Quando, ormai cinque anni fa, cominciai a frequentare per un giorno la settimana la scuola “Oliver Twist” di Como – che è il terminale scolastico dell’esperienza educativa di Cometa – le mie opinioni su questo genere di opere erano già ben formate. Ho sempre considerato coloro che prendono iniziative come questa come persone speciali, uomini e donne molto più grandi di me, capaci di una dedizione, di un amore e di un impegno di cui mi ritenevo (e continuo a ritenermi) incapace.
Al tempo stesso, la mia idea preconcetta era quella, una volta varcati i confini di questo che sta assumendo sempre più la fisionomia di un piccolo borgo (con case d’abitazione, scuola, bar, chiesa), di fare il mio ingresso in un luogo diverso, alternativo alla vita quotidiana, dove l’egoismo lasciava il posto all’altruismo e l’interesse alla gratuità.In altre parole, restava ben salda in me una certa divisione del mondo: di qua i buoni (generosi, appassionati e capaci di qualsiasi sacrificio), di là i cattivi, vale a dire il nostro mondo inquinato, grigio e infestato da diverse specie di squali.
Con una piccola notazione: poiché continuavo a pensare che quello grigio inquinato infestato dagli squali, quello nel quale tutti noi siamo immersi, fosse comunque il mondo “vero”, ne conseguiva che il mondo di Cometa era, sì, bellissimo, ma non era quello vero. Un mondo bello ma utopico. Capace di fare miracoli, ma non di persuadere il mondo che la vita, che si svolge dentro i suoi confini, è possibile ovunque, in ogni contesto.Avevo cominciato a frequentare Cometa per imparare meglio alcuni “valori”, come quello della gratuità, o quello dell’accoglienza. Ma quello che vi ho trovato è molto di più.Fu Erasmo Figini a invitarmi a cena, una sera appunto di cinque anni fa, per chiedermi se me la sentivo di collaborare con lui per aiutare i ragazzi della scuola a esprimersi meglio, sia verbalmente che per iscritto. Io dissi immediatamente di sì per il fascino che l’esperienza di Cometa aveva esercitato su di me grazie ai racconti che mi faceva mia moglie, che per un certo periodo aveva lavorato per Cometa.
Ancora non conoscevo i ragazzi della “Oliver Twist”, non immaginavo quello che avrei dovuto fare per rispondere alla richiesta di Erasmo. Già la vista della sua meravigliosa casa mi riempiva di stupore: prima di allora, quando pensavo all’accoglienza mi venivano in mente tovaglie di plastica e letti a castello e, più generalmente, un regime tendente al militare, una sorta di perenne vacanza estiva parrocchiale rattristata dai doveri scolastici.
Questo particolare cominciò a scombussolare le idee che mi ero fatto. Poi, al momento del caffè, Erasmo staccò da un vaso natalizio (la cena si svolse nel periodo delle feste) una fogliolina di abete e mi disse queste parole che non potrò mai dimenticare:“Se io non riesco a comunicare a questi ragazzi lo stupore che suscita in me la vista di questa foglia, considero inutile tutto quello che ho fatto finora”Gli chiedo in cosa consiste quello stupore.“Consiste nel fatto che né io né nessun altro può fare una cosa come questa.”In quel momento cominciai a capire che, se si vuole lavorare a Cometa per uno dei suoi mille progetti, c’è una cosa che NON bisogna fare: cercare una mansione da svolgere. Si può entrare in Cometa in tanti modi: come ospiti, amministrativi, come tutor, come insegnanti, come educatori, come ufficio stampa, e così via. Una volta entrati, però, conta soprattutto la disponibilità di ciascuno a partecipare all’opera nella sua totalità.“Partecipare all’opera”, tuttavia, non significa, come detto, svolgere un ruolo all’interno di un sistema bene organizzato, bensì essere disponibili a donare quello che si è – direi la propria diversità, con pregi e difetti – accettando di mettere in gioco la propria energia nella coscienza che questa energia non costituisce l’ultima parola sull’opera stessa.
Mi spiego.I principi, se così si possono chiamare, su cui si fonda tutto il progetto educativo di Cometa e della scuola “Oliver Twist”, sono semplicissimi: il primo dice che “fare scuola è un fare-insieme”, il secondo dice che “fare scuola è educare attraverso la bellezza”.I ragazzi che frequentano la Scuola Professionale Oliver Twist con i suoi tre indirizzi più uno (baristi/alberghieri, tessili, manutentori d’immobili/falegnami, più il cosiddetto “Liceo del Lavoro”) provengono molto spesso da situazioni difficili, situazioni “a rischio” (lascio immaginare al lettore il senso di questa parola: si va dalle famiglie disagiate alla droga a casi da codice penale).Aiutare le persone a trovare innanzitutto sé stesse, a incontrare sé stesse, è la mission obbligatoria di una scuola come questa.
Ma, poiché nessuno può dare per scontato questo incontro, ne deriva che “conoscere sé stessi” è una strada che tocca a tutti, educatori e allievi. Prima della divisione dei ruoli, dunque, c’è un cammino comune.Nell’atrio della scuola Erasmo ha posto la statua lignea di un gorilla a grandezza naturale e, appeso al muro, il dipinto di una grande mano che scende dall’alto con, sotto, il celebre distico dantesco: fatti non foste a viver come bruti/ ma per seguir virtute e canoscenza.
Chiedo a Erasmo il perché di questa installazione.“Ogni mattina” spiega “ devo decidere se essere brutale e istintivo come il gorilla o pienamente umano come i versi di Dante. Con l’aggiunta che seguir virtute e canoscenza, che è la cosa più umana che esista, è impossibile all’uomo (tant’è che Ulisse, che pronuncia quelle parole, si trova all’inferno) se non si afferra alla mano di Dio”“Ma nella tua installazione la mano di Dio è di un rosa tenue, quasi invisibile”“Siamo individui liberi”“E il gorilla è decisamente simpatico”“Stessa cosa. Se fosse antipatico, dove starebbe il dramma? Io quel gorilla l‘ho messo qui perché mi piaceva…”Se questo è il punto intorno al quale tutta l’opera ruota, diverse sono le “anime” di Cometa e sarebbe sbagliato, come si dice, fare di ogni erba un fascio.Coloro che io considero (credo con qualche fondamento) i protagonisti principali del grande romanzo della “Oliver Twist” hanno personalità e molto spesso idee assai diverse tra loro. Non si possono immaginare tre persone più diverse tra loro di Erasmo Figini, Paolo Binda e Alessandro Mele, che sono i pilastri principali di questa scuola.
Ma a nessuno di loro – questo è il punto dove desideravo arrivare – è chiesto di rinunciare a un solo pezzetto di sé stessi “in nome dell’opera comune”.Quello che è chiesto è di riconoscere che un uomo è tanto più sé stesso quanto più si dona totalmente (idee comprese) a qualcosa che lo supera. Che, per esempio, il compito di un artista non è quello di creare mondi per esibire la propria abilità, ma di celebrare il mistero dell’Universo riscoprendone le leggi attraverso il proprio lavoro. Ed è sempre una scoperta imprevedibile. Per questo Cometa ama particolarmente Giotto, Leonardo, Caravaggio, Picasso, Andy Warhol.Chi fa Cometa – quale che sia la sua filosofia di partenza – impara che la propria creatività non è tutto, che il Tutto è un’altra cosa.
Questa umiltà è la roccia su cui si fonda tutta la costruzione di Cometa. Ma non è l’umiltà affettata dei bigotti, è piuttosto il realismo di chi assiste a qualcosa di imprevedibile, che nasce e si modifica giorno per giorno. Come diceva Wittgenstein: “Bisogna essere sempre pronti a imparare qualcosa di completamente nuovo”.I ragazzi, attraverso il lavoro e lo studio, vengono accompagnati da un manipolo di veri eroi (insegnanti e tutor) alla scoperta di sé stessi, e spesso sono proprio le indicazioni e soprattutto il cambiamento dei ragazzi ad imprimere nuove direzioni al lavoro della “Oliver Twist”.In questo senso tutti, a partire da Erasmo, sono al servizio di ciò che accade giorno per giorno. Questo non significa non progettare (Cometa è essa stessa un insieme di progetti), ma essere sempre pronti a scoprire cose completamente nuove.Frequentando Cometa ho imparato che niente è “in più”, niente è di troppo se si riferisce all’essenziale.A questo proposito vorrei, in queste righe finali, dire quello che ho fatto io in questi anni a Cometa, e di cui non avevo la più pallida idea quando accettai la sfida di Erasmo.
Aiutato da Alessandro Mele, ho cominciato a organizzare incontri tra i ragazzi e questi personaggi: non semplici conferenze, ma appunto incontri dettati innanzitutto dalla condizione dei ragazzi e dall’impostazione “dal basso” della scuola, incontri che – possibilmente – li mettessero in rapporto con l’intero percorso lavorativo che avevano imboccato.È nata così la fortunata rassegna “Cosa c’è dietro a…?”, per mettere in risalto il lavoro che sottostà a un’opera – fosse una poesia, un edificio, un’impresa, un ristorante, una rete televisiva, una disciplina scientifica o uno spettacolo.
Abbiamo chiesto per esempio a Aldo, Giovanni e Giacomo cosa c’è dietro una risata, al neuroscienziato Andrea Moro cosa c’è dietro il linguaggio umano, al pittore Alessandro Papetti cosa c’è dietro un quadro e dietro il colore grigio, all’imprenditore Manfredi Catella cosa c’è dietro un nuovo pezzo di città, all’archistar Mario Botta cosa c’è dietro una casa, e così via.Da questi incontri sono nati un concorso di poesia (diretto dal poeta laghee Vito Trombetta e, per quest’anno, anche da Davide Rondoni) e uno di fotografia, condotto da Marco Garofalo, allievo del grande, compianto Gabriele Basilico.
L’enogastronomo Paolo Massobrio ha aiutato i ragazzi ad allestire un laboratorio di gelateria, mentre Manfredi Catella ha ideato una piccola impresa da proporre ai giovani falegnami.La sorpresa più grande di questi anni è stata per me quella di vedere i frutti di questo metodo di lavoro. Se la nostra civiltà si è intestardita sulla superiorità del lavoro intellettuale su quello manuale, l’esperienza della “Oliver Twist” è stata quella di constatare come il “fare” generi un cammino originale e potentissimo verso la conoscenza e il sapere: un percorso “dal basso” che spesso nasce dalle sollecitazioni degli stessi ragazzi (su loro richiesta comincerà l’anno prossimo un piccolo corso di filosofia).
[1]Sono inoltre testimone diretto della capacità effettiva del lavoro manuale – se condotto con rigore – di produrre una domanda conoscitiva di alto livello. Lo dimostrano non solo i molti ragazzi che, entrati nella “Oliver Twist” per imparare un mestiere, manifestano poi l’esigenza di proseguire gli studi fino all’università. Lo dimostra anche il comportamento generale dei ragazzi di fronte a chi trasmette loro delle conoscenze.L’obbligo alla precisione, all’aderenza della realizzazione al progetto, le difficoltà di molti lavori che richiedono grande esercizio, la constatazione che l’approssimazione non produce soltanto un voto mediocre (come in un compito di greco mal fatto) ma anche e soprattutto il cattivo funzionamento, la cattiva qualità del prodotto finito, la sua non-vendibilità, con il mancato guadagno che ne viene; tutto questo ha innalzato molto le esigenze qualitative dei ragazzi circa le conoscenze che vengono loro trasmesse.
Più di una volta mi è capitato, tenendo una lezione o assistendo a lezioni altrui (come quella, memorabile, di Andrea Moro sul rapporto tra linguaggio e neuroscienze), di constatare come l’attenzione cresca quanto più il contenuto proposto si dimostra impegnativo. Un giorno, su richiesta dell’insegnante di italiano, ho spiegato la morale kantiana (imperativo categorico, formalismo ecc.) a una classe di allievi camerieri.Era l’ultima ora prima delle vacanze di Pasqua ed era una bellissima giornata. Io non dimenticherò mai il silenzio attento e partecipe dei ragazzi e il loro applauso finale, che ho capito solo qualche ora dopo: in quell’ora io non avevo espresso mie opinioni o interpretazioni, ma avevo spiegato loro abbastanza minuziosamente il pensiero di Kant riguardo alla Legge Morale.
Ossia: avevo spiegato loro un concetto con la stessa cura con cui viene insegnato loro come si fa un soffritto, in quali bicchieri si versano i diversi tipi di vino o come si applica la foglia d’argento a una cornice. Li avevo aiutati a considerare il lavoro intellettuale allo stesso livello di quello manuale, e non (come spesso accade negli istituti professionali) come un doveroso e perciò noioso riempitivo.
E ho capito una cosa: dire che fare una cornice di legno ha la stessa dignità che studiare un canto dantesco è una forma di moralismo altezzoso e appena condiscendente. Ma dire l’opposto, e cioè che studiare un canto dantesco ha la stessa dignità che fare una cornice di legno, be’, questa sì è una rivoluzione.In conclusione. Tutte le opere d’arte vivono dell’incontro imprevedibile tra elementi in apparenza eterogenei. Gli elementi, qui a Como, sono da un lato il “fare insieme” nutrito da un’idea di bellezza che è fattore fondamentale d’inquietudine, di desiderio di crescita; e dall’altro l’intelligenza, la fantasia ma anche la riottosità fino alla ribellione, la disponibilità ma anche la pigrizia, il desiderio di crescere ma anche la paura di crescere dei ragazzi. Tutto diventa strada, cammino: per chi guida esattamente come per l’ultimo arrivato.
[1] Studiando i vari stili nelle opere di falegnameria ed ebanistica (barocco, rococò, impero ecc.) alcuni ragazzi chiesero al professore come mai un falegname avesse ricevuto quel tipo di commesse, che implicavano spesso la creazione di nuovi strumenti di lavoro: quale visione della realtà avesse determinato una modificazione della domanda. Da qui siamo partiti per introdurre l’Illuminismo. L’efficacia di questa impostazione dipende dall’efficacia del metodo induttivo: dedurre lo stile Impero dalle opere di Kant è impossibile, mentre è possibile partire dallo stile Impero per risalire a Kant.