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La famiglia al centro dell’impresa e dello sviluppo economico territoriale

di Domenico Mauriello

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Alla ri-scoperta dell’unicità del modello di sviluppo italianoGli ultimi momenti di passaggio epocale della nostra storia economica – dal crollo del muro di Berlino all’affermarsi della globalizzazione – sembravano aver determinato l’affermazione di un “capitalismo universale” centrato sul modello della grande impresa quotata a proprietà diffusa e massimizzatrice del profitto.

Secondo questa impostazione, le forme d’impresa che si discostano da tale idealtipo sarebbero il più delle volte considerate anomale, immature, probabilmente frutto di un assetto instabile in attesa di evolvere verso quel modello, peraltro così distante dal capitalismo molecolare e diffuso che ha caratterizzato l’evoluzione imprenditoriale – e sociale – del nostro Paese.

Lo scenario economico di questi ultimi anni e, ancor più, la capacità di una parte delle Pmi italiane di resistere alla crisi ci restituiscono, invece, l’immagine di uno sviluppo al cui centro vi è un altro modo di ‘fare impresa’. Se guardiamo la realtà dal basso e non dal satellite, si riesce infatti a vedere con forte chiarezza un’impresa che assume in pieno la responsabilità del lavoro e del benessere, diventando il luogo in cui l’individuo realizza se stesso attraverso il lavoro.

Un’impresa che non è separata dalla comunità di appartenenza perché al suo centro c’è la famiglia: è il modello delle imprese familiari, soggetto attivo nella produzione di capitale economico e sociale, dove i suoi rapporti con dipendenti e fornitori non sono altro che rapporti di una famiglia con altre famiglie. Del resto, molte delle nostre realtà imprenditoriali di successo – dalle storiche famiglie protagoniste del “primo capitalismo” italiano a quelle che hanno segnato lo sviluppo dei distretti industriali e dei settori di punta del made in Italy, dall’alimentare alla moda – hanno sempre mantenuto nel proprio Dna l’identificazione con la storia della famiglia fondatrice.

Il rapporto della famiglia con l’azienda può avere diverse sfaccettature a seconda della tipologia di controllo sulla proprietà e sulla governance. Ciò perché la famiglia può detenere sia il controllo proprietario, sia la gestione, e in questo caso si parla di impresa familiare “tradizionale”; ma può anche avere solo il controllo della proprietà e non della governance, o viceversa, e allora si parla di impresa familiare “allargata”, nel senso che il rapporto della famiglia con l’azienda si allarga anche a soggetti esterni alla famiglia stessa che detengono il controllo della proprietà o la gestione dell’impresa. Secondo questa accezione, il capitalismo familiare risulta ampiamente dominante in Italia: basti pensare che – secondo gli ultimi dati di Unioncamere relativi al 2014 – il 90% delle PMI manifatturiere tra i 20 e i 499 addetti risulta essere un’impresa familiare, che in termini assoluti significa circa 19.200 società sulle 21.400 complessive esistenti in questa classe dimensionale.

La diffusività di questo connubio famiglia-impresa appare intensa tra tutte le maglie del nostro tessuto manifatturiero, dal momento che la quota di PMI familiari si attesta all’88% nel settore meccanico ma sale fino al 91% in quello delle cosiddette “tre A del made in Italy” (Alimentare/Abbigliamento/Arredamento). È nel capitalismo familiare che riescono poi a coniugarsi al meglio la competitività e il benessere delle comunità socio-economiche territoriali. Infatti, sono proprio i titolari e i soci delle imprese familiari a riconoscere maggiormente, rispetto agli altri, come caratteristiche distintive del proprio modo di fare impresa il legame con la comunità di appartenenza e la valorizzazione delle tradizioni produttive del territorio in cui operano, enfatizzando in tal modo quel legame tra sostenibilità, qualità e innovazione attraverso il quale è oggi possibile valutare l’ampia diffusione di una concezione tutta italiana di green economy nel nostro sistema economico.

Le Pmi familiari sembrano, inoltre, quelle che riescono oggi ad agganciare meglio delle altre i primi segnali di ripresa economica. Nel 40% dei casi, esse prevedono infatti di chiudere il 2015 con un aumento della produzione e nel 43% con una crescita del fatturato, a fronte del 38-39% rilevato tra le Pmi non familiari. Anche per garantire una maggiore flessibilità e velocità di risposta alle esigenze del mercato in questa delicata fase del ciclo economico, il capitalismo familiare manifatturiero sembra voler mantenere salde le redini dell’azienda e dimostra pertanto una bassa propensione ad aprirsi ad apporti esterni, quasi a voler tutelare quel valore aggiunto ancorato ai valori e ai saperi della tradizione familiare e territoriale oggi così prezioso in termini di marketing. E quando ciò avviene, si predilige comunque fare un passo indietro nel possesso di quote di capitale rispetto alla governance, magari perché alla ricerca di capitali nuovi e freschi che possano contribuire a conseguire futuri e più ambiziosi obiettivi.

Solo la profonda conoscenza di questa peculiarità del nostro modello di economia può consentire la definizione di politiche di sviluppo territoriale che valorizzino appieno gli intrecci positivi tra sistema produttivo, territorio e società civile. Un’attenzione che non dovrebbe incentrarsi solo su aspetti congiunturali di breve periodo, ma anche – e soprattutto – su ambiti più strutturali in grado di sostenere il capitalismo familiare, quali la gestione senza contraccolpi del passaggio generazionale, l’approvvigionamento adeguato di credito, l’esigenza di irrobustimento patrimoniale, le opportunità derivanti dall’internazionalizzazione, i vantaggi legati al rafforzamento del capitale umano.

DOMENICO MAURIELLO è responsabile del Centro Studi Unioncamere di Roma, dove coordina e realizza attività di analisi sulle dinamiche del tessuto imprenditoriale e del mercato del lavoro. Dal 2015 è anche direttore della Fondazione “Istituto Guglielmo Tagliacarne” per la diffusione della cultura economica. Ha realizzato specifici studi e ricerche sui temi delle modificazioni organizzative dei sistemi produttivi locali e dello sviluppo economico territoriale, gestendo altresì progetti di ricerca e di intervento a livello nazionale e internazionale.