“Social street”, è il nome che da un anno a questa parte viene attribuito a un modo almeno in apparenza nuovo di vivere una socialità conviviale e di vicinato nelle strade e nei quartieri delle città e delle metropoli. E’ un fenomeno che da un punto di vista formale esiste come un gruppo chiuso su facebook (un gruppo, cioè, a cui puoi aderire solo se invitato o se accettato dall’amministratore e le cui attività sono visibili solo ai membri).
A oggi conta 1034 membri tra cui molti osservatori e studiosi, curiosi di comprendere la natura dell’effervescenza collettiva che le social street producono e allo stesso tempo interessati a capire se esse possono davvero venire considerate come uno dei semi di cambiamento profondo che in questi anni di crisi, non solo economica, sono particolarmente auspicati. Nelle parole dei fondatori e primi partecipanti, gli obiettivi dichiarati della social street sono: socializzare con i vicini, scambiarsi informazioni, e favori, riscoprire il mondo in una strada.
Nel volantino con cui tutto ha avuto inizio si parla di “una sorta di bacheca stradale”, per fare riferimento proprio al modo spontaneo e aperto a tutti di condividere informazioni, richieste, proposte. In breve, l’esperienza – e il suo successo – nascono dalla ricerca di relazioni e dall’esigenza di trovare soluzioni a bisogni semplici e legati alla vita quotidiana: chi è il medico migliore in zona? quando lavano la strada? c’è nei paraggi qualcuno in grado di fare semplici riparazioni di cucito? Aiuto! si è rotta la lavatrice e non riesco a trovare un tecnico per la riparazione! Devo partire e ho due litri di latte in frigo che scadono fra due giorni, possono servire a qualcuno?
Che cosa c’è di nuovo in tutto questo? Perché tutta questa pubblicità e l’invenzione di un nome ipermoderno come “social street”, se siamo di fronte a normali relazioni di buon vicinato?
Federico Bastiani, che ha creato il gruppo facebook e ha distribuito i primi annunci negli androni dei palazzi e nei negozi di via Fondazza rivendica sempre con forza il suo desiderio originario di saperne di più delle persone che abitano nella stessa strada in cui lui si è trasferito solo due anni fa. Il resto, comprese le attività che ne sono scaturite, gli aiuti prestati, le informazioni circolate, sono ai suoi occhi una conseguenza, piacevole e costruttiva certo, ma non l’obiettivo principale della sua iniziativa. Il tentativo di innescare relazioni personali fine a se stesse è l’obiettivo che lo ha guidato; uno scopo in una certa misura sorprendente, considerando che le social street, appena se ne è cominciato a parlare sui giornali (ed è avvenuto poco dopo che Bastiani ha avviato il gruppo FB di via Fondazza), sono state assimilate alle varie forme di sharing economy, organizzate secondo altri moventi. Quest’ultima, infatti, è un’etichetta di solito usata per indicare attività di consumo basato sull’accesso all’uso di beni invece che sul loro possesso (prestito, noleggio, baratto, uso temporaneo ecc.) e mediate attraverso piattaforme digitali che consentono a persone che non si conoscono tra loro di entrare in contatto diretto, per mettere in comune risorse, servizi, tempo.
La molla principale è il bisogno concreto da soddisfare e i legami, quando si instaurano – e talvolta possono anche essere significativi – sono una conseguenza, interessante e positiva, quasi mai esplicitamente ricercata. Nel caso della social street, invece, la logica è rovesciata: l’obiettivo sono le relazioni; la soddisfazione dei bisogni e la loro identificazione solo un effetto secondario.La spinta, dunque, è verso l’uscita dall’anonimato in cui la vita urbana e l’organizzazione moderna del lavoro per loro natura ci costringono: si vive in un luogo e si lavora in un altro; i tempi che ritmano le vite quotidiane sono dettati dall’esterno e variano in misura significativa per categorie diverse di persone; i trasferimenti da una città all’altra nel corso della propria esistenza sono sempre più numerosi e frequenti; l’approvvigionamento delle risorse necessarie a sé e ai propri familiari è demandato a organizzazioni commerciali specializzate che ci riforniscono di tutto ciò di cui abbiamo bisogno e desiderio ecc. In questa situazione, ciascuno di noi può trascorrere molte giornate parlando con gli altri solo per motivi pratici e logistici, può abitare in un palazzo e in una strada senza incontrare o sapere nulla dei suoi vicini; può fare la spesa online, e procurarsi l’aiuto di professionisti esperti per ogni tipo di necessità incontrando persone che lo raggiungono solo per i servizi richiesti e che già sa che non rivedrà mai più.
Non appare dunque strana l’esigenza di intaccare la densa cortina di solitudine che l’anonimato porta con sé, se non fosse che alla solitudine del cittadino moderno si accompagnano anche standard elevati di libertà, considerati una conquista preziosa capace di rendere le persone autonome rispetto a legami, forme di subordinazione, dominazioni simboliche. E il caso del vicinato, di casa o di strada, può bene essere un esempio di tali contraddizioni.
La decisione di invitare i vicini ad aderire al gruppo facebook degli abitanti di via Fondazza, se da un lato permette di conoscerli, di sapere qualcosa di più della loro storia e della loro vita, dall’altro però porta a confrontarsi anche con le preferenze, le idiosincrasie, i modi di fare e di pensare degli altri che non solo possono essere diversi dai propri, ma potrebbero essere orientati a un modo di stare al mondo inaccettabile. Inoltre, una volta che dei legami si sono istituiti, che hai raccontato chi sei e che cosa fai, che hai aperto le porte della tua casa e hai reso accessibile una parte della tua intimità e del tuo privato, di fatto ti sei offerto ai pregiudizi e alle critiche dei vicini. Insomma, aprirsi agli altri è un rischio: espone ai conflitti e al controllo sociale.Se guardata in questa prospettiva, allora, la scelta di invitare gli abitanti della via ad aderire al gruppo chiuso su facebook appare molto meno scontata di come potremmo pensare. Soprattutto, non scontati erano gli effetti che avrebbe potuto provocare. La storia della social street di via Fondazza non era affatto già inscritta nel gesto di distribuire il volantino. Le cose sarebbero potute andare molto diversamente.
Che siano andate così è forse il segno che quel volantino ha intercettato un bisogno latente, di cui ora proviamo a cercare gli indizi.In uno dei suoi scritti più suggestivi lo studioso tedesco Georg Simmel, nei primi anni del ventesimo secolo, parla dell’azione di un impulso che spinge le persone allo stare insieme, a fare cose insieme per il puro piacere di farle, senza scopi ulteriori; egli assimila tale impulso ad alcune pratiche artistiche, in cui l’autore non ha fini esterni se non il compimento dell’opera in se stessa. E in tali esperienze di “socievolezza” fine a se stessa egli vede l’essenza più profonda della società, che verrà poi declinata in forme in cui lo stare insieme sarà finalizzato a scopi ulteriori e di comune utilità.Così, in un certo senso è come se il desiderio di conoscere i propri vicini, senza alcun fine di ordine pratico, nascesse dal bisogno di riscoprire le radici della socievolezza, senza calcolare rischi e difficoltà, ma mossi dalla necessità di dare voce a quell’impulso verso l’incontro con gli altri da cui possono anche nascere tensioni e scontri, ma che è comunque alla base di ogni possibile creatività sociale. E questo è forse il primo indizio di novità.In questa prospettiva è significativo che le attività nate dagli incontri di chi ha aderito al gruppo degli abitanti di via Fondazza consistano principalmente in momenti festivi.
Esprimono infatti il bisogno di cercare e coltivare quelle tracce di umanità che ci fanno sentire vicini alle altre persone. Tracce che sono facili da scoprire, quando collettivamente riusciamo a superare situazioni di grande emergenza, paura o rischio e siamo travolti dal desiderio di celebrare con gli altri, chiunque essi siano, lo scampato pericolo, ma di cui ci dimentichiamo quando siamo assorbiti dalle routine della nostra vita quotidiana, come ci ricorda in un suo recente libro l’antropologo Paolo Apolito. Si tratta di feste in cui non ci sono obiettivi da raggiungere, ma piuttosto viene sperimentata la possibilità di stare insieme e di provare piacere dalla compagnia reciproca.
Qual è la portata pubblica, il valore sociale, o politico, di un gruppo di residenti che organizza feste e intrattenimenti locali? Perché sembra così importante riconoscere tali forme di aggregazione?
I fondatori e i partecipanti raccontano di attività spontanee in cui ognuno “fa ciò che può, ciò che vuole, come vuole ed esprime se stesso”, senza imposizioni dall’alto, ma anche senza un’organizzazione strutturata e stringente delle attività e soprattutto “a costo zero”, senza chiedere né accettare “sponsor, supporti o rapporti politici”. Questo è un altro rilevante elemento di novità, il secondo indizio: il tentativo di sottrarsi al mercato e alla politica, rivendicando la propria autonomia e muovendosi in uno spazio non incluso nelle normali dinamiche di negoziazione e di contrattazione proprie delle pratiche di mercificazione e istituzionalizzazione. Tutto ciò, senza però avanzare prospettive antagoniste rispetto alle dominanti logiche economiche e politiche, preferendo invece rivendicare modi e tempi di vita negli spazi pubblici e comuni, che possano venire gestiti secondo logiche non riconducibili all’efficienza o all’efficacia misurate da risultati quantificabili.
L’estraneità a processi di mercificazione e di istituzionalizzazione non implica al contempo anche un’estraneità a processi di mediatizzazione, che invece si intrecciano profondamente alle vicende della Social Street di via Fondazza e delle altre esperienze diffusesi su tutto il territorio nazionale. Fin dai primi giorni in cui il gruppo chiuso di via Fondazza ha incominciato a raccogliere adesioni molto più numerose di quello che i proponenti si aspettavano, diverse testate hanno ripreso la notizia, rendendo immediatamente molto visibile un fenomeno che non sarebbe stato meno significativo per i suoi protagonisti se non avesse catalizzato l’attenzione dei media. La mediatizzazione – oltre a far conoscere il fenomeno e a favorirne la diffusione – ha immediatamente implicato anche l’avvio di un percorso di cristallizzazione e standardizzazione dell’identità del fenomeno social street. Si potrebbe allora forse affermare che l’istituzionalizzazione, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra.Le numerose interviste rilasciate da Federico Bastiani e la sua frequente partecipazione a eventi in cui vengono studiati i fenomeni di mobilitazione dal basso delle energie di socialità dei cittadini testimoniano l’entusiasmo che lo anima e che lo spinge a mettere a disposizione il know how maturato a Bologna.
Tuttavia finiscono per costruire, suo malgrado, un modello, per il quale sono ora disponibili addirittura delle linee guida (http://www.socialstreet.it/linee-guida), che arrivano a fornire il format del volantino con cui presentare l’iniziativa nel proprio territorio. In che modo la visibilità e la mediatizzazione dell’esperienza sono compatibili con il rifiuto di entrare dentro le logiche di contrattazione imposte dal mercato e dalla politica? È davvero possibile immaginare che i media si limitino a fare da cassa di risonanza di un fenomeno consentendogli di mantenere tutta la freschezza e l’imprevedibilità delle sue prime espressioni?
Questo appare come un punto critico, che segnala ovviamente una maturazione e una trasformazione del fenomeno, ma che apre la strada a possibili effetti di normalizzazione, con il risultato di ridurre la social street a forme già sperimentate e più consolidate di aggregazione dal valore pro-sociale. Un altro segnale di normalizzazione potrebbe essere rinvenuto nelle pratiche orientate alla beneficenza, come nel caso della raccolta in fascicolo di leggende e storie su via Fondazza, vendute al banchetto con lo scopo di raccogliere fondi per un progetto di “beneficenza”. Ciò induce a reinterpretare la social street come una tra le varie forme associative non profit e di volontariato che nascono in mille contesti differenti e che certamente sono espressione di una ricca disponibilità a condividere risorse con chi è meno fortunato (la stessa parola beneficenza esprime questo tipo di atteggiamento).
Sembrano tuttavia in contraddizione con i due tratti che più paiono innovativi del fenomeno in questione, vale a dire la ricerca di momenti di socialità pura e la rivendicazione politica di uno spazio in cui il fare si sottrae a ogni ulteriore definizione di ordine istituzionale o di mercato. Le pratiche di beneficenza, invece, sono bene codificate e organizzate entro schemi e modelli che fanno legittimamente parte tanto di sistemi istituzionali quanto economici.In conclusione, oltre a interrogarci sull’adeguatezza delle categorie con cui guardiamo a questo fenomeno, siamo affascinati dalle sue potenzialità. Nello stesso tempo, non possiamo evitare di chiederci se le social street avranno le risorse per persistere ed espandersi, promuovendo nuove forme di socialità, di condivisione e di valorizzazione delle relazioni, sfuggendo ai rischi di normalizzazione che le attraversano.