La tradizione popolare italiana è piena di frasi e proverbi sull’intrusività dei vicini di casa, che vengono descritti spesso come pettegoli, impiccioni, talvolta fastidiosi suonatori di violino e così via. Gino e Michele quasi vent’anni fa in “Le formiche nel loro piccolo si incazzano” scrivevano: “I vicini di casa sono le uniche spie disposte a prestarvi mezzo chilo di zucchero”. Ma è davvero ancora così?
Sembra proprio di no. Le nostre città sono abitate frettolosamente, i nostri sguardi non sono più così indiscreti, ma al contrario sono diventati indifferenti, vuoti. Il bombardamento di stimoli, la fretta, le difficoltà negli spostamenti ci hanno portati ad un processo di individualizzazione e di autonomia che spesso conducono ad un isolamento tale che nessuno, pensiamo, possa prestarci quel mezzo chilo di zucchero.Le nostre città, antiche e dense di storia, si sono silenziosamente e tristemente adattate al sistema capitalistico e, sebbene le loro architetture siano state pensate per agevolare l’incontro, gli iperstimoli urbani, accelerati e sovraccarichi, tendono invece, simmelianamente, ad allontanarci. Il sistema del mercato autoregolato ci ha portato addirittura a risemantizzare e a svilire anche i nostri sentimenti. Una cosa ci è cara sia che ne valutiamo l’alto valore monetario che quello emotivo.
Ma tutto ciò non è umano: se, come ci indicava Walter Benjamin, quella capitalista è una religione che conduce all’autodistruzione, che tende a reiterare all’infinito un meccanismo di indebitamento e di colpevolizzazione da cui non può esserci scampo, noi cerchiamo di reagire o di porre almeno qualche freno.
Social Street è proprio uno di questi freni: un ostacolo al mercato che tutto vuole occupare e masticare, anche il nostro bisogno di incontro e di relazionalità, anche quel mezzo chilo di zucchero in un pomeriggio invernale, quando vogliamo preparare una torta con i nostri figli.
Perché il mercato non è l’unico sistema possibile: possiamo soddisfare i nostri bisogni anche in altri modi e il dono è forse quello più affascinante e paradossale. Il dono resiste: il marketing cerca di utilizzarlo a più non posso, con offerte, regali, strumentalizzazioni del gratis, ma noi tutti percepiamo la differenza e non ci facciamo più incantare.La discriminante tra dono e scambio di mercato poggia su questioni sostanziali: la prima è la libertà. Siamo liberi di donare, così come siamo liberi di ricevere e di contraccambiare. Liberi ma obbligati, non tanto da un contratto commerciale, quanto da un dovere morale, dalla fiducia che riponiamo nell’altro, dal bisogno del sentirci in relazione. Dono, quindi, in questo senso, proprio come il latino munus, radice di comunità e di comunicazione.
Ma esistono luoghi che possono agevolare o presupporre il dono? Esistono luoghi del dono?Social street sembra indicarci proprio questa direzione. E non solo perché in via Fondazza e nelle altre strade che hanno aderito al modello Social Street ci si scambiano beni e servizi, si organizzano eventi e si propongono iniziative volte alla gratuità, ma anche e soprattutto perché la Social Street è nata attraverso una ricerca di relazione e di relazione e incontro si nutre, cresce e si diffonde nel resto del mondo. Il fatto poi che le Social Street possano nascere nel Web, attraverso la modalità dei gruppi di Facebook non fa che dimostrare – ancora – che il bisogno di socialità e di incontro anticipa ogni luogo digitale o fisico e che, anche le cosiddette “nuove tecnologie” possono sottrarsi alla logica del mercato autoregolato se utilizzate per incontrarsi, davvero, con fiducia e desiderio di reciprocità. Aprirsi al rischio dell’altro, quindi, a quel disequilibrio instabile e mai definitivo del dono, del vero valore di legame che ci porta a scambiare oggetti e tempo, sogni e speranze di una vita dotata di senso.