Al fine di fondere l’ambiente naturale con quello umano, Tange propose una soluzione innovativa, ma del tutto estranea al contesto socio-culturale a cui veniva rivolta.
Il quartiere venne infatti pensato come un insieme di grandi anelli residenziali, collegati da un sistema stradale costituito da ampie strade a quattro corsie, che scorrono lungo il perimetro di ciascun anello in modo da permettere collegamenti agevoli tra le diverse aree. Al percorso veicolare se ne sarebbe dovuto affiancare uno pedonale, immerso nel verde, costituito da un grande parco centrale e da alcune «lingue» di verde, chiamate spine, che avrebbero permesso di ricucire le residenze alle attrezzature pubbliche, agli uffici, agli impianti sportivi e alle strutture religiose. Ogni anello avrebbe dovuto costituire una piccola comunità residenziale semi-autonoma, con la presenza di una serie di infrastrutture: la scuola, le attività commerciali primarie, le strutture sanitarie e gli uffici dell’amministrazione pubblica, oltre che la chiesa, alcuni centri di socializzazione e gli impianti sportivi. Infine, al centro dell’intero complesso avrebbero dovuto sorgere delle strutture a servizio di tutto il quartiere, come, ad esempio, un grande centro culturale attrezzato con teatro, museo, sala congressi ed altro.
L’idea, sulla carta tanto originale e futuristica, esprimeva la convinzione di quei tempi, ossia che fosse possibile organizzare ex-novo insediamenti urbani pensati secondo dei criteri di funzionalità e efficienza. Come la storia ha mostrato, anche in altre parti del mondo tentativi simili molto difficilmente hanno sortito risultati apprezzabili, perché costruire dal niente un nuovo contesto urbano, al di fuori di una storia e di una cultura, è sempre un’operazione illuministica e degenerativa che pretende di plasmare la vita sociale secondo un disegno che, per quanto affascinante, non è mai in grado di avere il respiro vitale dei rapporti umani. Ma nel caso di Librino, la distanza tra l’idea e la realizzazione è stata massima: il peso di diversi fattori – di ordine politico, culturale e economico – ne impedì anche la più embrionale realizzazione in favore del risultato opposto, il fallimento.
L’ideale della «nuova città» si è così trasformato nel suo contrario, in un non-luogo, spazialmente segregato, frammentato al proprio interno e incapace di esprimere una socialità e una cultura propria. E proprio per questo destinato a diventare ricettacolo e moltiplicatore di problemi umani e sociali.
Negli enormi palazzoni monocolore, e in particolare di quelli che sorgono lungo il viale Moncada, si registra la presenza di numerose persone indigenti, che vivono la loro precaria quotidianità ai confini del contesto sociale. Qui il reclutamento e l’ingresso in circuiti illegali rappresenta spesso uno sbocco naturale, considerato alternativo al destino di povertà, disoccupazione o sottoccupazione e marginalità: “in questo quartiere – afferma Giuliana Gianino – ai nostri occhi non c’erano servizi, non c’erano punti di incontro; tutto si sviluppava in verticale – grandi palazzoni – ma mai in orizzontale, nelle relazioni. Moltissimi bambini erano e sono per strada: lo spaccio è a portata di mano, si diventa pusher a 12 anni, quasi l’unica via per poter essere presenti in questa storia… Per noi è stato naturale raccogliere la spinta di tutte le famiglie e anche delle parrocchie, di chi abitava questo quartiere: offrire uno spazio proprio per i minori e, con loro, per l’anello più debole del quartiere che sono le donne, coloro che reggono quasi tutta l’economia di questo quartiere ma che poi sono le vittime principali del disagio culturale ed economico, nonché del vivere delinquenziale e del sistema mafioso che controlla il territorio…”.
Dell’idea di Tange sono rimasti i sette anelli abitativi, mentre sono spariti del tutto i luoghi destinati ai servizi e all’aggregazione sociale. Il che rende impraticabile qualunque forma di vita sociale, che viene ulteriormente depressa dallo stato di abbandono delle strade e delle piazze, dove prevalgono i segni di inciviltà che ricordano agli abitanti di Librino che vivono in una terra di nessuno. Ancora oggi, i bambini, se vogliono ritrovarsi a giocare, utilizzano qualche area adiacente ai palazzoni o i campetti di terra pieni di detriti dove, spesso, le fogne scaricano i rifiuti a cielo aperto.
In tale contesto, il Centro Talita Kum propone un progetto e getta così un seme, un segno: far intravedere, nella concretezza della vita quotidiana, la possibilità di una alternativa alla spirale di abbandono che produce ulteriore degrado – sociale non meno che umano: “… siamo partiti con un centro che potesse intanto accogliere i bisogni primari che erano quelli di offrire dei luoghi in cui il bambino potesse prima di tutto essere un bambino, quindi giocare, studiare, conoscere le proprie potenzialità, la propria creatività, e incontrare delle relazioni positive, perché spesso incontriamo bambini che vivono delle relazioni molto aggressive e molto negative, in famiglia e in strada, e questo lo identificano anche poi nella società – quindi per loro tutto è aggressività. E alimentano questa aggressività dentro: i primi giorni qui, nel Centro, era un entrare, da parte dei nostri bambini e ragazzi, spaccare tutto e andarsene. Questa era la manifestazione della loro voglia di esserci nella nostra storia… Ora, dopo alcuni anni, alcuni di loro – che sono cresciuti – vengono con noi e aiutano nella animazione per esempio con lo Straludobus in giro per il quartiere…”.
Tutti i pomeriggi, una vivace squadra di giovani volontari e operatori offre attività di sostegno al percorso scolastico dei ragazzi, con approfondimenti personalizzati, e attività aggregative (laboratori di teatro, musica, informatica, di psico-motricità, di cucina, ecc.; momenti ricreativi e artistici; animazione del territorio attraverso un ludo-bus che si ferma laddove lo spazio è estraneo così da rigenerarne il significato per chi lo abita, ecc.).