Il settore culturale rappresenta una delle vittime sacrificali di questo 2020 pandemico. Spettacoli rimandati, produzioni bloccate, mostre sospese. A pagarne il prezzo, oltre a coloro che usufruiscono dei prodotti culturali, i lavoratori del settore e l’intera filiera. Per la maggior parte giovani. La professionale culturale è infatti un mestiere per under 30 freelance, spesso precari e sottopagati. Cosa fare per ripartire? E come mettere in dialogo il settore culturale, spesso autoreferenziale, con altri ambiti in un’ottica di crescita integrata?

Lo stato dell’arte. I giovani, la musica e l’impatto sociale in epoca COVID” si definisce come un appuntamento dedicato al settore della musica, per comprendere lo stato della produzione e della tutela artistica in questo preciso mondo: un mondo scandito dalle nuove esigenze pandemiche, che modificano il paradigma convenzionale dell’immaginazione e delle possibilità. In che modo i giovani under 40, cui la mission de “La Prossima Generazione” è dedicata, generano innovazione? Come viene sentito il nuovo impatto sociale tra le file di chi investe sulla sensibilità del talento?
Questo primo webinar del 2021 risponde a un ciclo più ampio di significato: un ciclo di riferimento al presente nel presente; un presente come un ormai reale, concreto, e non soltanto possibile o vissuto come un temporaneo prima-o-poi. I progetti musicali sono per definizione generativi; si è deciso, quindi, di porre l’accento su tre realtà differenti ma con un denominatore comune: l’emancipazione della diversità e la tutela della stessa. Con noi Dino Lupelli, Direttore generale di “Music Innovation Hub“; Fabrizio Bruno, Vice Presidente di Associazione “232” APS e Federico Alberghini, Direttore e fondatore della “Banda Rulli Frulli“.
Il dialogo sarà moderato da Stefano Carpani, Psicoanalista junghiano e Sociologo con un’introduzione di Anna Zò, Project manager di “Music Innovation Hub“.

Federico Alberghini, con una formazione ridotta della “Banda Rulli Frulli”, apre il webinar a suon di chitarre. La sua banda conta oggi settantotto elementi: tantissimi ragazzi in tutta Italia che partecipano, attraverso il potere della musica, alla rinascita di speranze. Ma cos’è davvero la “Banda Rulli Frulli”? Chi è Federico Alberghini?
La Banda nasce nella cittadina di Finale Emilia nel 2010 da un’idea del M° Federico Alberghini, docente della Fondazione Scuola di Musica “Carlo & Guglielmo Andreoli”. Il progetto inizia come marching band fornita di strumenti con materiali di recupero, come grondaie, bidoni, cestelli di asciugatrici: strumenti riadattati che nell’insieme sonoro generano armonia. I primi ragazzi che partecipano sono all’incirca una decina, suoi allievi del corso individuale di Batteria. L’intento del Maestro è quello, però, di creare una banda composta da persone diverse fra loro: un gruppo di bambini e adolescenti, eterogeneo per età, genere, capacità. Grazie all’impegno inclusivo, insieme al servizio di Neuropsichiatria infantile dell’Azienda USL di Mirandola, è stato possibile inserire nel progetto diciotto ragazzi disabili. Il servizio di NPIA, in accordo con la Fondazione “Carlo & Guglielmo Andreoli”, rende possibile seguire l’inserimento e i progressi dei ragazzi disabili partecipanti al progetto. Da qui, il M° Matteo Cariani, docente presso la Fondazione, entra nella gestione del progetto, per supportarne la causa e permettere agli allievi un confronto continuo fra loro, musicalmente e umanamente. Così, dal 2010 al 2012 il numero dei partecipanti arriva persino a raddoppiarsi.
Il 2012, però, diviene un anno miliare per lo sviluppo della Banda: il terremoto dell’Emilia spinge i Maestri ad affrontare le sfide della disgrazia, dovendo non solo riunire la determinazione nel portare avanti un progetto bisognoso di supporto pedagogico, ma anche trovare logisticamente il modo di continuare a esercitarsi con il crollo della loro sala prove. Grazie al gruppo “Mani Tese Finale Emilia” riescono ad ottenere un tendone per poter ripartire, nonostante le condizioni precarie della maggior parte dei bandisti costretta nelle tendopoli. Negli anni la rinascita dalle macerie permette di radunare sempre più ragazzi vicini alla musica e alla crescita creativa, arrivando oggi a una formazione totalmente orchestrale.
Cosa significa “Rulli Frulli”? Chi sono i musicisti? Qual è la mission della Banda? I musicisti vanno dai 12 ai 25/30 anni; sono musicisti in erba che vogliono suonare al mondo del loro legame, del loro essere “banda”, senza alcuna discriminazione abilista. Un bambino in particolare, Marzio, durante una lezione di batteria, confrontandosi col M° Alberghini che gli chiedeva quale nome scegliere per questa iniziativa, esclamò: “Rulli Frulli!”. Questo nome, proveniente da una voce innocente e sincera, in riferimento a un progetto che il Maestro considerava con non poca difficoltà, restituì perfettamente le intenzioni giocose che la musica manifesta.
Lo scopo della “Banda Rulli Frulli” è un qualcosa di estremamente generativo, che nasce dal basso e si sviluppa ramificandosi. Da quattro anni a questa parte la Banda è chiamata in giro per l’Italia proprio per il metodo didattico sviluppato, portando ovunque il metodo Rulli Frulli. La Banda riesce ad approdare anche a Roma con un progetto chiamato “Rulli Ribelli” insieme a Gianluca Nicoletti di Radio24; approda a Baranzate, un piccolo comune nei pressi di Milano, e poi Parma, Reggio Emilia, Bologna: città che decidono di assumersi questa responsabilità generativa, per creare sul posto bande musicali affiliate. Quello che si crea è un effetto generativo a catena, in particolar modo perché le singole orchestre hanno come obiettivo l’inserimento dei ragazzi con disabilità in dinamiche gruppali. Il desiderio del M° Alberghini è quello di poter girare il mondo insieme alla sua Banda: nel settembre del 2020, infatti, avrebbero dovuto affrontare un tour a New York City, partendo dall’invito de La Scuola d’Italia “Guglielmo Marconi” di Manhattan, per la celebrazione del Columbus Day e per concertare al Consolato Generale d’Italia a New York. L’invito era proprio voluto per esportare il loro metodo pedagogico e la potenza della musicoterapia nella didattica inclusiva; metodo che sta studiando da tre anni l’Università Cattolica del Sacro Cuore, con l’approfondimento della prof.ssa Patrizia Cappelletti. La musica ha un potenziale incredibile; risveglia momenti, ricordi, il percorso della vita. La vicinanza a uno strumento musicale permette di scorgere il divenire in modo diverso: fare musica d’insieme e vivere l’esperienza musicale è fondamentale per comprendere cosa significhi essere società, far parte di una società, scoprirci “sociali”. Ciò che stiamo vivendo permetterebbe al possibile di trasformarsi in opportunità. Non negare le difficoltà né pensarle come passeggere: bisogna che la musica faccia da filo conduttore da tirare costantemente, per poter orientarci nel labirinto delle nostre scelte. Bisogna restare sempre in ascolto.

A continuare nel discorso delle esperienze generative Fabrizio Bruno, educatore professionale e pedagogista, che lavora presso il Carcere minorile “Cesare Beccaria”.
Perché preferisci “carcere” anziché “istituto penale per minori”? Il dott. Bruno risponde drittamente: perché dà l’idea di quello che è. Ci sono state diverse riforme che hanno portato a rinominare le carceri (si pensi alle case di reclusione, alle case circondariali): permane in maniera latente la cultura di fondo che rende un carcere tale. A cosa serve un carcere? È sicuro nella sua risposta: il carcere serve a ben poco. Anche lavorandoci dentro non crede nel potere rieducativo del carcere, a fronte delle proprie esperienze. Da un punto di vista costituzionale le pene tendono alla rieducazione del condannato, quindi il carcere dovrebbe servire a questo reinserimento socialmente accettato, dove la pena scontata è davvero scontata. Uscire quindi “puliti” dalle macchie che purtroppo tornano sempre nel vissuto come pregiudicanti. L’opinione pubblica, dichiara, punisce più del carcere.
La tua storia porta creatività nel carcere: tu sei/eri un rapper. Che cos’è la musica, il rap? Perché proprio il rap? La musica in generale è il lato sensibile umano: quella magia che rende il mondo ancora più bello; una vibrazione che c’è nell’aria, non tangibile, ma che sentiamo tutti. La musica è un piccolo miracolo della natura. Il rap, per Fabrizio Bruno, è qualcosa di straordinario perché riconducibile alla dimensione del gioco musicale. Il rap è una valvola di sfogo: esprimersi, raccontare le proprie emozioni, imparare più di tutto a saper canalizzare queste in un prodotto che custodisce quelle emozioni. In aggiunta, il dott. Carpani ricorda il rap come genere musicale, nato sotto il cappello dell’hip hop newyorkese degli anni ’70, in un Bronx terra-di-nessuno. Qui i giovani hanno trovato la spinta propulsiva di cominciare a scrivere e rielaborare il loro vissuto in modo generativo, non per uscire dal ghetto ma per far sì che il ghetto non fosse solo ghetto. Tutto ciò può avvenire solo con la forza della creatività.
Come sei arrivato al tuo ruolo di educatore? Com’è inserirsi in un contesto del genere? Fabrizio racconta che nella sua vita si è attivato qualcosa nei meriti della dialettica fra giustizia e ingiustizia, della diversità fra le generazioni a confronto. Questo lo ha spinto a riempire il gap sociale, economico, culturale. Trova il lavoro da educatore come la professione più adatta a sostenere gli altri, andando a colmare il divario comunicativo. All’età di sedici anni era un rapper, scegliendo quindi di proseguire i suoi studi sposando la passione per l’educazione con la musica. Nasce così un laboratorio rap all’interno del carcere in cui lavora, perché durante un tirocinio curricolare in Scienze dell’educazione presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, era stato appoggiato dall’Ufficio competente nel concretizzare questa esperienza. Il laboratorio era principalmente mirato all’educazione all’ascolto e allo strumento musicale. Fabrizio è però un paroliere, spoglio di un background più tecnico. Avvicinandosi a un ragazzo, propose però l’idea di scrivere un testo da musicare. Da lì, si rese conto che il rap poteva arrivare ovunque con uno strumento utilizzabile da tutti: la scrittura, l’unica custode che i ragazzi in carcere riuscivano a tollerare. In questi dieci anni Fabrizio Bruno crea una realtà sempre più forte con altre agenzie di educazione e di musica. Con la nascita di “232 nel 2019 il suo diviene un vero e proprio progetto generativo. Cos’è “232”? È un’Associazione di Promozione Sociale, che nasce nel 2019 con l’obiettivo di promuovere percorsi artistici ed educativi rivolti a minori e giovani adulti attraverso il canale della musica rap. L’équipe di lavoro è composta da educatrici ed educatori, psicologi, pedagogisti e l’esperienza maturata attraverso i nostri laboratori nell’Istituto penale per minori “Cesare Beccaria”, nella casa circondariale “San Vittore”, nelle comunità penali, “Kayros” e “Le 3 fontane”, nei progetti che si realizzano nelle scuole, ha permesso la costruzione di percorsi sempre più professionali, con un’attenzione particolare ai soggetti in difficoltà. I laboratori rap si fanno luogo per raccontare e raccontarsi, per riflettere e rielaborare, per incontrare l’altro, per affinare tecniche e pratiche di scrittura musicale. Perché questo nome? “232” è il numero interno del telefono presente nella sala di musica del Beccaria, dove presi dalle rime, dalle note e dalla passione, si dimentica per qualche ora di essere in un carcere. Il telefono riporta alla realtà, dopo aver abitato uno spazio e un tempo sospesi; diventa l’occasione per rielaborare quanto è accaduto. All’interno dei progetti in cui sono stati coinvolti, ideati dagli operatori di “232”, i ragazzi hanno trovato nel canale artistico uno strumento di espressione e di crescita personale. La musica ha offerto ai giovani ristretti la possibilità di rielaborare ed esprimere il loro vissuto attraverso la scrittura di un brano e lo studio di uno strumento musicale. Lo scopo del laboratorio, dalle parole di Fabrizio Bruno, non è solo quello di offrire un’attività di carattere espressivo, ma fornire degli strumenti che possano mettere i giovani nella condizione di sperimentare all’interno di ruoli professionali vicini al mondo del lavoro quali tecnico audio, musicista, dj e cantante.
Parlando di rap, cosa vuol dire per te “freestyle”? Vuol dire “stile libero”: nel rap acquista un valore aggiunto, perché non tutti i rapper sono freestyler e viceversa. Il freestyle allena la mente a fare collegamenti, a creare dei sogni: quando un ragazzo sogna, in futuro diventerà un uomo che crea. Il cantante sale sul palco e su una base rappa, canta quello che gli viene in mente. È una piena espressione di libertà. Questo aiutava i figli del Bronx a non spararsi, ma a farsi guerra in rima e poi abbracciarsi rispettandosi. Il pubblico diviene vindice di queste sfide. Si riesce, quindi, a dimostrare le abilità non attraverso il potere divisorio e gerarchico delle gang. La povertà è sì mancanza, ma viene compensata, nel rap, come creatività che unisce; come unità che crea.

A concludere, anticipando il successivo intervento di Dino Lupelli sullo stato dell’arte Anna Zò, Project manager di “Music Innovation Hub”.
Cos’è “Music Innovation Hub”? È un’impresa sociale che crede nella musica come strumento di emancipazione, inclusione e integrazione, forma espressiva in grado di sprigionare nuove energie, rompere barriere sociali. Sono a Milano, in un centro culturale che si chiama BASE, e che permette di avere un dialogo costante con il mondo della creatività e dei settori culturali. Sono un team relativamente piccolo, ma molto dinamico e giovane. Sviluppano una serie di progetti che spaziano a 360° su diversi ambiti che hanno a che fare con la musica; i loro temi principali sono quelli dell’innovazione e della responsabilità sociale. Lavorano su progetti musicali e organizzazioni, come quella di Fabrizio Bruno, che sviluppano realtà esterne e le incubano in prima persona. Anna Zò si occupa della parte di internazionalizzazione, per cui lavora su diversi progetti che vogliono far dialogare delle attività italiane con delle realtà internazionali, e che spesso si confrontano su temi comuni. Nel 2020 sono stati selezionati per il IV° progetto di Creative Europe, che l’Unione Europea gestisce sui settori culturali e creativi; la musica ha un ruolo guida su diverse tematiche, come la resilienza. Un tema per loro “caldo”, su cui si sofferma raccontando due tipologie di progetti generativi che tiene a cuore: “Jump”, che punta allo sviluppo e all’accompagnamento di idee innovative in ambito musicale a livello europeo; “Keychange”, lanciato da una collecting society inglese che ha deciso di impegnarsi e far impegnare organizzazioni musicali sul raggiungimento della parità di genere nel settore musicale.
Entro il 2022 c’è l’impegno pattuito da parte dei promotori, fra cui anche “Music Innovation Hub”, di far firmare questo patto sul gender balance a tutti i livelli dell’industria musicale, non escludendo gli organi amministrativi.

Dino Lupelli, Direttore generale di “Music Innovation Hub”, sulla scia della manager Zò, presenta un altro progetto, “Scena Unita”.
Cos’è “Scena Unita”? Il primo fondo in cui il mondo degli artisti si è unito a quello degli enti privati, per dare un contributo concreto alla filiera. Gestito da CESVI – Organizzazione umanitaria italiana laica e indipendente, fondata a Bergamo nel 1985 – in collaborazione con “La Musica Che Gira” e “Music Innovation Hub”, il fondo darà un concreto e immediato aiuto ai lavoratori del mondo dello spettacolo colpiti duramente e impossibilitati a operare e, al contempo, sosterrà la progettualità per una ripartenza del settore. È una iniziativa con due interventi importanti: Spotify e Fondazione Carisbo. “Scena Unita”, spiega Dino Lupelli, ha raccolto dei fondi riuscendo a concentrare una serie di tavoli di lavoro tenuti da esperti per fare policy, fare cioè da soli ciò che il Governo ha sì fatto ma con un certo ritardo, evidenziando alcuni problemi interni alle categorie artistiche. L’intermittenza nel mondo del lavoro della musica è un problema insormontabile: sormontabile è la presenza di lavoro non coperto, non dichiarato, sommerso. Nel settore artistico è un rischio molto relativo ed estemporaneo. “Scena Unita” sta facendo un lavoro a step, dove sono stati elargiti dei bandi a lavoratori del comparto tecnico. Aggiunge che la musica soffre, perché il vecchio modello dell’industria discografica non regge senza i live. Le vendite in streaming, come anche delle copie fisiche, appartengono a un mondo che rimane ancorato all’abitudine ben lontana in realtà dall’esserlo.
Ripartire generativamente e rilanciarsi attraverso nuovi obiettivi: questa è la mission di Dino Lupelli. In ogni produzione c’è sempre musica che entra nella vita di tutti, ed è incredibile pensare come questa forma artistica abbia un sistema di valorizzazione misero. Il COVID ha dato il colpo di grazia a un sistema già frammentato: si necessita un fondo anche quando terminerà questa pandemia. Un sistema quindi di investimento sulle trasformazioni, innovazioni e sostenibilità dell’industria musicale. Sarebbe utile lavorare sull’unità, sull’insieme, sul senso di “gruppo”, nel cercare di evidenziare i problemi dell’industria, così che anche a livello istituzionale si possano dare le giuste risposte. La risposta di Lupelli è la coesione in un mondo eterogeneo. Perché non c’è coesione? Il mondo della musica è complesso: dalla gestione del diritto d’autore, alla gestione dei diritti connessi, tutto il mondo del live, ora anche la dinamica dello streaming, non rende la professionalizzazione un sistema poco complesso. Ogni comparto tira l’acqua al proprio mulino: fra artisti, label, organizzatori di eventi, promoter. Tutti tendono a non riconoscerne il valore, per cui il pubblico si ritrova a voler pagare il meno possibile perché non conosce o riconosce la musica come lavoro, studio, dedizione, organizzazione, passione. Lo squilibrio del valore della musica riconosciuta dal pubblico può sanarsi se si educa all’emozione del valore altrui. Distribuirsi il valore significa migliorare; una coesione non solo interna, ma totalizzante. Dino Lupelli ha scritto un manifesto, dove invita alla monetizzazione delle piattaforme streaming: bisogna poter controllare meglio i contenuti; valorizzare di più ciò che si riesce a trovare gratuitamente in rete; permettere a qualcuno di creare sensatamente facendo circolare le risorse. In questo momento, un appello così importante è per le aziende, che capiscano l’importanza di far attivare la macchina investendo in contenuti culturali, artistici, investendo quindi a supporto di locali e delle loro organizzazioni interne per i consumatori, senza trovarsi a dover ripartire in estrema difficoltà. C’è da attirare capitali in un’ottica di investimento e non soltanto di solidarietà, con l’idea di essere semplicemente solidali, ma far ripartire l’industria con supporti intelligenti.
Cos’è per te la musica? La musica, conclude Lupelli, è come star bene: nessuno di noi può vivere senza musica.

Stefano Carpani conclude con un concetto cardine per l’emancipazione della diversità e la tutela della stessa: il concetto di “economia generativa” di Mauro Magatti bacia le intenzioni di Dino Lupelli, come dei relatori tutti, che grazie al capitale può dirsi generativa, contribuendo a qualcosa di nuovo, e che includa l’arte tutta in questo inizio generativo.