Quando, ormai 15 anni fa, fondammo l’Associazione Nestore, il suo sottotitolo – che desiderava esplicitare le finalità della stessa, ovvero il supporto alla transizione dal lavoro al pensionamento – richiamava un modello abbastanza semplice.
La maggior parte delle persone, e in particolare chi svolgeva un lavoro dipendente, scandiva la seconda parte della vita su due tappe normalmente ben individuabili e, per così dire, codificate: concludeva la vita di lavoro remunerato, poi andava in pensione, termine che non a caso designava anche la remunerazione su cui si poteva continuare a contare. Il passaggio – la transizione – dall’una all’altra tappa poteva rivelarsi problematico per chi non vi si fosse adeguatamente preparato; facilitare quel passaggio, aiutare gli individui, uomini e donne, a ridurre gli eventuali disagi di un cambiamento di vita inevitabile, però in molti casi difficile, era appunto il primo scopo di Nestore.
Il secondo era di evitare lo spreco del patrimonio di esperienze e competenze di chi terminava la vita di lavoro, per valorizzarlo a beneficio del proprio benessere da un lato, dall’altro di quello altrui, e in senso lato a beneficio della società. La combinazione di queste due finalità è sfociata fatalmente nelle connessione tra preparazione al pensionamento e orientamento al volontariato, collegando le tematiche del benessere personale a quelle del benessere collettivo.
Per realizzare ambedue gli scopi occorreva prepararsi, imparare, diventare capaci di costruire un ponte (la nostra metafora più comune) tra i due territori, nella logica della formazione lungo l’intero arco della vita.
L’approccio era dunque prevalentemente pedagogico. E comunque postulava la validità concettuale dei tre elementi portanti del modello. Un territorio di partenza: la vita di lavoro. Un territorio di arrivo: l’età del pensionamento (fino ad allora coincidente con l’inizio della vecchiaia pudicamente definita “terza età”). E il ponte, la formazione per apprendere a superare lo iato tra i due territori.
Il riferimento al modello fondativo, semplice e forte, ha dato i suoi frutti: Nestore – pur tra mille difficoltà – esiste, funziona, continua ad aggregare persone, a svolgere corsi. Costituisce un esempio di volontariato qualificato ed efficace, si arricchisce di attività anche grazie ai suoi soci sempre più capaci di organizzarsi autonomamente.
Intanto il mondo è cambiato. Tra i cambiamenti maggiori, e acceleratisi negli ultimi anni, particolarmente rilevanti sono stati quelli che hanno riguardato gli elementi costitutivi del modello di partenza. Cambiamenti che hanno colpito in modo radicale il territorio del lavoro, il territorio del pensionamento e riaperto il problema della transizione tra questi due mondi.
Appare perciò necessario ragionare su questi cambiamenti e le loro implicazioni, se si vuole che l’operato di Nestore rimanga collegato alla realtà.
Già l’UE suggeriva una svolta intitolando “Active ageing” un anno dedicato a quello che in italiano abbiamo chiamato “invecchiamento attivo”: un termine a cavallo tra lavoro e post-lavoro. Si può discutere il termine e il concetto di invecchiamento attivo, e per di più nella logica prevalente del lavoro economicamente produttivo. Ma l’impatto culturale della differenza tra “pensionamento” e “invecchiamento attivo” appare abbastanza chiara e forte.
La partecipazione di Nestore nel 2011-2012 a un progetto Grundtvig con quattro partner europei ha imposto una riflessione che sicuramente va ripresa: anche se non è ancora attuale oggi in Italia, il tema è ben presente nell’Unione Europea e nei paesi che ne fanno parte.
Risulta chiaro che lo studio di questa transizione chiede di essere affrontato in una logica multidisciplinare.
E’ anche cambiato profondamente il territorio di partenza del modello Nestore, il lavoro. E’ cambiato il suo significato (il lavoro, i lavori, i lavoretti…), si sono moltiplicati le sue tipologie; diverso è oggi il rapporto delle persone, ed in particolare dei più giovani, con il loro lavoro. E’ cambiata, nel lavoro, la sua durata, la sua collocazione e la sua distribuzione nell’arco della vita, la sua centralità sia come fonte di reddito e di benessere, sia come opportunità di apprendimento e di realizzazione personale, sia come presupposto della progettazione del proprio futuro. Sono cambiate le norme che lo regolano in entrata e, soprattutto per quel che ci riguarda, in uscita, rivelando una dialettica generazionale assai complicata per i suoi risvolti demografici, sociali, culturali. Fermiamoci qui.
I cambiamenti della vita di lavoro hanno anche acquistato una risonanza che va al di là di Nestore. Nel campo più specifico della gestione del personale, poi, tra le pratiche di “gestione delle differenze” è entrata la voce differenze di età: campo rilevante non solo in termini gestionali ma anche formativi (si pensi al problema della trasmissione intergenerazionale delle competenze). Alcune aziende hanno già intrapreso iniziative coraggiose in questo senso.
Un ulteriore cambiamento, quello più rilevante e sotto gli occhi di tutti, riguarda il concetto e la realtà del pensionamento. E’ un aspetto essenziale dell’invecchiamento attivo (o dell’invecchiamento felice, come alcuni di noi preferiscono pensarlo). L’introduzione di nuove leggi dettate dalla demografia e dall’economia stanno avendo conseguenze sociali che stanno sotto gli occhi di tutti. Le prospettive di una seniority garantita dal sistema di sicurezza sociale sta svanendo, e non è ben chiaro da cosa potrà essere sostituita. Il collegamento tra vita di lavoro(a questo punto: quale?) e la fase di vita successiva è ridiventato un problema da risolvere; il suo impatto esistenziale e sociale non riguarda evidentemente solo gli attuali senior, magari esodati, ma anche le attuali generazioni di lavoratori (o di disoccupati) che si domandano come e di che cosa vivranno in futuro. La domanda di fondo diventa: ha ancora senso parlare di pensionamento? Con quale significato? O di cos’altro?