Non passa giorno che la stampa e la rete non utilizzino il termine “smart city” per cercare di cogliere e inquadrare le trasformazioni in corso a livello tecnologico e urbano in tutto il mondo. Una città dotata di hot spot per il wi-fi diventa una smart city, una città pervasa da sensori che monitorano i flussi urbani in tempo reale diventa una smart city, una città che riduce l’emissione di Co2 riqualificando il proprio patrimonio edilizio o costruendo ex novo interi quartieri diventa una smart city e così via. Pare che ogni città del mondo caratterizzata da una qualsiasi innovazione tecnologica possa a pieno diritto definirsi una smart city.
Ovviamente non siamo di fronte a niente di completamente nuovo nella storia delle città moderne. A partire dalla seconda metà del XIX secolo ondate successive di innovazioni tecnologiche hanno fatto ciclicamente gridare a gran voce l’imminenza di rivoluzioni che avrebbero trasformato radicalmente il modo di vivere urbano. Dalla ferrovia all’illuminazione elettrica, dal telefono all’ict, ogni strato di nuova infrastruttura urbana è stato anticipato, accompagnato e seguito da immaginari utopici – o distopici – di rivoluzionaria trasformazione urbana.In modo molto simile ciò sta avvenendo anche oggi con il termine “smart city”. Se accettiamo la parziale novità di quello che recentemente è stato definito il nexus of forces, composto dall’intreccio dei paradigmi social, mobile, cloud e big data, la smart city non è nient’altro che la riproposizione alle soglie del XXI secolo delle utopie urbane legate all’innovazione tecnologica. Se così fosse, ci troveremmo solamente di fronte ad una ciclica riproposizione storica della nostra tanto agognata e temuta modernità.L’attuale dibattito su smart city, tuttavia, presenta qualcosa di più. O, meglio, presenta qualcosa che già in altre epoche storiche si è riproposto alla nostra attenzione ma che, per motivi disparati, è stato continuamente perso di vista. In estrema sintesi, il dibattito su smart city contiene due nuclei fondamentali che scalpitano sotto la patina di superficialità e di trionfalismo che quasi sempre lo avvolgono. In primo luogo, la necessità di ripensare il nostro modello di sviluppo, non solo dal punto di vista economico ma anche da quello sociale, politico e culturale. In secondo luogo, la necessità di instaurare un nuovo rapporto con l’innovazione tecnologica.
Fatta questa premessa, la domanda diventa a questo punto legittima: cosa c’entrano le social street con le smart city? Nonostante la sua apparente estraneità, il fenomeno delle social street è in realtà profondamente in relazione con i nodi fondamentali del dibattito sulla smart city, incarnando, tuttavia, una risposta specifica a queste questioni. Ciò che si vuole sostenere, in altre parole, è che, pur non essendo discorsivamente parte dello stesso dibattito, il fenomeno delle social street è in realtà storicamente legato a questo contesto e ai suoi nodi fondamentali.
Prendiamo, per esempio, i due nuclei sopra citati. Da una parte, per quanto riguarda la necessità di ripensare il modello di sviluppo attualmente in crisi, è impressionante notare come le social street abbiano al loro interno un portato allo stesso tempo critico e propositivo per quanto riguarda le dimensioni fondamentali del vivere urbano. In fondo, “social street” potrebbe essere in estrema sintesi tradotto “socialità”. Prima che economia – si pensi al fenomeno della sharing economy – o politica – si veda il dibattito sulla cittadinanza attiva – le social street sono, infatti, incubatori di socialità allo stato puro. Tutto il resto non è che una conseguenza – potremmo dire un’esternalità positiva – di questo valore primario perseguito. In questo senso, non è forse proprio la socialità, il legame sociale, lo stare assieme per il piacere di stare assieme, una delle dimensioni completamente espulse dal modello di sviluppo degli ultimi anni?