Il 9 marzo 2020 il presidente del Consiglio dei Ministri italiano Giuseppe Conte, «allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus Covid-19», ha firmato un decreto di quarantena completa finalizzato a “evitare ogni spostamento delle persone fisiche”[1]. Su tutto il territorio nazionale, inoltre, è raccomandata l’applicazione di stringenti misure igienico- sanitarie. Con la nostra Associazione 21 luglio abbiamo subito effettuato una ricerca applicata finalizzata a comprendere il primo impatto delle misure in esso riportate in alcuni insediamenti formali dalle città di Roma abitati da famiglie identificate dalle autorità locali e che generalmente si autodefiniscono come appartenenti alle diverse comunità rom[2].
Metodo
In ottemperanza alle norme contenute dal decreto i ricercatori di Associazione 21 luglio non hanno raggiunto gli insediamenti oggetto dell’indagine. Gli stessi si sono pertanto serviti di interviste telefoniche. Questa metodologia rapida, istantanea, e a distanza, è stata resa possibile da una conoscenza pregressa molto stretta con gli abitanti dei ‘villaggi’ e una fiducia costruita nel tempo.
Analisi comparativa
La presente analisi, condotta da Associazione 21 luglio da remoto, in tempi ristretti e con mezzi limitati per la mancanza di mobilità dovuta all’attuale contesto, illustra i primi aspetti di un quadro sociale destinato, in assenza di interventi, ad avere conseguenze future cariche di problematicità.
I 5 insediamenti formali monoetnici oggetto della presente indagine – all’interno dei quali, secondo il censimento operato dalle autorità capitoline nel 2019, vivono circa 2.200 persone tra cui circa 1.050 minori – si caratterizzano tutti per il loro carattere segregante e per l’isolamento spaziale e relazionale che ha prodotto nella città di Roma la ghettizzazione di comunità rom in emergenza abitativa in spazi a loro destinati. Tutti sono segnati da un sovraffollamento interno alle unità abitative dove, in alcuni casi, in container deteriorati di 21 mq vivono anche 6 o 7 persone. Tuttavia, per la costruzione storica degli stessi (Clough Marinaro, Daniele, 2014), le politiche locali e la marcata iper-segregazione spaziale (Maestri, Vitale, 2017), è possibile individuare elementi caratterizzanti che sembrano emergere con forza nel momento in cui si è chiamati ad individuare gli impatti generati dal decreto emergenziale del 9 marzo 2020 volto a contenere il contagio del Codiv-19.
Mobilità.
Nei due insediamenti di via Luigi Candoni e via di Salone, dopo la pubblicazione del decreto del 9 marzo 2020 si sono intensificati i controlli della Polizia Locale presente da tempo in modalità stabile all’ingresso degli insediamenti. In alcuni casi gli abitanti avvertono il peso di restrizioni che impongono l’uscita solo a piedi e dilazionata nel tempo (via Luigi Candoni) o rispettosa della norma che impone il metro di distanza anche all’interno delle autovetture (via di Salone). Ciò si traduce, da parte dell’autista, nell’impossibilità di poter accompagnare altre persone che non siano conviventi. Il “villaggio” dista più di 3 chilometri dal primo negozio di alimentari e la strada non ha marciapiedi e non dispone di illuminazione pubblica. Tali fattori impediscono di fatto ad alcuni soggetti di poter uscire dal rispettivo insediamento obbligandoli, laddove possibile, a delegare di volta in volta qualcuno per l’acquisto dei beni di prima necessità. Nei due insediamenti sopra citati, tale situazione pone in una condizione di ulteriore isolamento intere categorie di persone prive di mezzi propri che, in alternativa, si vedrebbero costrette a lunghi percorsi a piedi per raggiungere i supermercati più vicini. Nel villaggio di Castel Romano, l’azione delle forze dell’ordine sembra essersi recentemente inasprita: «Ci hanno detto che per fare la spesa non possiamo uscire più di una volta al giorno e non ci lasciano uscire con la macchina per far la spesa. Spesso è mia moglie che va a piedi a far la spesa, così i vigili fanno meno storie. Alla fine mangiamo di meno e facciamo più risparmio» (D.., uomo, 47 anni, rumeno).
In relazione al contagio, molte persone intervistate manifestano una maggiore preoccupazione nell’uscire dall’insediamento che nel restare nello spazio interno, percepito come protettivo. All’atto dell’uscita, pertanto, quasi tutti indossano dispositivi di prevenzione spesso auto-prodotti che puntualmente tolgono in prossimità delle proprie abitazioni, dove gli spazi vitali sono estremamente compressi, pur avvertendo la percezione di una maggiore sicurezza.
Orientamento sanitario e prevenzione
La pandemia di Covid-19 ha avuto in Italia sua prima manifestazione epidemica il 30 gennaio 2020 e da quella data nessun operatore sanitario si è recato nei cinque “villaggi” da noi studiati per illustrare le misure igienico-sanitarie previste. In via Salone ci hanno detto per esempio: «No, nessuno è venuto a spiegarci niente. Quello che dobbiamo fare lo vediamo in televisione ma non sappiamo neanche se facciamo bene» (H., donna, 23 anni, bosniaca). In via Cesare Lombroso, nel “campo” più piccolo della Capitale, gli abitanti sono parte di un’unica famiglia allargata, per cui c’è forte fiducia tra i membri circa i comportamenti individuali. I genitori riconoscono che i propri figli sono in tal senso fortunati, perché possono giocare all’aria aperta coi cugini e i fratelli. «No, non usiamo accorgimenti. Giriamo liberamente. Possiamo uscire fuori dal container. Tanto rimaniamo sempre al campo» (V., uomo, 30 anni, bosniaco). Qui «Nessuno è venuto. Niente, niente, niente… Seguiamo sul tg tutte le indicazioni» (M.., donna, 35 anni, bosniaca). La gravità di questa assenza di orientamento sanitario va vista anche alla luce del fatto che in altre strutture di accoglienza della città di Roma, come i CAS e i SIPROIMI[3], sono state previste delle sessioni informative sul COVID-19 e sulle misure da adottare, oltre alla distribuzione di un decalogo e di dispense in diverse lingue.
In via Luigi Candoni, alcune famiglie riferiscono di aver realizzato delle mascherine, che però vengono usate solo all’esterno per paura, dentro l’insediamento, di essere additati come “untori”. Anche in via dei Gordiani, dalle testimonianze raccolte non vengono utilizzati particolari accorgimenti all’interno dell’insediamento. «In famiglia abbiamo comprato dei guanti ma non li utilizziamo all’interno del campo. Vorremmo avere delle mascherine ma non le abbiamo trovate» (E., uomo, 38 anni, bosniaco). Qualcuno ha realizzato delle mascherine con del tessuto e nessun operatore sanitario risulta si sia presentato al fine di distribuire dispositivi o illustrare misure di prevenzione.
La carenza di servizi non assicura, inoltre, secondo alcuni intervistati, la possibilità di mantenere pulito il proprio corpo e l’ambiente in cui si vive: «L’acqua ha poca pressione e non sempre c’è. Qualcuno si lava, qualcuno neanche può farlo. Qualcuno ha cercato le mascherine in farmacia ma costano troppo» (S., donna, 47 anni, bosniaca, via Salone). A Castel Romano da diversi mesi non c’è accesso all’acqua corrente. Per questo: «Una volta ogni 2 o 3 giorni viene un’autobotte a darci 2 taniche di acqua a container. Non abbiamo acqua da mesi, il Comune ci porta l’acqua ma non è sufficiente; ma come fai a lavarti, a cucinare, a fare la doccia e a bere con così poca acqua? E’ un casino e nessuno fa niente a riguardo, tutti sanno come stiamo qua e nessuno fa niente» (N., donna, 23 anni, bosniaca).
Condizioni economiche e deprivazione alimentare
Un fattore fortemente penalizzante è rappresentato dall’impossibilità di svolgere la consueta attività lavorativa. In alcuni casi, quando eventuali risorse risultano scarse, può essere la solidarietà della comunità ad intervenire. Essa però, in tempi di contagio, dove domina la paura del contatto fisico, rischia di venire meno (via di Salone) con conseguenze che nel tempo, per alcuni soggetti, potrebbero assumere una dimensione drammatica.
In via Cesare Lombroso, dopo il decreto del 9 marzo 2020 è sul versante lavorativo che si avvertono i maggiori cambiamenti: «Mia moglie esce, ma poco. Non abbiamo molto soldi per fare la spesa. Prima lavoravo per fare traslochi ma adesso non esco più» (G., uomo, 40 anni, apolide). Dal tono della voce appare molto più preoccupata una donna, madre di 4 bambini: «Mio marito faceva il mercatino dell’usato, traslochi… ora stiamo fermi. Nessuno lavora per adesso. Abbiamo anche paura di andare in mezzo alla folla» (M., donna, 35 anni, bosniaca). Le sue parole sono molto gravi, nel momento in cui rivela che i suoi figli hanno ancora più paura che a seguito di un gravissimo atto di violenza razzista[4]: «Era l’11 febbraio e poi il 29, sempre di febbraio. Qualcuno ha buttato delle molotov sulla baracca con noi che dormivamo dentro. I documenti della scuola, i vestiti… tutto è andato carbonizzato, con i bambini che sono rimasti traumatizzati. Adesso che c’è questo virus i miei figli sono ancora più terrorizzati. Ma non andiamo da nessuna parte, nessuno ci viene a trovare, neanche la ASL, i Servizi Sociali, i Carabinieri, nessuno…».
A Castel Romano, alcune famiglie si sostengono grazie al reddito di cittadinanza. Per altre la situazione si va progressivamente deteriorando e c’è chi si vede costretto ad uscire all’esterno per “sfamare la famiglia”. «Noi guadagnavamo con il mercatino ma ora è chiuso. Cosa facciamo? Alle famiglie che adesso non hanno nulla diciamo “Chiamate le associazioni e fatevi portare qualcosa da mangiare”» e poi sintetizza: «Siamo essere umani, siamo abbandonati e nessuno ci aiuta» (S., uomo, 55 anni, bosniaco). Significativo è il fatto che come punto di riferimento non ci sia l’autorità pubblica, ma l’associazionismo per quanto questo non sia sempre visto con fiducia dai Rom (Boschetti, Vitale, 2011), in particolare a Roma (Clough Marinaro, Daniele, 2011; Maestri, Vitale 2017)
In via di Salone, la maggioranza degli adulti si manteneva grazie ad attività che vanno dalla raccolta di materiali ferrosi alla pulizia delle cantine, ai traslochi: «Prima facevo i traslochi e vivevo alla giornata. Ora non mi entrano più i soldi giornalieri e non ho neanche da mangiare» (R., uomo 24 anni, italiano). Per alcune donne l’economia familiare si sostiene attraverso l’attività di elemosina. «Mio marito sta in carcere ed io da quando c’è questo virus non posso uscire a fare l’elemosina perché ho 6 figli tra i 12 e i 2 anni e non posso mica lasciarli soli! Ma se non chiedo l’elemosina come vivo? Cosa porto a casa?» (S., donna, 47 anni, bosniaca).
Fragilità delle forme di mutuo aiuto interne.
In via Luigi Candoni, l’attività lavorativa è risultata fortemente penalizzata e si sviluppano forme di azione mutualistica solidale: «Io non lavoro, vivo con mio figlio che non lavora. Sua moglie fa l’elemosina ma non può più farla. Ma ci diamo una mano, chi può aiuta, dà soldi in prestito o fa la spesa per altri. Oggi tu aiuti me, domani io aiuto te» (D., uomo, 47 anni, rumeno). I le baraccopoli sono luoghi in cui avviene una socializzazione importante, e lo scambio è forte con effetti profondi sui comportamenti, le attitudini e le competenze degl individui (Cousin, et al., 2020). Ma l’aiuto reciproco che si sviluppa nelle baraccopoli non va idealizzato, sia perché a volte porta a delle forme di dipendenza e sfruttamento grave, sia perché nella situazione attuale, di enorme penuria di risorse e deprivazione alimentare la solidarietà comunitaria si indebolisce (Clough Marinaro, 2020). Sappiamo che la solidarietà in una comunità richiede una forma di azione comune e un rapporto virtuoso di scambio con le risorse esterne (Tosi, Vitale, 2019). In via Gordiani ci dicono «A tutti gli anziani al campo mancano le cose fondamentali. Loro vivono di elemosina e adesso non hanno di che vivere. Di per sé tutti gli anziani hanno la comunità ma adesso tutti pensano a sé stessi» (E., uomo, 38 anni, bosniaco).
In via Salone prima dell’evento legato al contagio da Covid-19 la solidarietà familiare assicurava nella baraccopoli uno scambio di beni primari ed alimenti che consentiva ad alcuni nuclei in particolare condizione di povertà di superare i momenti più difficili. Ma tale circuito oggi si è in parte interrotto per la paura che il passaggio dei beni corrisponda ad un contagio del virus: «Adesso tutti si guardano con paura, non è più come prima. Le cose non si danno più. Cosa ne so io se quello che abita nel container di fronte al mio mi passa la malattia?» (R., uomo, 28 anni, italiano).
La condizione degli anziani
In quasi tutti gli insediamenti sono stati segnalati casi di famiglie o anziani che a partire dai prossimi giorni potrebbero trovarsi nell’impossibilità di disporre di beni di prima necessità.
Sono proprio questi ultimi, probabilmente insieme ai bambini, la categoria che, all’interno delle baraccopoli romane, sta pagando il prezzo più alto. In via Gordiani, una signora di 65 anni, intervistata, ne è un esempio. Non può uscire dalla propria abitazione in quanto ha avuto numerose malattie pregresse e un intervento al fegato; vive di sussistenza e di aiuti da parte di enti benefici. Ha qualcuno nella baraccopoli che si prende cura di lei ma ultimamente l’ausilio si è ridotto. Versa in condizioni abbastanza gravi relativamente al fabbisogno alimentare giornaliero, e ha paura della pandemia, non sa come difendersi dal rischio di contagio: «Siamo abbandonati, nessuno ci dice niente, non sappiamo come fare. Tutti gli anziani del campo stanno così!» (D., donna, 65 anni, bosniaca).
Anche secondo le testimonianze raccolte in via Salone i più penalizzati da questa condizione di isolamento interno sono gli anziani: «Nel campo ci sono almeno tre vecchi che vivono da soli. Stanno sempre chiusi dentro e abbiamo pure paura di bussare. Ma nessuno sa neanche se hanno da mangiare» (D., donna, 43 anni, italiana).
I bambini e l’istruzione
Nelle interviste emerge scarsa consapevolezza da parte degli abitanti delle baraccopoli dell’impatto che le misure attualmente imposte dal decreto potrebbero avere sull’infanzia. La sospensione dell’attività scolastica e l’impossibilità di utilizzare strumenti tecnologici indispensabili a seguire un’eventuale didattica a distanza pone i minori in età scolare in uno stato di grave isolamento in rapporto ai coetanei e agli insegnanti.
Le tensioni nei rapporti intergenerazionali, già difficili in questi insediamenti (Daniele, 2020) sono palpabili: «Io ho una bambina di 4 e una di 3 anni. Me le tengo strette. Si chiudono tutto il giorno nel container oppure qualche ora davanti la porta di casa. Sembrano cagnolini legati al guinzaglio. Poi i ragazzini più grandi non ce la fanno e li vedi girare in gruppo» (R., uomo, 28 anni, italiano).
Indicazioni di politica pubblica
Lo slogan “Io resto a casa”, ripetuta con enfasi da politici, attori e sportivi al fine di incentivare la giusta misura volta ad impedire la diffusione del Covid-19, si sta traducendo per gli abitanti delle baraccopoli romane nell’impietosa parafrasi suggerita da un abitante di via di Salone nel corso di una intervista: «Io resto a casa? No. Tu resti a casa. Io resto nel campo. Sta qui tutta la differenza!» (A. 28 anni, italiano, baraccopoli di via di Salone, 17 marzo 2020), ad indicare una condizione resa ancora più segregante, marginale e ghettizzante dalla quale quasi 3.500 persone presenti nei “villaggi” e nei “campi tollerati” della Capitale attendono oggi di uscire. Questo report mostra l’importanza delle forme di ricerca applicata che possono essere realizzate rapidamente da associazioni che hanno veramente un rapporto quotidiano con le persone più vulnerabili, e che sviluppano capacità di azione solidale, di ascolto profondo, e di ‘mediazione’ (Vitale, 2019) per dare voce diretta ai diretti interessati, anche in situazioni di emergenza pandemica. Coerentemente con quanto emerso nella indagine, si ricavano alcune indicazioni urgenti di politica pubblica:
- mappare all’interno degli insediamenti formali le condizioni di maggiore fragilità con l’obiettivo di garantire, in particolare ai minori e agli anziani, la distribuzione beni di prima necessità;
- garantire all’interno di ogni singolo insediamento condizioni igienico-sanitarie adeguate assicurando in primis l’accesso all’acqua potabile;
- assicurare all’interno degli insediamenti la presenza di operatori sanitari e di mediatori culturali che possano promuovere una campagna informativa volta ad illustrare le misure di prevenzione raccomandate dal decreto del 9 marzo 2020 e a distribuire agli abitanti dispositivi di protezione individuali;
- rinforzare e coordinare una rete di volontariato sociale al fine di monitorare in maniera capillare le condizioni igienico-sanitarie e la salute di quanti vivono nelle baraccopoli e per orientare le persone con sintomi;
- promuovere misure che salvaguardino il diritto a una didattica a distanza degli alunni residenti nelle baraccopoli;
- coordinare delle azioni di supporto e fornitura di cibo per gli indigenti;
- ascoltare sistematicamente le persone che vivono in bidonville per capire in maniera precisa le esigenze, e valorizzare e mobilitare le loro capacità, con report precisi che permettano concretezza e tempestività;
- predisporre per tempo, in caso di riscontro di una o più positività al Covid-19 all’interno degli insediamenti formali, un adeguato e tempestivo piano di intervento.
Dalla ricerca all’intervento. Cosa abbiamo imparato nella ricerca e come lo abbiamo tradotto in elementi di metodo
A fronte dell’assenza totale sia di intervento pubblico del comune e delle autorità sanitarie, sia di aiuto da parte di organizzazioni prima presenti nei villaggi (Croce Rossa, ARCI) la deprivazione alimentare dei nuclei familiari con figli piccoli è emersa come priorità fra le priorità. Il coinvolgimento di un medico pediatra volontario che si è recato con i nostri volontari nei villaggi ha permesso di confermare lo stato di malnutrizione di molti bambini, soprattutto neonati, o ancora in tenera età. La ricerca applicata di cui abbiamo riassunto qui alcuni risultati ha messo in luce alcune linee di conflitto potenziale da anticipare per la realizzazione di un intervento di emergenza:
- Le tensioni presenti nei villaggi, e la debolezza dei rapporti di aiuto reciproco
- La competizione per le risorse fra le famiglie presenti nei villaggi.
- L’assenza di aiuto volontario da parte di riverains e il forte perdurare di stigma e pregiudizi razzisti
Abbiamo quindi disegnato un programma di aiuti alimentari per tre baraccopoli (due formali, incluse nello studio: Castel Romano e Salone) e una informale che nello studio ci è stato segnalato come uno dei contesti più deprivati (la baraccopoli di Tor Cervara).
Abbiamo deciso contrastare la deprivazione alimentare degli 0/3 anni in modo tale da
- poter garantire un intervento “universale” per tutte le famiglie con bambini piccoli, senza dover selezionare sulla base di dichiarate differenze nei risparmi e negli introiti da lavoro,
- e quindi ridurre un’esasperata competizione,
- evitare ogni forma di patronage e intermediazione nell’accesso ai pacchi alimentari, che sappiamo svilupparsi sempre nei campi a fronte di risorse di interesse comune da destinare a una parte della popolazione potenzialmente interessata
- favorire un sentimento di empatia e di solidarietà da parte della popolazione esterna ai campi, per poter raccogliere i cibo e materiale igienico sanitario (pannolini, salviettine) da distribuire.
Alcuni elementi di metodo hanno caratterizzato il nostro intervento.
- In primo luogo abbiamo voluto conciliare esigenze di personalizzazione dell’intervento (nella distribuzione come nel contenuto dell’aiuto concreto) con le esigenze di categorizzazione e standardizzazione necessarie a garantire la sostenibilità economica e organizzativa dell’intervento[5].
- ci siamo recati nelle tre bidonville prescelte e abbiamo effettuato un colloquio faccia a faccia con tutte le mamme che hanno un figlio dell’età prescelta. Abbiamo con loro compilato una scheda personalizzata per sapere esigenze specifiche (intolleranze, particolari prescrizioni o carenze), e realizzato una lista di 150 beneficiari.
- Coinvolgendo una pediatra volontaria, sulla base della nuova rilevazione abbiamo disegnato una tipologia composta da 5 tipi di pacco bébé (differenziati sulla base della grandezza del bambino e delle esigenze alimentari per gli omogeneizzati e le pastine, e sulla necessità o meno di latte in polvere).
- In secondo luogo abbiamo voluto articolare l’aiuto concreto in questa fase difficilissima con la lotta all’anti-ziganismo e alla Romafobia, per il superamento degli stereotipi e la costruzione di legami di conoscenza reciproca (o amicizia, nel senso con cui i Rom spesso usano questo termine, cfr. Pasta, Vitale 2018).
- Abbiamo riscontrato inutile lanciare un appello generico alla raccolta di fondi indifferenziati per l’aiuto ai Rom che vivono nelle bidonville, anche sottolineando l’abbandono e l’assenza di intervento pubblico.
- Abbiamo lanciato un appello grazie al nostro sito ai cittadini di Roma per comprare i beni necessari per i pacchi bébé.
- Abbiamo privilegiato l’acquisto di beni all’invio di soldi attraverso bonifico, fiduciosi che questo avrebbe accresciuto la solidarietà (l’estensione della quantità di beni acquistati).
- Il messaggio e la richiesta di aiuto privilegia la dimensione di deprivazione alimentare dei bambini 0/3 anni e non l’appartenenza etnica, secondo un principio della nostra associazione. Mettiamo comunque in evidenza il fatto che si tratti di bimbi che vivono in baraccopoli.
- Andiamo con i nostri volontari a ritirare i beni acquistati direttamente a domicilio delle famiglie donatrici una volta alla settimana. Cerchiamo di assicurare che le famiglie donatrici mantegano il loro impegno per due mesi.
- I beni vengono stoccati nel centro sociale “Polo Ex Fienile” che gestiamo in un quartiere periferico e marginale di Roma, Tor Bella Monaca[6]. Li i pacchi vengono confezionati una volta alla settimana al sabato mattina all’aperto nel giardino del centro sociale da un gruppo di volontari ben distanziati (suddivisi in cinque gruppi, uno per ogni tipologia di pacco bébé), in modo da dare massima visibilità alla preparazione di pacchi.
- Per evitare guerre fra poveri, e il rinforzo di stereotipi diffusi[7], abbiamo deciso di estendere l’aiuto attraverso pacchi bébé anche a 21 mamme (dato al 10 aprile 2020) del quartiere, particolarmente bisognose. Per evitare sentimenti di umiliazione, queste mamme sono coinvolte nella realizzazione dei pacchi alimentari al sabato mattina. Il numero di bambini aiutati nel quartiere potrebbe aumentare considerevolmente nelle prossime settimane.
- Attraverso brevi video, messaggi, disegni abbiamo iniziato a favorire dei contatti e degli scambi a distanza fra mamme che donano, mamme che ricevono, mamme che confezionano i pacchi, con effetti molto forti di creazione di un sentimento di appartenenza comune, non scontato e che va organizzato per potersi dispiegare (Vitale, 2020).
- In terzo luogo abbiamo voluto pensato il nostro intervento come incrementale e sostenibile nel tempo, puntando ad assicurare l’aiuto per almeno due mesi.
- La distribuzione dei pacchi viene effettuata una volta alla settimana
- In via Salone avviene fuori dal villaggio, a Tor Cervara dentro la baraccopoli, a Castel Romano, dove il villaggio è suddiviso in 4 aree, in ciascuna delle quattro aree separatamente, in giorni diversi.
- Non si sono mai verificate tensioni nella distribuzione degli aiuti, né problemi di affollamento nelle file. Nessuna famiglia ha dichiarato eventuali problemi di sottrazioni successive alla distribuzione.
- Nelle prime settimane la distribuzione dei pacchi è stata garantita solo dagli operatori della Associazione, che hanno un rapporto di fiducia e conoscenza di lungo periodo con i beneficiari. In seguito introdurremo incrementalmente dei volontari allo scopo di rendere meno usurante l’impegno degli operatori, e di estendere contatti e amicizie.
- A fianco dell’intervento di lotta alla deprivazione alimentare, visto quanto emerso nella ricerca empirica, abbiamo ritenuto necessario comunque aggiungere degli interventi di altra natura, sia relazionale che squisitamente politica sul registro della denuncia e della pressione:
- Abbiamo creato gruppi whatsapp attraverso cui restiamo in contatto con le mamme per dispensare consigli, ascoltare i disagi, dare sollievo nei momenti più duri, inviare attività da realizzare con i propri figli durante le ore trascorse in casa.
- Abbiamo attivato un servizio che consente di ascoltare fiabe in lingua italiana e in lingua romanes (romani chib): “Fiabe al telefono”. In ogni pacco bebè mettiamo anche un volantino di Fiabe al telefono in modo da segnalare l’importanza del gioco e della fantasia anche in questa fase di confinamento, e la presenza di opportunità di relazione al di là dell’aiuto materiale.
- Abbiamo messo a disposizione dei bambini nelle baraccopoli alcuni accessi a internet così da potersi collegare con le piattaforme progettate dalle scuole.
- In collegamento con i loro cellulari supportiamo i bambini nelle ore di studio.
- Abbiamo rinforzato gli aspetti di pressione, advocacy e plaidoier con un appello alla sindaca Virginia Raggi e al Prefetto Pantalone perché vengano attivate misure urgenti finalizzate a tutelare il diritto alla salute e alla continuità scolastica[8].
Bibliografia
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Associazione 21 luglio, 2016, Uscire per sognare. L’infanzia rom in emergenza abitativa nella città di Roma, Roma. https://www.21luglio.org/uscire-per-sognare-linfanzia-rom-in-emergenza-abitativa-nella-citta-di-roma/
Boschetti L, Vitale T., 2011, “« Les Roms ne sont pas encore prêts à se représenter eux-mêmes ! » Asymétries et tensions entre groupes Roms et associations « gadjé » à Milan”, in M. Berger, D. Cefaï, C. Gayet-Viaud (eds), Du civil au politique. Ethnographies du vivre-ensemble, Bruxelles, P.I.E. Peter Lang, pp. 403-29.
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Clough Marinaro I., Daniele U., 2014, “A failed Roma revolution: Conflict, fragmentation and status quo maintenance in Rome”, Ethnicities, 14(6), 775–792.
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Appendice 1.
I 5 « villaggi » in cui è stata effettuata la ricerca
La baraccopoli di via Cesare Lombroso
I primi lavori per la costruzione dell’insediamento posto nel XIV Municipio, in via Cesare Lombroso, 91, risalgono alla Primavera del 1996. L’anno successivo il “campo” venne inaugurato per l’accoglienza di 100 persone raggruppate in 31 famiglie. Nel 2005 l’insediamento venne ampliato, subendo lavori di ristrutturazione. La baraccopoli di Lombroso è la più antica degli attuali “villaggi”, la più piccola – insistendo su una superficie totale di poco superiore a un ettaro – e, insieme a quella di Gordiani, la più vicina al centro di Roma. Si compone di una cinquantina di unità abitative, alcune roulotte e diverse abitazioni realizzate con materiali di risulta. Nel 2019 il Comune di Roma censisce la presenza di 181 persone di nazionalità bosniaca, tra cui 82 minori[9]. I sopralluoghi effettuati da Associazione 21 luglio evidenziano l’assenza di qualsiasi forma di manutenzione delle strutture esistenti, il deterioramento degli spazi abitativi, il sovraffollamento dell’area che causa spesso di litigi interni. Circostanze queste confermate dagli stessi abitanti.
La baraccopoli di via Luigi Candoni
L’insediamento nasce nel 1996 quando, sotto la Giunta guidata dal sindaco Francesco Rutelli, viene attrezzato per l’accoglienza di 79 famiglie. Vengono installati servizi igienici e lavatoi e ad ogni famiglia viene assegnata una piazzola di circa 50 mq con utenza elettrica. Nell’estate del 2000 l’insediamento subisce un ampliamento per accogliere alcune famiglie di nazionalità bosniaca sgomberate dallo storico “campo” informale di Casilino 700. Nel febbraio 2010, con la chiusura dello storico insediamento Casilino 900, per 21 nuclei di nazionalità bosniaca il Comune di Roma colloca dei container negli ultimi spazi rimasti, andando così ad appesantire una situazione già particolarmente precaria per gli abitanti dell’area. Negli anni successivi l’aumento fisiologico degli abitanti genera una serie di disagi, inasprendo i rapporti interni tra vecchi e nuovi residenti, tra persone con cittadinanza rumena e quelle di origine bosniaca. L’attuale insediamento ha una dimensione di circa un ettaro e mezzo. Al suo interno un centinaio di container in pessime condizioni accolgono 838 persone di cui 409 minori[10]. Di essi circa i 2/3 sono rappresentati da cittadini rumeni ed 1/3 da persone di origine bosniaca. Con tali numeri il “villaggio” di Candoni è diventato nel 2019 il più grande insediamento formale italiano. L’abbandono istituzionale ha fatto sì che le condizioni strutturali del “villaggio” appaiano in pessimo stato per l’assenza di manutenzione ordinaria e straordinaria. Si rileva mancanza di manutenzione delle unità abitative, saltuaria manutenzione dell’impianto elettrico, presenza di materiale di scarto non raccolto. L’acqua corrente è ufficialmente potabile, eppure i residenti esprimono dubbi al riguardo e non la utilizzano.
La baraccopoli di via dei Gordiani
A seguito di un incendio che aveva distrutto un vicino insediamento informale, nel 2002 l’Amministrazione Capitolina si impegna a realizzare un “villaggio” munito di container, servizi igienici e recinzione. L’area sorge sopra un terreno dell’I.A.C.P. (Istituto Autonomo case Popolari) nel Municipio V in via dei Gordiani, 325 ed è abitato nel 2019 da 260 persone – tra cui 89 minori – di nazionalità serba e bosniaca[11]. Le condizioni strutturali del “villaggio” appaiano in cattivo stato per l’assenza di manutenzione ordinaria e straordinaria. Si rileva mancanza di manutenzione delle unità abitative, otturamento della rete fognaria, saltuaria manutenzione dell’impianto elettrico, presenza di materiale di scarto non sempre raccolto.
La baraccopoli di Castel Romano
Il “villaggio” di Castel Romano nasce nel settembre 2005, con il trasferimento di famiglie originarie di Vlasenica, la città martire nella guerra civile in Bosnia, residenti da anni nell’insediamento informale di vicolo Savini. Nell’area, posta nel cuore della Riserva Naturale di Decima Malafede, a 25 km dal Raccordo Anulare, le famiglie vivono inizialmente in tende fornite dalla Protezione Civile. Poi, con l’arrivo del freddo, il Comune decide l’installazione di un centinaio di container che l’anno successivo vengono sostituiti dai moduli abitativi prefabbricati. Il 21 febbraio 2007 l’area si amplia con l’arrivo di 150 persone provenienti dallo sgombero di Tor Pagnotta. Tre anni dopo, nel febbraio 2010, l’insediamento vede l’ingresso di famiglie provenienti dalla chiusura del Casilino 900 e nel luglio dello stesso anno giungono le famiglie, di nazionalità bosniaca, provenienti dal “campo” di La Martora. Fino al 2017 l’area, con i suoi 1.062 abitanti rappresentava la baraccopoli istituzionale più popolosa della Capitale. Dai censimenti effettuati dalla Polizia Municipale si evidenzia una sensibile fuoriuscita degli abitanti. Nel dicembre 2018 il Comune di Roma censiva «734 persone suddivise in 5 differenti aree (M, K, D, F, ex Tor Pagnotta) che costituiscono veri e propri campi autonomi»[12]. Nel censimento effettuato dalla stessa Polizia Locale nel giugno 2019 si rileva la presenza di 542 persone di cui 282 sono rappresentati da minori. L’area M, con 323 presenze, appare la più numerosa, seguita dall’area K (111 presenze) l’area F (87 presenze), l’area ex Tor Pagnotta (16 presenze) e l’area D (5 presenze)[13]. Lo stato complessivo di abbandono appare evidente non appena si intravede l’insediamento dalla strada a scorrimento veloce Pontina. Le strutture abitative sono fortemente deteriorate e prive di ordinaria manutenzione. Gli abitanti lamentano da anni l’assenza di acqua potabile, l’intermittente manutenzione dell’impianto elettrico che porta a frequenti distacchi, problematiche legate alle precarie condizioni dell’impianto fognario.
La baraccopoli di via di Salone
L’insediamento nasce nella seconda metà del 1997 con il trasferimento di famiglie rom provenienti dall’area situata nella zona dell’Acqua Vergine e nei terreni prossimi alla stazione Prenestina. Nel 2006 in un’area vicina viene realizzato un “villaggio della solidarietà” destinato all’accoglienza di 600 persone. L’insediamento comprende 138 container per l’accoglienza di nuclei familiari originari di Bosnia, Montenegro, Serbia e Romania. Attualmente nel “villaggio” insistono unità abitative in pessime condizioni e, in alcuni periodi dell’anno, risultano drammatiche le condizioni igienico-sanitarie. Dai sopralluoghi effettuati da Associazione 21 luglio evidente è lo stato di abbandono dell’insediamento e la sola presenza istituzione è colta dal corpo della Polizia Locale presente h24 al suo ingresso. Se negli anni passati nel “campo” di Salone era concentrata una presenza superiore alle 1.000 unità, essa è andata sensibilmente calando negli ultimi due anni. Considerate le difficili condizioni di vita quanti hanno potuto si sono trasferiti altrove. Nell’estate 2019 risultano essere presenti 360 persone, tra cui 174 minori[14].
[1] Il decreto del 9 marzo 2020 è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale con il titolo “Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, applicabili sull’intero territorio nazionale”. La campagna #IoRestoaCasa nasce da un’iniziativa congiunta del Governo, del Ministero della Salute e della Protezione Civile. https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/03/11/20A01605/sg.
[2] Il presente articolo costituisce una sintesi del rapporto dell’Associazione 21 luglio in italiano, che puo’ essere liberamente scaricato dal sito https://www.21luglio.org/iorestoacasa-e-loro-restano-nel-campo/. Una versione ridotta di questo articolo, senza appendici e senza note e bibliografia è stata pubblicata nel sito della rivista Animazione Sociale, all’indirizzo: http://www.animazionesociale.it/iorestonelcampo/ Una versione in inglese e una in francese sono state pubblicate dalla rivista: https://www.metropolitiques.eu.
[3] CAS, Centri di Accoglienza Straordinaria, ibrido tra prima e seconda accoglienza, SIPROIMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati).
[4] Sulla violenza a cui sono sottoposti i Rom a Roma, si vedano i rapporti dell’Associazione 21 luglio https://www.21luglio.org/cosa-facciamo/ricerca/. Si veda anche Froio, et al. (2019).
[5] Sulla tensione fra queste due esigenze e la necessità di elaborare convenzioni per gestirla generativamente, ci permettiamo di rimandare ai nostri Vitale (2009) ; Associazione 21 luglio (2015 ; 2016) ; utile aussi voir Breviglieri, et al. (2003).
[6] https://www.21luglio.org/tag/tor-bella-monaca/
[7] Anche in Francia, l’enquete CNCDH a montré un stereotype très diffusé : une représentation des Roms comme des « parasites » profitant du système d’aide sociale, opportunistes, récipiendaires privilégiés des aides publiques, au détriment des chômeurs français, « privilégiés dans l’accès aux logements sociaux et aux aides sociales ». Mayer et al. (2019, p. 155) observent qu’il s’agit « d’un ensemble de préjugés tenaces et anciens, très structurés par le sentiment de vivre moins bien qu’il y a quelques années ».
[8] https://www.21luglio.org/iorestoacasa-e-loro-restano-nel-campo/
[9] Cfr. la relazione sullo “Stato di attuazione degli interventi per la chiusura dei campi rom” dell’Ufficio speciale rom, sinti e caminanti di Roma Capitale del 24 settembre 2019, prot. QE/68633, nella quale viene riportato il “Quadro sinottico della popolazione presente nei Villaggi Attrezzati” effettuato a cavallo tra il 2018 e il 2019 dall’U.O.S.P.E. della Polizia Locale di Roma Capitale”.
[10] Cfr. la relazione sullo “Stato di attuazione…”
[11] Cfr. la relazione sullo “Stato di attuazione…”
[12] Cfr. Capitolato speciale descrittivo e prestazionale – Procedura aperta per l’affidamento del “Progetto di inclusione sociale per le persone rom, sinti e caminanti e superamento del villaggio attrezzato di Castel Romano”
[13] Polizia Roma Capitale, Nota del 27 giugno 2019, prot. N.186162, Oggetto: Attività di rilevazione presenze presso il Villaggio della Solidarietà di Castel Romano.
[14] Cfr. la relazione sullo “Stato di attuazione…”.