Talita Kum

Dalla periferia sognare la città

Talita Kum è un Centro educativo e di servizi per minori in situazione di disagio e rischio sociale, promosso dalla Caritas di Catania e frutto di un lungo percorso di impegno formativo per i giovani nonché di una ricerca-azione sociale avviata nel 2005 da Caritas diocesana e Caritas Italiana insieme all’Università Cattolica di Milano.

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Talita Kum Associazione di volontariato

Associazione

Catania

www.talitakumcatania.it

Talita Kum | Dalla periferia sognare la città

La denominazione del Centro esprime significativamente la sua mission: l’espressione “Talita kum” – tratta dalle pagine bibliche – significa “fanciulla, io ti dico alzati” (Mc 5, 41).

Rivolto ai ragazzi del quartiere, ossia alla popolazione più significativa per numero e per potenzialità, il Centro si pone come segno di rinascita e rigenerazione per la città, a partire dal suo “futuro”, i giovani. E a partire non tanto da un discorso sulla realtà, ma dall’ascolto di quest’ultima e dall’azione con quest’ultima, come spiega Giuliana Gianino, Presidente dell’Associazione Talita Kum: “il tutto ha origine dal desiderio di Caritas di Catania, Caritas Italiana e l’Università Cattolica di Milano di cercare delle vie di prossimità che fossero delle vie di reale ascolto della periferia, quindi della gente, delle vite… Per questo si sceglie di far nascere un’opera che sia segno di tutto questo stare accanto…’.

Da dove nasce l'idea

Il Centro sorge in un quartiere di periferia, Librino. Questo territorio fino a quarant’anni fa era tappezzato da latifondi tenuti a mezzadria e coltivati ad agrumeti e vigneti.

I terreni acquisiti per la realizzazione del quartiere appartenevano ad alcune delle famiglie nobiliari più in vista della Catania dell’800 tra cui quella dei principi Moncada. Ed è a questi principi che è dedicato il nome dell’anello stradale in cui si trova il Talita Kum, zona oggi tra le più difficili all’interno del quartiere, costellata da alcuni stabili di cemento armato alti, grigi ed imponenti, consumati dall’usura del tempo, che solo la mano bendata della casualità e della buona sorte permette di mantenere in piedi nella loro struttura originaria.
Il quartiere era stato immaginato – dal piano regolatore degli anni ’60 – come luogo dove la città avrebbe potuto espandersi nel segno della modernizzazione. Le ambizioni che stavano dietro quell’immaginazione spinsero il comune a pensare in grande. Per questo, nel 1970, fu incaricato di progettare la veste architettonica dell’intero quartiere di Librino il notissimo architetto giapponese Kenzo Tange: Librino avrebbe dovuto costituire la «nuova città».

“Librino è una periferia di Catania, una periferia considerata l’icona come Scampia o lo Zen a Palermo. Perché mi trovo qui? Da dove ha origine questa storia? Ha origine dal desiderio di Caritas Catania, Caritas Italiana e l’Università Cattolica di Milano di cercare delle vie di prossimità, delle vie di reale ascolto della periferia, della gente, delle vite, delle storie che attraversano le periferie d’Italia e capire dove stanno andando le periferie.”

Giuliana Gianino, insegnante di liceo e responsabile per la Caritas di Catania di un centro per minori a Librino

La Storia

Al fine di fondere l’ambiente naturale con quello umano, Tange propose una soluzione innovativa, ma del tutto estranea al contesto socio-culturale a cui veniva rivolta.

Il quartiere venne infatti pensato come un insieme di grandi anelli residenziali, collegati da un sistema stradale costituito da ampie strade a quattro corsie, che scorrono lungo il perimetro di ciascun anello in modo da permettere collegamenti agevoli tra le diverse aree. Al percorso veicolare se ne sarebbe dovuto affiancare uno pedonale, immerso nel verde, costituito da un grande parco centrale e da alcune «lingue» di verde, chiamate spine, che avrebbero permesso di ricucire le residenze alle attrezzature pubbliche, agli uffici, agli impianti sportivi e alle strutture religiose. Ogni anello avrebbe dovuto costituire una piccola comunità residenziale semi-autonoma, con la presenza di una serie di infrastrutture: la scuola, le attività commerciali primarie, le strutture sanitarie e gli uffici dell’amministrazione pubblica, oltre che la chiesa, alcuni centri di socializzazione e gli impianti sportivi. Infine, al centro dell’intero complesso avrebbero dovuto sorgere delle strutture a servizio di tutto il quartiere, come, ad esempio, un grande centro culturale attrezzato con teatro, museo, sala congressi ed altro.

L’idea, sulla carta tanto originale e futuristica, esprimeva la convinzione di quei tempi, ossia che fosse possibile organizzare ex-novo insediamenti urbani pensati secondo dei criteri di funzionalità e efficienza. Come la storia ha mostrato, anche in altre parti del mondo tentativi simili molto difficilmente hanno sortito risultati apprezzabili, perché costruire dal niente un nuovo contesto urbano, al di fuori di una storia e di una cultura, è sempre un’operazione illuministica e degenerativa che pretende di plasmare la vita sociale secondo un disegno che, per quanto affascinante, non è mai in grado di avere il respiro vitale dei rapporti umani. Ma nel caso di Librino, la distanza tra l’idea e la realizzazione è stata massima: il peso di diversi fattori – di ordine politico, culturale e economico – ne impedì anche la più embrionale realizzazione in favore del risultato opposto, il fallimento.

L’ideale della «nuova città» si è così trasformato nel suo contrario, in un non-luogo, spazialmente segregato, frammentato al proprio interno e incapace di esprimere una socialità e una cultura propria. E proprio per questo destinato a diventare ricettacolo e moltiplicatore di problemi umani e sociali. 

Negli enormi palazzoni monocolore, e in particolare di quelli che sorgono lungo il viale Moncada, si registra la presenza di numerose persone indigenti, che vivono la loro precaria quotidianità ai confini del contesto sociale. Qui il reclutamento e l’ingresso in circuiti illegali rappresenta spesso uno sbocco naturale, considerato alternativo al destino di povertà, disoccupazione o sottoccupazione e marginalità: “in questo quartiere – afferma Giuliana Gianino – ai nostri occhi non c’erano servizi, non c’erano punti di incontro; tutto si sviluppava in verticale – grandi palazzoni – ma mai in orizzontale, nelle relazioni. Moltissimi bambini erano e sono per strada: lo spaccio è a portata di mano, si diventa pusher a 12 anni, quasi l’unica via per poter essere presenti in questa storia… Per noi è stato naturale raccogliere la spinta di tutte le famiglie e anche delle parrocchie, di chi abitava questo quartiere: offrire uno spazio proprio per i minori e, con loro, per l’anello più debole del quartiere che sono le donne, coloro che reggono quasi tutta l’economia di questo quartiere ma che poi sono le vittime principali del disagio culturale ed economico, nonché del vivere delinquenziale e del sistema mafioso che controlla il territorio…”.

Dell’idea di Tange sono rimasti i sette anelli abitativi, mentre sono spariti del tutto i luoghi destinati ai servizi e all’aggregazione sociale. Il che rende impraticabile qualunque forma di vita sociale, che viene ulteriormente depressa dallo stato di abbandono delle strade e delle piazze, dove prevalgono i segni di inciviltà che ricordano agli abitanti di Librino che vivono in una terra di nessuno. Ancora oggi, i bambini, se vogliono ritrovarsi a giocare, utilizzano qualche area adiacente ai palazzoni o i campetti di terra pieni di detriti dove, spesso, le fogne scaricano i rifiuti a cielo aperto.

In tale contesto, il Centro Talita Kum propone un progetto e getta così un seme, un segno: far intravedere, nella concretezza della vita quotidiana, la possibilità di una alternativa alla spirale di abbandono che produce ulteriore degrado – sociale non meno che umano: “… siamo partiti con un centro che potesse intanto accogliere i bisogni primari che erano quelli di offrire dei luoghi in cui il bambino potesse prima di tutto essere un bambino, quindi giocare, studiare, conoscere le proprie potenzialità, la propria creatività, e incontrare delle relazioni positive, perché spesso incontriamo bambini che vivono delle relazioni molto aggressive e molto negative, in famiglia e in strada, e questo lo identificano anche poi nella società – quindi per loro tutto è aggressività. E alimentano questa aggressività dentro: i primi giorni qui, nel Centro, era un entrare, da parte dei nostri bambini e ragazzi, spaccare tutto e andarsene. Questa era la manifestazione della loro voglia di esserci nella nostra storia… Ora, dopo alcuni anni, alcuni di loro – che sono cresciuti – vengono con noi e aiutano nella animazione per esempio con lo Straludobus in giro per il quartiere…”.

Tutti i pomeriggi, una vivace squadra di giovani volontari e operatori offre attività di sostegno al percorso scolastico dei ragazzi, con approfondimenti personalizzati, e attività aggregative (laboratori di teatro, musica, informatica, di psico-motricità, di cucina, ecc.; momenti ricreativi e artistici; animazione del territorio attraverso un ludo-bus che si ferma laddove lo spazio è estraneo così da rigenerarne il significato per chi lo abita, ecc.).

Gli aspetti generativi

Il Centro Talita Kum è espressione di quella vivacità sociale che si ritrova, quasi nascosta, nella periferia, così come all’interno dei suoi soggetti sociali: associazioni, cooperative, gruppi di volontariato presenti nel quartiere, in questi ultimi anni, arrivati a Librino intravedendo che si può seminare qualcosa anche laddove il terreno sembra arido.

Talita Kum aspira - insieme ai ragazzi stessi, interpellati a divenire protagonisti nella costruzione del futuro della città - a migliorare le cose, cercando di raccogliere e dar voce anche alla particolare ricchezza di generi umani che l’anonima e degradata facciata esterna di molti palazzoni così come l’incuria degli spazi pubblici non lascia affatto immaginare. Racconta ancora Giuliana: “…io mi ricordo Enza che, guardando il ‘palazzo di cemento’, un palazzo che sta accanto al nostro Centro -un palazzo famoso in città, molto malmesso e degradato -, i primi giorni diceva: ma sarebbe bello vederlo tutto colorato! Era questo desiderio, questo germe – il voler colorare la propria vita e il sentirsi capaci di poterlo fare - che ha fatto, ha costruito in questi anni il Talita Kum…”.

Investire sulle giovani generazioni, in un quartiere nel quale l’incidenza della popolazione giovanile sugli abitanti è davvero rilevante e dove vive quasi il 20% degli adolescenti catanesi, nel quale sono forti le spinte contrastanti come per esempio quella dei poteri obliqui che controllano il territorio o, più in generale, plasmano la memoria e il pensiero di molti, significa assumersi una sollecitudine e una preoccupazione che interpella in profondità, dar corpo ad una responsabilità educativa di contro all’inazione che diserta non solo gli spazi delle piazze pubbliche ma anche la piazza del sociale e dell’umano, intesa come bene da ricomporre e custodire insieme; significa concentrarsi sul presente, sull’oggi di una storia, senza lasciarsi schiacciare dall’immanenza dei fatti, investendo sul futuro della città, restituendole la forza di rialzarsi, di credere che è possibile intraprendere strade diverse da quelle tracciate da un destino che sembra essere già segnato. Significa, in altre parole, credere che è possibile generare qualcosa di bello da consegnare a chi verrà dopo di noi.