Questo mese mettiamo a fuoco il tema della convivenza plurale che prende forma insieme al fenomeno delle migrazioni internazionali che riguarda ormai tutti i paesi al mondo, in entrata o in uscita o, in molti casi, in entrambe le direzioni.
Le migrazioni sono finestre sul mondo, dal momento che avvicinano localmente, dentro le nostre città, i drammi e gli squilibri che lo attraversano. Esse sono al contempo lenti di ingrandimento che fanno rimbalzare i problemi spesso già presenti all’interno delle società d’arrivo.
I migranti finiscono molte volte per occupare la posizione loro assegnata, quella cioè di una qualche forma di subalternità – posizione che rischia di rafforzare il circolo vizioso, laddove in essa si scorgano delle convenienze reciproche. Ma per nulla feconda rispetto alle potenzialità che, da una tale presenza, si possono mettere in campo in termini di cambiamento.
L’incontro tende a risentire, già in partenza, dello sguardo oggettivante che si arresta su punti fissi innescando forme di dominio, dipendenza assistenziale, manipolazione, esclusione, violenza.
In tal senso resta significativa la riflessione di Amin Maalouf, scrittore arabo, nato in Libano e fuggito in Francia, il quale indica in una sorta di riforma dello sguardo il primo passo per procedere verso forme di convivenza più affidabili, che sappiano valorizzare il contributo che ciascuno, migrante e non-migrante, può dare alla costruzione della polis: “Nei numerosi paesi in cui si affiancano oggi una popolazione autoctona, portatrice della cultura locale, e un’altra popolazione, arrivata più di recente, che porta tradizioni differenti, si manifestano tensioni che pesano sui comportamenti di ciascuno, sull’atmosfera sociale, sul dibattito politico. È tanto più indispensabile posare uno sguardo di saggezza e di serenità su tali questioni così passionali. La saggezza è una linea di cresta, lo stretto sentiero tra due precipizi, fra due concezioni estreme. In materia di immigrazione, la prima di tali concezioni estreme è quella che considera il paese di accoglienza come una pagina bianca su cui ciascuno potrebbe scrivere ciò che gli piace, o peggio, come un terreno abbandonato su cui ciascuno potrebbe sistemarsi con armi e bagagli, senza cambiare nulla ai propri gesti né alle proprie abitudini. L’altra concezione estrema è quella che considera il paese di accoglienza come una pagina già scritta e stampata, come una terra le cui leggi, i cui valori, le cui credenze, le cui caratteristiche culturali e umane sarebbero già stati fissati una volta per tutte, e a cui gli emigranti non dovrebbero far altro che conformarsi (…) Le due concezioni mi sembrano ugualmente prive di realismo, sterili, nocive. (…) Il paese di accoglienza non è né una pagina bianca, né una pagina scritta, ma una pagina in via di stesura. (…). Nel mio approccio c’è di continuo un’esigenza di reciprocità”[1].
Ed è proprio nel tentativo di posare uno sguardo diverso sulle questioni migratorie – senza nulla togliere alla loro problematicità ma con l’intento di contribuire a costruire le condizioni per uno scambio alla pari, ossia per forme di reciprocità in cui vi è un ricevere-dare in vista di qualcosa che va oltre il dato di fatto – che si muove l’esperienza, piccola ma esemplare, raccontata in questo mese nell’Archivio della Generatività: si tratta della Cooperativa Sociale Nazareth di Cremona che, con il progetto dell’affido multiculturale, ha colto le potenzialità insite nella valorizzazione dei migranti presenti sul proprio territorio con i quali inventare forme innovative non solo di affido ma, più ampiamente, di convivenza attraverso reti affidabili.
La dinamica e la forza generativa di questa esperienza viene riletta nel commento di Chiara Giaccardi, docente di Sociologia e Antropologia dei Media in Università Cattolica ed esperta di comunicazione interculturale.
Una ulteriore esperienza orientata alla valorizzazione della presenza migratoria viene raccontata attraverso l’intervista a Emilio De Vitto e Daniela Panero, membri della cooperativa sociale Orso di Torino operante nel territorio del Comune di Alba ove, mediante un denso network fiduciario tra istituzioni, scuola e privato sociale, vengono sollecitate le occasioni di incontro tra migranti e non-migranti attorno a temi comuni: le narrazioni condivise innescano conoscenza, apprendimento partecipato, dialogo, presa in cura dell’altro e la concretizzazione di una cittadinanza ‘agita’.
A proposito di cittadinanza – messa in discussione proprio dalla presenza di persone provenienti da altri paesi e sospinta quindi a ripensarsi -, la sociologa Laura Zanfrini offre un ampio quadro della questione, mettendo a fuoco sia lo stato dell’arte rispetto a tale tematica (in Italia) sia le sfide in relazione ad un futuro affatto lontano ma che, al contrario, come direbbe Simone Weil, già entra in noi molto prima che accada. Se non altro ci risveglia.
E ci interpella rispetto a molte dimensioni della vita, come per esempio quella religiosa, sulla quale si sofferma nella sua riflessione il testo di Ada Prisco, docente di religione presso le scuole superiori e studiosa del fenomeno migratorio, in particolare nelle sue implicazioni per la configurazione di una società interculturale dinamica e rispettosa delle diversità, aperta e capace di valorizzare le radici e che, proprio dalla sapienza delle religioni, può essere alimentata e supportata.
Infine, una utile scheda statistica del fenomeno migratorio in Italia, elaborata da Alessio Menonna della Fondazione Ismu di Milano e dell’Osservatorio Regionale Lombardo per l’Integrazione, ci consente di cogliere alcune tendenze in atto.
All’interno del complesso fenomeno migratorio rimane aperta la possibilità che il processo di scontro-incontro tra persone portatrici di nazionalità, culture, religioni, mentalità diverse mostri, al di là del dramma di cui è carico, una forza creativa, generativa, capace di innescare forme di convivenza che si alimentano del contributo libero e dialogico di ciascuno e dei gruppi che condividono un tempo, uno spazio, delle aspirazioni.
Si tratta di una possibilità che muove l’agire e che si può concretizzare a livello interpersonale così come nella revisione delle istituzioni esistenti o nella creazione di nuove, capaci di essere recettive rispetto alla convivenza plurale e di riconoscere/valorizzare ciò che ciascuno può investire.
Ma si tratta di una possibilità che inizia, dicevamo, dallo sguardo – provocandolo a divenire “uno sguardo di saggezza”, capace di alimentare di sapienza/sapore la nostra idea di libertà, interpellata a esistere finalmente come esperienza concreata non nonostante ma grazie alla diversità confinante dell’altro che incontra.
Il filosofo e migrante Vilém Flusser paragona le sofferenze legate alla vicenda del migrare così come all’esperienza dell’avvicinarsi, dentro la città, di mondi diversi non con una situazione problematica irrimediabile da sopprimere o sopportare, né con un’agonia che sfocia nel non-senso della morte (personale non meno che sociale), bensì con l’evento di un parto le cui doglie indicano qualcosa di nuovo che sta nascendo: “L’emigrazione è una situazione creativa e dolorosa. Chi lascia la propria terra (per costrizione o per libera scelta: tra i due motivi è difficile distinguere) soffre, perché mille vincoli lo legano alla patria e, quando questi vengono recisi, è come se avvenisse un’operazione chirurgica. Quando fui costretto a lasciare Praga (o presi la coraggiosa decisione di fuggire), sperimentai il crollo dell’intero universo. Confusi la mia interiorità con il mondo esterno. Soffrii per il dolore dei legami spezzati. Ma poi cominciai a comprendere che non si trattava dei dolori di un intervento chirurgico, ma di quelli di un parto. Mi resi conto che il cordone tagliato mi aveva procurato nutrimento e che ora venivo gettato nella libertà. Fui colto dalle vertigini della libertà che si manifestano nel passaggio dalla domanda: “libero da che cosa?” alla domanda: “libero per che cosa?”. Noi migranti siamo tutti così: creature prese dalle vertigini”[2].
Così, proprio chi si è trovato a dover lasciare la propria casa contribuisce a portare alla luce il senso di quella libertà che, nel nostro tempo e nel nostro contesto culturale, sembra essersi smarrita e fa fatica a immaginarsi come risposta alle sfide provenienti dalla storia, risposta che si mette in gioco facendo esistere, in modo innovativo, condizioni – culturali e istituzionali – aperte ad ospitare le capacità, le potenzialità, i pensieri e le energie vitali degli esseri umani.
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Segnaliamo, sempre su questo tema, altre storie già precedentemente raccolte all’interno dell’Archivio della Generatività Italiana:
“Associazione Genitori Di Donato: un punto di riferimento dopo la scuola”
“Villa Pallavicini: nuovi modi di abitare la città”
“Da Penny: a scuola di accoglienza”
“Piano Convivenza della Provincia Autonoma di Trento”
“Riace: paese dell’accoglienza”
[1] A. Maalouf, L’identità, Milano 1999, pp. 45-49.
[2] V. Flusser, Von der Freiheit des Migranten, Berlin-Wien 2000. La traduzione è nostra.