Intraprendere non vuol dire solo aprire un’impresa in ottica di business, ma fare l’impresa, osare di seguire una propria vocazione, in ogni ambito della vita. Ossia vuol dire fare delle scelte e assumersi rischi e responsabilità, mossi dal desiderio di costruire un futuro migliore per sé e per gli altri. Una spinta che ha in sé il marchio della gioventù, l’età ideale per sperimentare e ideare nuovi orizzonti inesplorati.
In questo secondo incontro (qui disponibile sul canale YouTube) organizzato dal team de “La Prossima Generazione”, viene proposto un itinerario nel mondo dell’intraprendere, approfondendo un tema oggi molto discusso e importante: il coraggio di osare. Per comprendere il nocciolo della questione, sono stati importanti gli interventi di Matteo Melotti, uno dei fondatori di “24bottles”; Fabrizio D’Angelo, CEO di “Burda International” da fine 2008, e dal 2017 consulente strategico con incarichi di coaching e management nel terzo settore; Katia Bassi, Chief Marketing Officer e Boarder di “Lamborghini”. A moderare il dialogo Stefano Carpani, psicologo junghiano e sociologo.
Come sono riusciti a cambiare per sempre le loro vite? Fabrizio D’Angelo, nel mezzo del suo dottorato in Germania, capisce qualcosa. Percependo sempre vivido un senso d’avventura, e conscio del fatto che la vita è un’avventura “disordinata”, si rende conto che l’ambiente accademico lo inscatolava in un formato che non era il suo. Il risultato di queste considerazioni lo porta a intraprendere un nuovo percorso nel mondo dell’editoria attraverso un programma di formazione manageriale. D’Angelo non sente di dirsi di “avere osato”, spiegandolo come un termine troppo spinto per questo particolare contesto: sente di aver cambiato la sua direzione, dato che anche il cambiare è una forma dell’osare; riesce a portar fuori quello che d’ignoto c’è in una persona e lo fa collidere con ciò che noi siamo nel nostro profondo. L’impresa porta al suo interno un senso di scoperta di sé e dell’ignoto attraverso l’avventura, ed è un qualcosa di fortemente collegato, a suo avviso, alla mitologia greca. L’avventura, però, non sempre si rivela positiva, ma è comunque un viaggio, una scoperta in divenire, un itinerario. L’intraprendere e l’intraprendenza significano essere fedeli a un qualcosa che si sente, che risuona nel petto e che una persona porta avanti con la consapevolezza dei propri mezzi, capacità, competenze. Nel caso di D’Angelo è stata una chiamata che è arrivata da dentro, sapendo che si sarebbe esposto a un rischio: quello di esporsi al confronto tra il suo sogno e quella che è la realtà, con i suoi paletti. Intraprendere è anche giocare e avere il coraggio di farlo.
Matteo Melotti oggi ha 34 anni, ma nei suoi vent’anni decide che era ora di dare una svolta alla sua vita. Appena finito il liceo, iniziò subito a lavorare in banca, data la volontà di immergersi subito in un percorso lavorativo stabile e convenzionalmente percepito come “sistemante”, come appagante. Stava bene dal punto di vista economico, ci spiega: aveva una sua indipendenza, un equilibrio normalmente invidiabile considerata la giovane età. Sembrava essere tutto perfetto, ma la realtà nascondeva tutt’altro: in banca tutto appariva ai suoi occhi statico, cementato in una dimensione che va contro la sua natura e il suo carattere. È proprio in banca che conobbe quello che sarebbe diventato il suo partner nella creazione del marchio “24bottles”. I due decisero di mettere sul tavolo alcune idee di business che avevano soltanto osato immaginare nella loro testa, per incrementare quello che facevano durante il giorno, considerato questo essere inutile e di poco spessore. Comprarono le loro prime attrezzature sportive e biciclette pieghevoli con lo scopo di rivenderle online e avere dei piccoli ricavi extra. Melotti non aveva ancora le idee ben chiare su cosa veramente volesse fare, ma sapeva solo di essere insoddisfatto del suo lavoro; sapeva cosa non volesse fare: per lui, la vera confusione era fare proprio un lavoro che non soddisfa a pieno, e non cercare di osare nell’elaborazione dei propri obiettivi. L’idea di “24 bottles” nacque proprio in banca, quando lui e il suo socio continuavano a rifornirsi al bar con bottigliette d’acqua, spendendo e producendo sempre più rifiuti plastici. Dopo vari brainstorming si chiesero come poter reinventare l’utilizzo della bottiglia per evitare un consumo così elevato. Un fatto importante che Melotti sottolinea è che a quei tempi la bottiglia riciclabile era una realtà molto lontana dalla nostra, reperibile solo in ambienti sportivi o in contesti molto limitati rispetto ad ora. All’inizio della loro avventura imprenditoriale, la produzione delle bottiglie era irrisoria perché ancora le persone non riuscivano a concepire l’utilità di questo oggetto, soprattutto nel mondo del design e della moda; il loro obiettivo primario era di vendere le ultime bottiglie che avevano prodotto mettendo assieme tutti i risparmi rimasti. Successivamente decisero di volare a Parigi per fare capire il loro concetto e la loro visione, che in Italia aveva poco attecchito. Proprio nella Ville Lumière riescono a ricevere il loro primo ordine, ottenendo un incontro con il direttore del “Centre de Pompidou”, intenzionato a un lotto da rivendere negli angoli commerciali del Museo. Nel 2013, a piccoli step, riuscirono a creare la prima società, firmando nel 2019 un accordo con “Lamborghini”.
Subentra nel discorso Katia Bassi, Chief Marketing in “Lamborghini”, definendosi un’incosciente quando si parla di coraggio, o persino di audacia. Ciò che per lei conta è l’innamorarsi del progetto che le propongono, non tanto del prodotto. “Osare” molte volte significa anche non farsi troppe domande, non progettare o programmare, cosa che invece è una delle principali caratteristiche delle donne, a suo avviso, che vogliono avere le cose sotto controllo prima di immergersi in una nuova avventura. L’importante per Katia Bassi è rischiare con la consapevolezza che se le cose dovessero andare per il verso sbagliato non bisogna preoccuparsi, perché quella è un’occasione per fare delle nuove conoscenze e aprire i propri orizzonti. In Italia tante persone, non riuscendo nel loro intento, se la prendono con i loro genitori, con lo Stato, con il governo senza però essersi mai rimboccate le maniche, pur avendo i numeri o gli appoggi concreti per farlo. Bassi afferma che osare significa rischiare, ma molte persone non contemplano questa dimensione nella propria vita e si arrabbiano perché si aspettano che di fronte a loro ci sia un percorso lineare. Il successo non si misura nell’aspetto economico, ma in base a quanto una persona si sente appagata con quello che fa.
D’Angelo afferma la riconduzione di tali comportamenti al fatto che nel nostro Paese c’è un’idea molto radicata nel seguire un iter predeterminato fatto di studi, laurea, master e di quella sicurezza che segue questo percorso, determinandone un arrivo. Questa è una favola, perché non sempre (e non per tutti) funziona in questo modo: nel momento in cui le persone se ne accorgono rimangono profondamente amareggiate. Ciò che porta una persona a uscire da questo schema è l’impazienza.
Il giovane Melotti nota come nella sua azienda ad oggi ci siano tanti ragazzi che hanno molte buone capacità, che svolgono con diligenza il lavoro assegnato loro, ma che nel momento in cui si chiede loro di fare qualcosa in più, di mettere un pizzico della loro creatività non osano, non rischiano per paura di sbagliare e di uscire dalla loro comfort zone; si fa fatica a pensare di esporsi per raggiungere obiettivi che appaiono ancora offuscati.
Quando possiamo dire di essere soddisfatti veramente per quello che si fa? Quando troviamo un equilibrio tra i nostri interessi e quello che facciamo?
D’Angelo risponde a questa domanda affermando che la sua totale realizzazione e felicità sono giunte nel momento in cui il suo progetto, giudicato tanto avventato da tutti, aveva preso concretezza e si era realizzato a pieno. Proprio in quell’istante c’è stato un momento di coincidenza con il suo sé e quello che stava facendo, cosa che gli ha “allargato il cuore”.
Melotti, dal canto suo, racconta di un episodio del 2015, quando al campanello suonò una ragazza giapponese in vacanza a Firenze che aveva deciso di prendere il treno solamente per comprare una “24bottles”, avendo visto il loro prodotto sui social e aveva cominciato a seguirli. I due soci all’epoca lavoravano ancora nel garage del nonno di Melotti, e rimasero estremamente colpiti da questo evento, sentendosi pienamente soddisfatti: quel qualcosa a cui avevano dato vita era arrivato dall’altra parte del mondo.
L’incontro termina con questa domanda: che consiglio dare a tutti coloro che si avvicinano al mondo del lavoro, che devono costruire ancora il proprio futuro, a coloro che vorrebbero fare qualcosa di concreto nella loro vita? Racchiudendo il pensiero dei tre intervistati si può dire che, purtroppo, nel nostro Paese vige l’onta dell’errore, un mostro temuto da tutti i giovani che non osano per timore di dire cose fuori da un raziocinio collettivo e preconfezionato. Questa, però, è la cosa più sbagliata che si possa fare, perché se non si prova, non si rischia, non ci si getta nella possibilità di rielaborare e di rigenerare con nuovi scopi il proprio percorso, alla fine non succederà nulla.
Il consiglio dei relatori è quello di “disobbedire” in modo consapevole a quel tipo di iter e a quel tipo di visione aggiustata delle cose, che impone limiti su ciò che oggi i giovani dovrebbero fare o meno. Non serve un’idea geniale o la creazione di qualcosa che non esista ancora: ci vuole grande determinazione, spirito di sacrificio, competenze. A un colloquio di lavoro bisogna farsi notare, lasciare energie dentro quella stanza e far capire a chi ci sta di fronte quel quid che dal CV non sempre traspare: il coraggio di osare.