rendere realmente esigibili i diritti di welfare, ma anche per massimizzare i vantaggi della mobilità del lavoro e avvicinarsi all’ideale di una solidarietà globale –.

Attraverso le varie forme di partecipazione alla sfera pubblica, gli immigrati apportano un punto di vista “esterno”, sollecitando una società a rimettere a tema gli elementi sui quali si fonda l’identità collettiva. La cittadinanza, come più volte abbiamo sottolineato, non è soltanto uno strumento attraverso il quale i migranti possono accedere a determinati diritti e opportunità (a partire dal diritto a prendere parte, attraverso l’elettorato attivo e passivo, al processo decisionale su tutti i temi di interesse collettivo); essa è anche la modalità attraverso la quale una comunità nazionale riafferma i principi fondamentali sui quali si fonda la convivenza e afferma il dovere dei cittadini di rispettarli e trasmetterli alle nuove generazioni. Alla luce di questa consapevolezza, i criteri che regolano la possibilità, per i migranti e i loro discendenti, di acquisire la cittadinanza, sono certamente rilevanti.

Tuttavia, l’inclusione dei migranti nella “comunità dei cittadini”, così come più in generale il loro coinvolgimento nella vita civile e politica della nazione, non possono prescindere dalla condivisione di quei valori e di quei principi che debbono intendersi come non derogabili. È dunque fondamentale che la società italiana – e con essa quella europea – sviluppi un sereno dibattito per individuare quegli aspetti che devono essere considerati costitutivi della propria identità e per definire il quadro entro il quale può esprimersi lo stesso impegno individuale per il bene comune.

Tra questi aspetti mi permetto di suggerire, in prima istanza, l’idea della centralità e della primazia della persona, rispetto agli stessi gruppi – di contro alle possibili derive comunitariste – che esige di essere tutelata e promossa nelle sue potenzialità; l’uguaglianza tra donne e uomini; l’universalismo che deve presiedere all’accesso ai diritti e alle opportunità che tollera trattamenti differenziati solo se essi sono richiesti dall’obiettivo di promuovere maggiore equità sociale; la speciale tutela che deve essere assicurata ai soggetti maggiormente vulnerabili; il diritto di fede e di culto, nei limiti imposti dalla necessità di tutelare la collettività e l’ordine pubblico; il rispetto per le culture minoritarie, nella misura in cui esse stesse rispettino i diritti umani fondamentali e i principi della democrazia; la tutela della famiglia (rigorosamente monogamica) e in particolare della sua funzione generativa ed educativa; la protezione dell’infanzia contro ogni forma di abuso e sfruttamento e del suo diritto ad essere oggetto prioritario di investimento sociale; la solidarietà che travalica i gruppi familiari e primari e si esprime in forme istituzionalizzate, come avviene attraverso quella straordinaria invenzione rappresentata dal welfare state.

Laura Zanfrini

Università Cattolica Milano