Il paragone della pandemia con la guerra è ossessivo, insistito, semplicistico. La guerra ha una sua fenomenologia evidente, fatta di distruzione ed eventualmente di ricostruzione. Ha la sua primaria manifestazione nel fatto materiale. E pensare di ricostruire ciò che era distrutto, pacificare ciò che era lacerato dal conflitto sono motivazioni sufficienti per tornare a vivere e aprirsi al futuro. Già questo permette uno slancio vitale e spirituale sufficiente per spingersi in avanti, per ripartire.
Questa volta è diverso. Questa non è una guerra, è invece, paradossalmente, una sua inversione. Non un momento di esplosione, di lampeggiare di bombe, tuonare di cannoni, rombare di aerei, urlare di corpi lacerati dai colpi di fucile e dall’odio. Al contrario. È un momento di assoluto ripiegamento, di chiusura. È la vera terra desolata, metaforicamente annunciata da Eliot, ora incombente su di noi. L’attraversiamo, la viviamo, la sentiamo. Sterile e vuota come l’aveva immaginata nelle sue visioni moderniste. Un silenzio carico non di riflessioni ma di giorni ripetuti e sempre uguali, scandito dal suono di numeri che significano altri morti, un ticchettare fatto di vite che non sono più. E poi ancora altri giorni sempre uguali, perennemente presenti.
Uno dei fatti più tremendi della guerra è che muoiono moltissimi giovani, e anche in questo consiste la tragedia: con ogni giovane muore la speranza del tempo che verrà, del suo rinnovarsi. Poi però altri giovani restano e altri giovani tornano e sono sempre abbastanza per ricominciare, per rinnovarsi, per ricostruire, per ripartire. Per rinascere. Hanno la stessa forza, uguale e contraria perché piena di vita, dei cannoni che li avevano annichiliti. E l’esplosione di vita è un’immagine trita ma di sicura efficacia per descrivere ciò che ricomincia dopo la guerra.
Qui invece, oggi, con il virus muoiono in molti, qualcuno anche giovane, ma muoiono principalmente gli anziani. Allora accade qualcosa di altrettanto drammatico. Vengono tagliati i ponti con ciò su cui ci poggiavamo, ciò che era sicuro, a cui ci si poteva affidare. Con chi ci ha amato, i nonni gli zii, senza chiederci nulla in cambio. La gratuità dei gesti, la certezza di chi si è stati, la speranza che se la vita non ci rende ciò che ci promette c’è comunque un posto abbastanza sicuro in cui rifugiarsi, anche solo come coscienza che rassicura nei momenti più difficili.
È questo passato, questo appoggio che spesso ci lasciamo dietro le spalle, che possiamo persino dimenticare ma che sappiamo comunque essere lì da qualche parte ad aspettarci, che viene meno. Sia in maniera reale, concreta e tragica, sia in maniera simbolica.
Il futuro però, allo stesso tempo, in questi giorni non appare come un luogo che esiste davvero, in cui spingersi. È un orizzonte oscuro, impenetrabile, di cui si può legittimante dubitare lasciandoci allora come “color che son sospesi”. Cos’altro è, infatti, la condizione di questi giorni se non quella del limbo? Nel canto IV dell’Inferno, dopo avere attraversato l’Acheronte, Virgilio accompagna nel limbo Dante che si sporge sulla voragine infernale “Oscura e profonda era e nebulosa/ tanto che, per ficcar lo viso a fondo,/ io non vi discernea alcuna cosa./ ‘Or discendiam qua giù nel cieco mondo’”. Entrano così nel primo cerchio dell’Inferno dove stanno coloro che non hanno peccato e che pure non hanno creduto in Dio perchè sono nati prima della venuta di Cristo. “Per tai difetti, non per altro rio,/ semo perduti, e sol di tanto offesi/ che sanza speme vivemo in disio”. Non sono quindi condannati a soffrire pene materiali ma vivono senza speranza (senza la speranza di vedere Dio), in un desiderio perennemente insoddisfatto. Da lì provengono lamenti muti.
Queste giornate, questo tempo malinconico e penoso, assomiglia al limbo. Viviamo sospesi, moralmente sfiniti, in attesa di qualcosa che sta al di là del tempo delle nostre giornate, ovvero della speranza che diventa però un concetto rarefatto, poco più di una parola. Speranza di cosa? Di normalità? Forse stavolta ritornare alla normalità non sarà sufficiente, non sarà abbastanza per ricominciare.
Da più di un decennio ci trasciniamo dietro una crisi latente che da economica si è trasformata in crisi di tutte le cose e poi in una sorta di rabbiosa stasi. Ora il virus, questa concretezza invisibile, questa realtà impalpabile eppure tragicamente presente, si manifesta come epifenomeno definitivo e dirompente di questa crisi latente. Ed è come se potesse portare a maturazione la paradossale speranza che ciò che era nascosto, la crisi latente generica e generale, stia progressivamente prendendo forma concreta e che quindi possa essere in qualche modo affrontata e, magari, superata. Perché ciò che diviene concreto, a differenza di ciò che rimane sempre impalpabile come una nebbia dell’anima, come un luogo in cui si sta sospesi, prima o poi può essere superato.