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Il lavoro della memoria

di Paolo Gomarasca

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Il passato indubbiamente ci parla. E il motivo è che è “fatto di pensiero”, come scriveva Montale nel 1958, sulle pagine del Corriere della Sera. Dunque non è soltanto una sequenza ordinata di fatti accaduti: è qualcosa di eccedente, che produce significati e interrogativi di senso.

Del resto, è questa la dinamica da cui origina la tradizione, cioè, di nuovo, un passato che incorpora la pretesa di dire qualcosa di vero, qualcosa di irrinunciabile per la condizione umana.

Non a caso, Hegel diceva che la tradizione non è una “massaia”, che si limita a custodire quel che ha ricevuto, consegnandolo intatto ai posteri; piuttosto è una “talpa” (Hegel prende questa immagine dall’Amleto), che scava nel sottosuolo del passato, fino a smuovere la “crosta terrestre” del presente.

Già solo questa immagine è sufficiente a spiegare l’avversione tipicamente moderna (illuminista) per un tempo che è sottratto al nostro potere, ma che reclama di avere voce nel capitolo del nostro presente. Per non sentire il passato, bisognerebbe dunque smettere di pensare. Il che è precisamente quel che si fa, quando si dice, con agghiacciante superficialità, che solo il presente conta. Ma anche a voler pensare, non è facile capire che posto dare alla parola del passato nel discorso del presente.

Si viaggia sempre tra due estremi: (1) il rivoluzionarismo e, più in generale, il rifiuto “in blocco” del senso del passato e della tradizione;(2) il tradizionalismo, ovvero l’assunzione acritica del senso del passato come verità indiscutibile. (1) Nel comune sentire dell’epoca contemporanea, il passato e la tradizione sono vissuti per lo più come un peso, un giogo di cui liberarsi prima possibile. Il motivo principale di questa ribellione sembra connesso a quella che Heidegger chiama “macchinazione” (Machenschaft), cioè il prevalere della tecnica come orizzonte di senso dell’esperienza.

Siccome la tecnica è pura volontà di potenza, cioè auto-determinazione incondizionata, è chiaro che la tecnica non sopporta vincolo di sorta, al punto da richiedere, come dice Heidegger, “un’umanità che distrugge ogni tradizione”. Tale aspetto eversivo è poi tipico di ogni ideologia rivoluzionaria, sia essa tecnica o di altra natura: creare l’uomo totalmente nuovo, il cui requisito primario è di essere senza memoria. Lo si vede bene con la Rivoluzione francese. Nel suo Dictionnaire Philosophique, Voltaire rinvia il concetto di tradizione alla voce préjugés, intendendo con ciò le “opinioni senza giudizio” che ci vengono inculcate fin da piccoli. Di questo genere fanno parte soprattutto le tradizioni religiose, che Voltaire considera indiscriminatamente come superstizioni. Si capisce allora perché siano da considerare “miserabili” coloro che non riescono, o non vogliono, usare la ragione per disfarsi della presunta autorità del nostro passato.

(2) Spesso il risentimento del rivoluzionarismo nei confronti del passato genera il tradizionalismo, che, almeno in tal senso, è possibile intendere come una misura contro-rivoluzionaria. Le serate di Pietroburgo di De Maistre, ad esempio, sono un’esplicita opposizione (uguale e simmetrica) al cinismo voltairiano: per De Maistre, le tradizioni “sono tutte vere” e la superstizione “è preziosa e spesso necessaria”. Contro la ragione, che porta allo scetticismo, occorre basare l’esperienza sull’autorità oggettiva del passato e della tradizione, la cui indiscutibilità, soprattutto nei tradizionalismi religiosi, è garantita direttamente da Dio. Certo, non tutti i tradizionalismi hanno la medesima matrice: la posizione demaistriana non è certo sovrapponibile a quella, pure tradizionalista, di un Guénon o di un Evola. Ma c’è una logica comune che potremmo definire – con Marcuse – un’assolutizzazione irrazionale dell’autorità. Poco importa che il criterio della verità venga attribuito all’autorità divina o a quella umana; il punto è che la ragione totalmente delegittimata. Ecco perché il rifiuto tradizionalista della ragione e il rifiuto rivoluzionario dell’autorità si rinforzano a vicenda.Come uscire dall’impasse del circolo rivoluzionarismo/tradizionalismo?

Provando a pensare che il senso del passato, la sua pretesa di verità, ha bisogno di essere interrogato, con una pazienza interpretativa che né il rifiuto rivoluzionario, né l’acritica assunzione tradizionalista sono in grado di esibire. Prima che sia troppo tardi, quando ormai lo sradicamento chiuderà la bocca al passato (e potremo finalmente “vedere e non pensare”, come scrive ancora Montale). È questo, in fondo, quello che Nietzsche chiama nichilismo, che – guarda caso – comincia con il distacco, la separazione dalla “terra natia”. È questo, analogamente, il lamento di Pasolini sulla “generazione sfortunata” del ’68, che ingenuamente ha dato retta a chi “rideva della tradizione”.Dunque il punto non è – come si legge ancora nello Zarathustra – “farsi cacciare da tutte le terre dei nostri padri”, anche se questo invito alla ribellione non è del tutto insensato, almeno se lo vediamo come un sintomo di sana insofferenza nei confronti di un tradizionalismo soffocante; il punto è provare a intendere il senso del passato, senza contrapporlo alla ragione. Che significa?Significa che occorre esercitare la memoria: oltre che una competenza umana, la memoria è addirittura un compito del pensiero, un lavoro ermeneutico irrinunciabile, perché è l’unica chance che abbiamo per ascoltare criticamente quanto il passato ha da dire.

Del resto, fare memoria significa trattare il passato come un’eredità, che per l’appunto non è un pacchetto chiuso che ci si passa di mano in mano senza aprirlo, bensì un “tesoro” da scoprire. Il che vale, paradossalmente, anche quando questo “tesoro” contiene l’orrore del male e viene la tentazione inconfessata di seppellirlo. Perché anche in questo caso il passato parla, anzi grida, attraverso la parola inaudita della sofferenza, la verità di ciò che abbiamo perduto. È questa verità ferita che domanda almeno un ritaglio del nostro tempo, solo per dire che il male non sia più. E non c’è modo di ritagliare questo tempo senza il lavoro, tanto più doloroso, della memoria.La memoria è dunque un dispositivo in cui si intrecciano due tempi fondamentali dell’esperienza umana: il tempo della trasmissione e il tempo dell’interpretazione. Certo, non è possibile attingere al tesoro del passato, cioè fare memoria, se nulla ci è stato trasmesso. E non si trasmette nulla se non c’è stata volontà di inviare a qualcuno ciò che si trasmette. Non è un caso che ogni autentica eredità sia preceduta da un testamento, cioè da una volontà di alleanza, come dice Hanna Arendt.

Ma questo, per così dire, non dipende da noi, bensì da chi ci ha preceduto. Ciò che invece è nostro compito è fare in modo che il tesoro di senso inviato giunga, per così dire, a buon fine. E questo è possibile soltanto se riesce ad interpellare i suoi destinatari. Altrimenti cadrebbe nel vuoto. Ecco perché il senso inviato esige di essere interpretato: chi ne è il destinatario (l’erede) deve capire se la pretesa di senso contenuta nell’invio contiene una volontà di trasmettere qualcosa di vero, oppure qualcosa di ingannevole, di ideologico, cioè una concezione di vita distorta, come direbbe Habermas, che le persone, spesso senza rendersene conto, sono portate ad accettare.

Compito insostituibile della memoria è dunque intercettare l’eredità e interpretarne il senso come qualcosa che può riguardare (dunque mai automaticamente) la verità di ciò che siamo. Così, senza la memoria, che con la sua interpretazione vaglia il senso della tradizione per “stanarne” la verità, la ragione si appiattirebbe sul passato (tradizionalismo); viceversa senza il senso della tradizione, la memoria girerebbe – per così dire – a vuoto, favorendo, come accade in certe utopie rivoluzionarie, l’identificazione ideologica tra ragione e verità.C’è dunque una differenza tra senso della tradizione e verità che solo la memoria è in grado di articolare. Senza nasconderci un grave problema che finora è rimasto implicito: se la memoria è chiamata a giudicare del senso di una tradizione, ciò implica che sia in possesso di una misura di giudizio che trascende la tradizione. Diversamente, non sarebbe possibile apprezzare la differenza senso/verità. Ma di che “misura” stiamo parlando? Come può la memoria leggere nel racconto del passato il valore di una vita umanamente vera e non distorta? Perché la memoria non è soltanto archeologica, cioè rivolta al passato. Soprattutto non ha alcuna passione collezionistica. Contiene invece uno strano ancoraggio al futuro, come se volesse cercare, nel passato che parla, le risonanze di una bellezza di cui ha già paradossalmente notizia. Manzoni lo dice, in senso stretto, dei profeti: “E degli anni ancor non nati, Daniel si ricordò”. Ma forse non c’è bisogno di avere le visioni di Daniele.

C’è una specie di “qualità profetica” che è strutturale al funzionamento della memoria. Agostino lo aveva compreso perfettamente: “ut prevideamus, non providentia nos instruit sed memoria”. Quindi è vero: non c’è futuro senza trafficare l’eredità del passato; ma vale anche l’inverso: nessuna archeologia del senso è possibile senza profezia, senza – cioè – custodire il futuro come promessa credibile di una bellezza all’altezza di ciò che è tipicamente umano desiderare: essere-in-comune. Una cura tanto più necessaria quando le macerie del passato sembrano una terrificante smentita di ogni possibile bellezza. Infatti è proprio qui, sul margine di questo doloroso spiraglio profetico, che il compito della memoria si annoda ad un compito politico: se è vero che l’umano è vulnerabile ogni volta che la sua verità è sequestrata da qualcuno, come dev’essere pensata una politica inclusiva di quella bellezza “a venire” che, persino dentro l’esperienza del male, abita i nostri “ricordi”? Paolo Gomarasca