Riprendendo la metafora usata da Fondazione Fitzcarraldo per il lancio della call to action “Cultura e Futuro”, dopo la crisi finanziaria del 2008, mentre eravamo ancora nel bel mezzo dell’oceano siamo stati travolti da un’altra tempesta perfetta, senza che nel frattempo siamo stati capaci di tracciare una nuova rotta. Come sostiene Mauro Magatti, sociologo, economista e docente all’Università Cattolica di Milano, il tema oggi è come ci rimettiamo insieme e soprattutto come possiamo rimettere insieme economia e società. A questo proposito, una strada per ricucire tale legame è – secondo Magatti – abbracciare il paradigma della generatività sociale, che rappresenta un processo aperto, in dialogo continuo con il contesto e le circostanze che si vengono a creare, assumendo la caratteristica di una forma di vita dinamica, che si sviluppa nel tempo. Ne abbiamo parlato in questa conversazione, da cui emerge in maniera incontrovertibile il ruolo giocato dalla cultura nella costruzione di una società capace di essere realmente sostenibile: “dovrebbe essere chiaro che l’evoluzione storica dentro cui siamo immersi, che stimola la complessità tecnica e aumenta la capacità di produzione del benessere, ha bisogno del polmone culturale sia per non morire di tecnicismo sia perché la sfera culturale è la linfa attraverso cui si nutrono le persone, le organizzazioni e i territori. Senza questo polmone non c’è vero sviluppo e lo dico senza nessuna retorica, nel senso che il grande rischio che corriamo è quello di un tecnicismo esasperato con il mondo desertificato intorno. Oggi la cultura va concepita, nel processo di rinegoziazione dei rapporti tra economia e società, come un elemento necessario per poter andare verso il futuro”, prendendosi cura degli altri e dell’ambiente in cui viviamo.

 

In qualità di direttore scientifico dell’ARC – Centre for the Anthropology of Religion and Cultural Change ha dato impulso al filone di ricerca sulla generatività sociale. In un momento in cui si moltiplicano le riflessioni sulla necessità non solo di immaginare ma anche di provare a realizzare e mettere in pratica una nuova idea di società, quali sono le principali caratteristiche di una società generativa e perché dal suo punto di vista è preferibile rispetto ad altri paradigmi?

Oggi stiamo attraversando un nuovo momento di passaggio, in quanto il Covid-19 può essere visto come il terzo grande shock globale dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 e la crisi finanziaria del 2008. Non si tratta di tre fatti casuali, ma di eventi che accadono come conseguenza di un modello di sviluppo fortemente entropico, che si basa sull’idea di aumentare le possibilità a disposizione di ogni singolo individuo, che è spinto a cercare di cogliere alcune di queste opportunità. Tale modello non solo produce disastri a livello macro, ma produce anche una serie di difficoltà, problemi, distorsioni e disagi a livello individuale e relazionale. Dal mio punto di vista, tutti gli aspetti della società sono legati tra loro, nel senso che non c’è un piano dell’economia, oppure un piano della tecnica, o un piano delle relazioni indipendente dagli altri, in quanto l’ambito sociale è uno solo. Il modello entropico, invece, è il prodotto dell’idea di libertà individuale che si è affermata tra gli anni ’60 e gli anni ’70 del secolo scorso, che ha portato alla cieca economia del consumo. Da tempo penso – e a maggior ragione oggi, in questo periodo post-Covid – che se si vuole sul serio provare a fare qualche passo in avanti, sia necessario adottare una concezione antropologica dell’idea di libertà, che qualifico come generativa. Ciò significa che gli esseri umani non sono prima di tutto consumatori – ossia soggetti che si appropriano di alcune delle possibilità che il sistema economico rende disponibile –, ma sono soprattutto dei generatori, la cui realizzazione è data dalla capacità di far circolare la libertà da se stessi agli altri. Il generatore è colui che facendo quello che fa nella sua vita quotidiana, ha la grande possibilità di accrescere la libertà dell’altro attraverso delle azioni concrete. Questo non per una ragione morale, ma perché questa è la modalità attraverso cui il soggetto libero esprime se stesso senza distruggere il mondo, che è il problema principale che oggi abbiamo come specie. La generatività sociale è un paradigma e non un modello, nel senso che non si tratta semplicemente di una serie di nozioni che si possono studiare su un manuale per poi essere applicate in maniera ripetitiva in diversi contesti. È un modo di stare al mondo insieme, che si manifesta in una pluralità che è la sua bellezza e le numerose esperienze che abbiamo raccolto in questi anni – non solo studiando ma interagendo con le realtà che danno concretezza all’idea di generatività sociale – danno il senso di questa varietà. La generatività è un pensiero circolare – non a caso usiamo l’immagine della spirale – che si sviluppa in tre fasi, tutte ugualmente indispensabili: il desiderio di mettere al mondo, prendersi cura e lasciare andare. Pertanto la generatività tende a sviluppare dei processi, il cui obiettivo di fondo è la crescita delle persone, immaginando degli strumenti e delle modalità per camminare insieme perché questo è l’unico modo per generare valore condiviso e benessere collettivo.

 

Le esperienze a cui ha fatto riferimento sono raccolte nell’Archivio della Generatività, uno spazio digitale che ospita ormai 130 casi di pratiche e politiche generative. Ci racconta qualche esempio per lei particolarmente significativo, attivo soprattutto in ambito culturale?

Cito due esperienze, una propriamente legata all’ambito culturale e una relativa al tema delle città. La prima è la storia della Fondazione Nymphe Castello di Padernello, che opera all’interno di un piccolo borgo che si trova tra Brescia e Mantova, che fino a qualche anno fa era abbandonato. Grazie a un gruppo di volontari locali, che a partire dagli anni ’90 del secolo scorso ha cominciato a porsi la domanda di cosa farne di questo castello quattrocentesco che stava andando in rovina, è stato avviato un processo di recupero e riqualificazione del castello, che negli anni è diventato un luogo di produzione culturale, che realizza e organizza rappresentazioni teatrali, rassegne cinematografiche, mostre, eventi enogastronomici e attività che mirano alla valorizzazione del contesto locale, generando posti di lavoro e sostenendo la trasformazione dell’intero borgo. Un luogo che era destinato a distruggersi è stato trasformato in un’occasione di rigenerazione non solo di un bene culturale, ma di un’intera comunità locale e della sua economia. L’altro caso che voglio citare è quello di Lombardini22, che è una società milanese di progettazione e di sviluppo urbano. Si tratta di una fiorente comunità di 300 professionisti con un’età media di 35 anni, organizzata e gestita secondo i principi della fiducia reciproca, della valorizzazione delle competenze e dell’eterarchia – ossia non di comando centralistico ma di lavoro di gruppo –, dove anche i giovani hanno la possibilità di svolgere ruoli importanti e di responsabilità. Qui abbiamo trovato un contesto lavorativo innovativo e di grandissimo spessore umano, dove il tema non è tanto costruire case ma dare un contributo concreto alla trasformazione delle nostre città e del nostro modo di vivere e abitare.

 

Gli esempi citati richiamano alla mente un suo intervento recente durante il quale ha detto che siamo giunti a un punto in cui è fondamentale concentrarsi su due aspetti: da un lato la cura delle persone, inventando dei nuovi sistemi per accompagnare e sostenere il capitale culturale degli individui, e dall’altro la cura dei territori come depositi di cultura. Rispetto a queste questioni, in che modo è possibile rimettere al centro il concetto di cura – sia verso gli altri sia verso l’ambiente – puntando sulla capacità relazionale e trasformativa della cultura?

Questa è una domanda molto importante. Il mio amico e filosofo Bernard Stiegler, che vive a Parigi, dice sempre che uno dei tratti del modello entropico, basato sull’aumento generico delle possibilità che un individuo dovrebbe cogliere, è che disabitua le persone a prendersi cura. La cura non è una questione privata, che riguarda la sfera intima o famigliare, ma è un modo di stare al mondo. Cura è un termine la cui radice etimologica, forse fantasiosa ma suggestiva, è il latino “cor urat” – ossia ciò che “scalda il cuore”. Non è qualcosa che facciamo perché siamo bravi o buoni, ma ci prendiamo cura di ciò che è bello, importante, a cui vogliamo bene. È un modo che ci ingaggia nei confronti della realtà, senza pretendere di dominarla e controllarla. Per cui la cura è un elemento fondamentale se vogliamo andare nella direzione del modello della sostenibilità. Il rischio che corriamo è che la parola sostenibilità diventi un’etichetta per lasciare le cose esattamente come erano prima, ossia che tutti diventino improvvisamente sostenibili solo perché rispettano qualche criterio o parametro ambientale. Non è tanto questo. La sostenibilità nasce dal riconoscimento che siamo in relazione gli uni con gli altri e con l’ecosistema nel quale viviamo, e il nostro prenderci cura reciproco e il nostro prenderci cura nei confronti dell’ambiente è sia la precondizione sia un elemento cardine per evolvere verso questa nuova idea di sostenibilità. Aggiungo che tradizionalmente la cura è vista come un aspetto da attribuire in maniera prevalente al genere femminile, anche se in realtà è universale. Ci tengo a sottolineare questo punto, perché mi auguro che il pieno raggiungimento del lento processo del recupero del valore della donna nella società – iniziato nel Novecento e ancora a metà strada – possa coincidere con la capacità di rendere l’elemento della cura non un fatto privato ma un un fatto collettivo, un fatto pubblico.

 

In diversi occasioni lei ha ribadito che il terzo settore non può essere solo un prestatore di servizi, spesso a basso costo. Qual è, dal suo punto vista, la funzione che il terzo settore dovrebbe svolgere oggi?

Il Terzo Settore ha bisogno di uscire da questa definizione, perché in questa nicchia è destinato a morire. Questo vuol dire avere il coraggio di rendersi conto del cambio di paradigma che è in atto. Come ho detto prima, stiamo assistendo alla crisi del modello entropico che ha separato l’economia (che è diventata globale) dalla società (che è rimasta locale), ed è in corso – anche se in modo ancora parziale, contraddittorio e confuso – un processo che sta cercando di rimettere insieme economia e società. Si inizia a riconoscere, quindi, che non ci può essere sviluppo economico se non crescono allo stesso tempo la società e le persone. Per questo penso che il Terzo Settore deve ripensarsi in maniera coraggiosa, non deve diventare esso stesso un fattore di conservazione e non deve avere paura di morire per poter rinascere, che è uno dei principi fondamentali della generatività sociale. Il Terzo Settore deve trasformarsi e deve farlo velocemente, così come devono cambiare le imprese e la pubblica amministrazione. Se si usa il codice della generatività sociale per leggere la situazione attuale, è possibile mettere in evidenza il fatto che tutta la generazione dei dirigenti del Terzo Settore, che ha avuto il grande merito di aver fatto crescere questo ambito e di averlo reso riconoscibile, in questo momento non può essere il soggetto che gestirà il futuro. Oggi la sua grande responsabilità è quella di affiancare e accompagnare la generazione più giovane, affinché quest’ultima possa realizzare la trasformazione culturale di cui c’è bisogno senza dover cominciare da zero. Secondo me, questo è il punto cruciale, in particolare in Italia, dove ben al di là del Terzo Settore, ci sono gruppi dirigenti statici, che impediscono la trasformazione e l’evoluzione degli enti organizzativi e sociali.

 

A questo proposito, sono in molti ad aver messo in evidenza che le generazioni più giovani rischiano di pagare uno dei prezzi più alti di questa nuova crisi. Dal suo punto di vista in che modo dovrebbe essere rivisto il rapporto intergenerazionale, soprattutto in un Paese come l’Italia caratterizzato da un alto tasso di invecchiamento della popolazione?

Questa è una questione decisiva per l’Italia, nel senso che il nostro Paese è in una condizione di declino economico, sociale e demografico che dura da qualche decennio. Ormai da un po’ di tempo penso che questo declino non si possa fermare attraverso l’ordinario, ma serve qualcosa di straordinario, che potrebbe anche essere il Covid-19. La questione può essere posta in questi termini: in Italia esiste un grande debito pubblico, ma esiste anche una grande ricchezza privata. Abbiamo 10mila miliardi di ricchezza privata, in beni immobili e in conti e depositi bancari, che è in larghissima parte detenuta dalla generazione di coloro che hanno dai 50 anni in su, visto che coloro che hanno meno di 50 anni difficilmente sono in grado di risparmiare dal momento che spesso non hanno neanche un lavoro. Quindi questo è il tema, ossia come la generazione di chi in questo momento ha più di 50 o 60 anni ed è in possesso di gran parte dei beni mobili e immobili, può far transitare una parte di queste risorse non tra trenta o vent’anni (quando questa generazione non ci sarà più), ma adesso. Un intervento di questo tipo permetterebbe di investire sui giovani e di rimettere in moto il Paese, con il duplice vantaggio che chi è più avanti con gli anni potrà godere dei benefici del rilancio dell’economia e della società italiana quando avrà bisogno di essere assistito, e dall’altra parte i giovani potranno avere a disposizione risorse – che in questo momento sembrano non esistere – per avviare i loro percorsi di vita e di sviluppo professionale ed economico. Se non creiamo le condizioni per questo patto generazionale, l’Italia non ce la fa. Il peso del carico demografico, che si porta dietro anche la ricchezza, è tale per cui i ragazzi sono costretti a lasciare il nostro Paese, perché qui non ci sono possibilità. Naturalmente è necessario creare le condizioni perché ciò accada e perché la mobilitazione di tali risorse avvenga con delle garanzie, che consentano a tutti i soggetti coinvolti di ottenere dei vantaggi. L’idea che si possa generare crescita e reddito semplicemente consumando, e in particolare facendo consumare di più gli anziani, è delirante oltre che fallimentare. Sono convinto da tempo – e per fortuna non sono il solo – che il tema non sia semplicemente stimolare i consumi, che certamente sono importanti, ma attivare dei processi virtuosi attraverso l’adozione di un atteggiamento contributivo, che è una parola molto vicina – anche se non perfettamente coincidente – al concetto di generativo. La parola contribuzione significa che i soggetti, in questo caso la popolazione anziana, possono essere invitati a contribuire al futuro del Paese e dei propri figli, partecipando alla produzione del valore condiviso e al benessere di tutti, in quanto non ci si realizza nel mero consumo ma essendo parte di un più ampio progetto sociale e politico, capace di accompagnare la crescita sostenibile.

 

Per comprendere cosa sta avvenendo all’interno del mondo culturale, considerato uno dei settori più colpiti dalla pandemia, Fondazione Fitzcarraldo ha lanciato il documento “Cultura e Futuro” che pone 10 domande per andare oltre l’emergenza e guardare in prospettiva per immaginare nuove rotte e nuovi approdi. Tra queste, mi piacerebbe sottoporre alla sua attenzione due domande in particolare. La prima è a chi e a cosa serve l’azione culturale? Ossia qual è, o quale dovrebbe essere, la missione di un’istituzione culturale in un contesto come quello attuale?

Dovrebbe essere chiaro – e ahimè temo che in Italia non lo sia ancora – che l’evoluzione storica dentro cui siamo immersi, che stimola la complessità tecnica e aumenta la capacità di produzione del benessere, ha bisogno del polmone culturale sia per non morire di tecnicismo sia perché la sfera culturale è la linfa attraverso cui si nutrono le persone, le organizzazioni e i territori. Senza questo polmone non c’è vero sviluppo e lo dico senza nessuna retorica, nel senso che il grande rischio che corriamo è quello di un tecnicismo esasperato con il mondo desertificato intorno. L’elemento culturale è la condizione fondamentale affinché il processo sia umanizzante invece che disumanizzante. Oggi la cultura va concepita, nel processo di rinegoziazione dei rapporti tra economia e società, come un elemento necessario per poter andare verso il futuro. Detto altrimenti, i Paesi che hanno mondi culturali – di cui anche la scuola è una parte – vivaci, ricchi, prosperi sono Paesi che pur faticosamente stanno a galla. I Paesi, invece come l’Italia, che rimangono indietro dal punto di vista culturale sono i Paesi che arrancano.

 

La seconda è in che modo le istituzioni culturali possono lavorare per rafforzare il legame con la scuola e l’istruzione e contrastare l’allargamento delle povertà educative?

Non dobbiamo pensare di essere completamente a digiuno, in quanto ci sono numerose esperienze in giro per l’Italia molto interessanti di collaborazione, ad esempio, tra musei e scuole o tra scuole e teatri, che sarebbe interessante raccogliere e far circolare. Per rispondere più nello specifico a questa domanda uso un’immagine che mi capita di citare spesso. Ai primi dell’Ottocento, quando si è cominciato a immaginare una scuola obbligatoria per tutti, laddove sapeva leggere e scrivere il 3 o 5 per cento della popolazione, i primi che hanno concepito l’idea di una scuola dell’obbligo sono stati quasi sicuramente considerati dei matti, perché era un pensiero folle. Ecco, noi siamo fermi là rispetto alla questione scuola e cultura, nel senso che abbiamo bisogno di un pensiero  “disruptive” rispetto a questo tema. Non dobbiamo semplicemente immaginare di fare dei piccoli aggiustamenti. Se vogliamo reggere il livello di complessità sistemica e tecnica delle nostre società – e lo vediamo anche a causa della pandemia – dobbiamo avere un pensiero adeguato su tutto il pacchetto formazione e cultura, che al momento non abbiamo, e dobbiamo immaginare dei progetti che siano paragonabili per ambizione a quelli che sono stati elaborati nel corso dell’Ottocento, che hanno portato alla nascita della scuola dell’obbligo. Il tema della formazione della persona e dell’esposizione alla conoscenza e alla cultura in una società avanzata è un tema rispetto al quale, in Italia, siamo rimasti indietro di decenni. Abbiamo sottovalutato il fatto che le persone, le culture e le comunità hanno bisogno di essere nutrite dal punto di vista culturale e che questo richiede un disegno, delle idee, dei progetti, degli scambi e così via. Pertanto è necessario ripensare il rapporto tra la scuola, che non può più essere un soggetto blindato e chiuso in se stesso, e tutte le realtà culturali che operano sul territorio nell’ambiente circostante, e viceversa. Un rapporto in cui la cultura non può semplicemente rivolgersi a un pubblico generico, ma deve anche assumersi delle responsabilità di alimentazione delle comunità, e in particolare delle nuove generazioni. Purtroppo in Italia non è stato dato un assetto istituzionale sensato alla scuola, nel senso che abbiamo ancora un sistema pubblico che è destinato al fallimento. Sono state fatte delle riforme parziali, che hanno fatto quasi più danni che altro, come la famosa autonomia scolastica, ma non è stata fatta nessuna politica di tipo culturale e nessun investimento serio.

 

Da molto tempo assistiamo, almeno in Italia, a una certa distanza e difficoltà di dialogo tra i politici e gli studiosi e gli esperti che operano nei diversi campi del sapere, dalla scienza all’arte. Secondo alcuni osservatori, questo progressivo  allontanamento ha portato a una mancanza di visione prospettica e di pensiero strategico della politica, che sembra aver perso la sua capacità di elaborare idee che non guardano solo al presente ma anche al medio e lungo periodo. In una situazione come quella attuale in cui offrire risposte inadeguate potrebbe tradursi in un ulteriore aumento delle diseguaglianze sociali, i decisori politici riusciranno a comprendere l’urgenza e la necessità di dotarsi di una lente culturale per affrontare le sfide che ci aspettano?

Speriamo naturalmente che questo accada. La realtà sociale ed economica nella quale viviamo è molto complessa, quindi è molto difficile per chiunque riuscire ad avere le competenze, le qualità, le conoscenze tali per cui si possano gestire in maniera sensata questi sistemi. Tuttavia è importante avere la capacità di servirsi delle competenze, anche se in maniera goffa e un po’ superficiale. Credo che iniziative come le task force o gli Stati Generali, rivelino la consapevolezza che la politica oggi ha bisogno di dialogare con le competenze. Non sappiamo ancora se questo sarà un dialogo sensato o se saranno solo delle passerelle dove i vari esperti dicono una cosa e poi i politici fanno tutt’altro, però almeno si intravede che l’esigenza è stata colta. Dovremmo imparare – utilizzando gli strumenti che abbiamo e sfruttando la complessità e la ricchezza della nostra società – ad ascoltarci di più e a mettere a fattor comune l’intelligenza collettiva, che c’è e che è enorme ma che non riusciamo a valorizzare. Rispetto a tutto questo, il Covid – e lo vediamo con quanto sta succedendo in Europa, che solo fino a qualche mese fa sarebbe stato impensabile – apre uno spazio per avviare un ciclo nuovo di trasformazione per affrontare tutta una serie di nodi che ci portavamo dietro. Oggi c’è uno spazio concreto di azione, anche se si tratta di una finestra temporale limitata, non per realizzare questa trasformazione, ma per avviarla concretamente. C’è la convergenza di una serie di soggetti che capiscono che tante cose vanno cambiate e c’è anche la disponibilità di risorse finanziarie che in passato non avevamo. Speriamo davvero di saper cogliere questa opportunità.

ABSTRACT

Social generativity is a relational paradigm for social change apt to enlighten the relation between personal development and social change. It is an empirically observable process – as generative social action – accomplished in three movements (bringing into the world, taking care and releasing), producing a dynamic social bond which opposes hyperindividualization and bureaucratization by strengthening individuation and institutional pluralisation. During the pandemic period, the crisis of the “old” model of development, based on an extreme consumerist economy, has emerged even more clearly. In this conversation with Mauro Magatti, sociologist and economist, and scientific director at the Centre for the Anthropology of Religion and Cultural Change, we talked about future prospects and a new idea of sustainability capable to display an expansionary as well as innovative dynamic triggering cultural and social change.