La costruzione di un nuovo paesaggio umano
L’Italia ha un’antica tradizione di emigrazione, tanto che esistono nel mondo numerose comunità di origine italiana, che hanno esportato tutta una serie di prodotti ormai riconoscibili e apprezzati per la loro qualità. L’arte, la lingua, la musica, la moda, la cucina, rappresentano ambiti in cui l’Italia, da nazione e da terra madre di emigranti, spesso poveri e disperati, è diventata un marchio quotato.
Da quando, però, è diventata, a sua volta, meta di immigrati, sembra aver perso la memoria e non riconoscersi più in quella straordinaria avventura sperimentata in lungo e in largo nei secoli e che potremmo definire viaggio.Il superamento del già noto e lo slancio verso l’ignoto, che il viaggio impone, è, a ben pensarci, una cifra caratteristica dell’umano in quanto tale, lo strumento che ha forgiato il nostro mondo[1] in ogni suo anfratto, anche il più nascosto.
E’ un paesaggio che, analogamente al contatto con il divino, contiene qualcosa di terribile. Nel viaggio si può trovare la morte o condizioni bestiali[2] di sopravvivenza, mentre si spera e si anela fortemente a un’altra vita, una vita in più, che magari azzeri quella precedente e convinca che vale la pena di rimanere a questo mondo. Nel viaggio tutti cercano un’opportunità, per cui la persona che, rinunciando al proprio habitat, lo affronta, gode di una condizione particolare, la ricerca.
E già al momento della partenza il viaggiatore incarna uno spirito di iniziativa che lo rende protagonista del suo tempo, sebbene talvolta si predisponga al cammino con la morte nel cuore.Nel paese di arrivo la popolazione autoctona entra in contatto semplicemente con il risultato finale di questo percorso e, a colpo d’occhio, ricava spesso l’immagine debole di chi arriva perché ha bisogno e non ha. Rispetto a questa supposta inferiorità specularmente si scatenano facili sensi di superiorità, generatori di etichette che falsificano la realtà.
Se ritorniamo, invece, alla fonte, e non cancelliamo la memoria del viaggio, possiamo agevolmente riconoscerci tutti nella condizione del pellegrino, fiducioso o scoraggiato che sia, ma sempre intento a rinvenire la terra sacra su cui spendere giorni riempiti di un valore aggiunto, quello più capace di futuro, non soltanto nel tempo presente e per i presenti, ma soprattutto in prospettiva futura e per coloro che verranno.
Nel vivere questa tensione l’emigrante è portatore di futuro, di vita, e anche di senso. Questo senso funge da scrigno e racchiude in sé una spiritualità tipica, intrecciata alla ricerca e al bisogno, e che può manifestarsi in sfumature che vanno dalla tenacia, e dal suo possibile risvolto di arroganza, alla più assoluta disponibilità ricoperta talvolta della cenere della sottomissione.
Le analisi di tipo antropologico e sociologico applicate criticamente al mondo plurale sono destinate perlopiù a incrociarsi nel nucleo tematico della convivenza. Emerge con urgenza la sfida proprio perché l’immigrato non è un soggetto passivo ma, al contrario, muove la società di approdo al cambiamento e alla novità. La società di arrivo è coinvolta così nel viaggio, pur non muovendosi fisicamente, ma mutando al mutare lento e regolare del paesaggio umano.
Anche la lingua accoglie suoni inediti, alcuni quartieri più di altri cambiano fisionomia, aprono locali pubblici dalle scritte esotiche, nuovi colori abitano le città, nuove richieste fanno il loro ingresso nella scuola, presso le mense, sui posti di lavoro, in politica, ai sindacati.
E’ legittimo supporre che l’evidenza del credo religioso, viepiù enfatizzata di questi tempi, sia implicata pure in un’esigenza connaturata al viaggio, il disporre di una bussola affidabile e senza confini prestabiliti in nome di convenzioni umane territoriali e politiche. Possono ritrovarsi più cariche che mai di potenziale.
Dall’incontro nella diversità religiosa può quindi scaturire la guerra oppure qualcosa di nuovo e originale, che costringe le singole fedi di partenza a specchiarsi, saggiando a fondo la grammatica relazionale, di cui dispongono e con cui si propongono.L’immigrazione degli ultimi decenni e del momento attuale ci porge su di un piatto d’argento la necessità di pensare nuovi metodi d’incontro e di dialogo, in cui le parti si plasmino nella forma di un ponte piuttosto che in quella più rozza e anonima del muro. L’immigrato generatore propositivo Se il viaggio, dal punto di vista di chi parte e da quello di chi accoglie, diventa la dimensione in cui si determina un paesaggio dalle sfumature nuove, ciò avviene in tempi relativamente veloci. Facilmente si ricava l’impressione della compresenza di gente appartenente a nazionalità, lingue, religioni diverse, anche solo passeggiando per strada.
E’ universalmente risaputo che i processi interiori, di rappresentazione simbolica della realtà, sono decisamente più lenti e assai meno scontati. L’illusione di chi pensa che ‘mondo è, mondo è stato e mondo sarà’ è dettata spesso dalla paura che predilige una lettura statica e prevedibile del reale. A una riflessione più approfondita risulta evidente l’ingenuità dell’assunto, in cui, però, fa comodo confidare, fin quando l’impatto con qualcosa o con qualcuno che presenti quella che ci appare come diversità non ci costringe a pensare diversamente.La presenza dell’immigrato, o, ancora meglio, di una comunità di immigrati, modificando il tessuto sociale, prospetta un ambiente umano nuovo, inducendo a scardinare convinzioni inveterate. Ad una concezione fissa, rigida e statica deve sostituirsi una flessibile e dinamica.Il confronto più problematico è apparentemente riguardo a faccende pubbliche e di interesse sociale. Focalizzando le questioni più da vicino, si prende coscienza, invece, del fatto che la presenza e l’incontro diretto con l’immigrato ci induce a superare barriere insite a un altro livello. Sul terreno della coscienza si gioca la sfida più spinosa, lanciata dai nuovi cittadini.
Ricettori apparentemente passivi, i membri immigrati della comunità civile propongono tacitamente un oltre della relazione e della condivisione, accessibile solo per il tramite dell’empatia.
Quanto più le società odierne riusciranno a creare condizioni atte a far restare sulla stessa lunghezza d’onda, tanto più questo aspetto implicito dell’immigrazione, potenzialmente molto positivo, potrà generare frutti insperati.Nei dibattiti pubblici spesso è concessa una certa attenzione a contenuti mancanti della conoscenza e ritenuti indispensabili nel dialogo. Ad esempio, quanto si sa dell’Islam o degli ebrei di oggi? Fino a che punto si conoscono le scuole di meditazione buddhista? La conoscenza dell’altro e della sua situazione di partenza rappresenta indubbiamente una risorsa importante. Da sola, però, potrebbe non essere sufficiente, o, in un caso peggiore, potrebbe ribaltarsi nel suo contrario, se pilotata da visioni affini all’ideologia.
Il contributo propositivo più importante dell’immigrato sembra essere, invece, a un livello precedente, nella disponibilità all’ascolto, sulle frequenze, talvolta quasi impercettibili, dei sentimenti che pervadono l’esistenza di chi lascia la propria terra, la propria casa, per andare incontro all’ignoto.La condivisone empatica può poi ampliarsi fino a conquistare una reciprocità a creare contemporaneamente uno spazio nuovo, comune, emotivo, che funga da terreno per la condivisione reale e la convivenza. Le difficoltà, i pregiudizi, le barriere inconsapevoli potrebbero affiorare solo in second’ordine, in successione, rispetto alla comunicazione delle emozioni.
E’ l’immigrato, e solo lui, a proporsi, magari inconsapevolmente, come agente propositivo di empatia, anche solo per il fatto di richiamare l’attenzione sul problema. L’immigrato come esempio di fede altra Minareti accanto a campanili, il velo nei luoghi pubblici, la legittimità o l’opportunità di un insegnamento confessionale nelle scuole pubbliche, il crocifisso esposto nei luoghi pubblici, ecc., sono oggetto di dibattito in Italia come in tutta Europa. Negli ultimi anni, infatti, l’imponenza del fenomeno immigratorio ha sollevato questioni nuove circa la convivenza di cittadini provenienti da zone geografiche diverse tra loro con in comune il luogo di convergenza, e di credenti appartenenti a diverse religioni e confessioni religiose. Da un certo punto di vista i flussi migratori hanno restituito centralità alla religione in sé e per sé, mentre hanno relativizzato le fedi. E queste ultime, dal canto loro, mostrano ora l’aggressività tipica di chi si sente minacciato e vede attaccata la propria pretesa di assolutezza, ora la necessità di ritornare in se stesse per risolvere problemi antichi e nuovi, per saggiare piste teologiche sconosciute, ma utili nel vissuto attuale, in cui la questione della salvezza richiede approfondimenti.
Negli ultimi anni stanno approdando in Italia quantità considerevoli di cristiani ortodossi e si stanno moltiplicando le possibilità di incontri ecumenici fra cristiani, di approfondimenti circa l’intercomunione[3], di condivisione dei luoghi di culto[4] per soddisfare le richieste spirituali dei fedeli ortodossi. L’immigrazione, col suo carico di problemi, pone però gli autoctoni nell’interesse e nella possibilità fattiva di attuare almeno alcune raccomandazioni della Charta Oecumenica[5].
Le fedi, per certi versi ridimensionate, si possono riscoprire come risorse concentrate a beneficio di una migliore salvaguardia del creato, di una comunicazione religiosa più rispettosa: auspichiamoci che la convivenza nella diversità ci stimoli ad una progressiva purificazione del nostro linguaggio, spesso disattento, impreciso, se non proprio arrogante, ignorante e offensivo rispetto al credo religioso altrui. Il giudizio frettoloso e poco fondato sui credenti appartenenti ad altre fedi, o, soprattutto, alle loro usanze, è pressoché onnipresente.
C’è qualcosa, però, di ancora più efficace nella costruzione di una cultura, di una mentalità: l’abitudine graduale a riconoscere credenti di appartenenze religiose diverse. E’ l’immigrazione ad aver consentito queste possibilità, aprendo una breccia nel monolitismo della consuetudine religiosa ordinaria.Espressioni particolarmente visibili come la preghiera islamica cinque volte al giorno, la posizione buddhista del loto, l’edificazione di templi di denominazione diversa dal consueto e il relativo dibattito, riaccendono l’interesse intorno a pratiche spirituali trasversali, come la preghiera in sé. L’immigrazione può diventare occasione di arricchimento della sonorità religiosa.
Anche la musica si lascia contaminare da ritmi e aree nuove da riversare nella liturgia in forme di preghiera meno strutturate e da indirizzare verso un valore fondante, l’ascesi, lo slancio verso l’Assoluto. Valori presenti nelle molecole di ogni credo, che rischiano di rimanere sopiti o di non sprigionare tutto il potenziale insito in loro, nel confronto imposto dal pluralismo, sono aiutati a emergere.Gli immigrati portatori di alterità religiosa interpellano le altre fedi per il fatto stesso di interpretare una declinazione del divino.Il nome di Dio si trova così invocato con più articolazioni linguistiche e mistiche, chiedendo di essere continuamente reinterpretato. Pur se inconsapevolmente, l’immigrato appartenente a una confessione religiosa di minoranza sul territorio, funge da modello di fede altra.Il credente medio, a prescindere dalla sua appartenenza, potrebbe vivere con indifferenza assoluta i cambiamenti del panorama religioso in cui si trova immerso[6]? In caso affermativo, questa totale indifferenza come potrebbe coniugarsi alla spiritualità propria della sua fede? Aprirsi all’altro e considerarlo come soggetto di fede a pieno titolo può diventare testimonianza della propria fede: la testimonianza alternativa serba in sé la capacità di generare la sospensione del giudizio, valorizzando i punti in comune. La convivenza fra le fedi può diventare la prova inoppugnabile dell’inconsistenza delle barriere.
Il musulmano che, ad esempio, chiedesse al suo datore di lavoro il permesso di alcune pause per pregare durante l’orario di lavoro, a prescindere dal riscontro della richiesta, richiamerebbe l’attenzione sul significato della fede in quanto tale. La sua presenza mette in atto l’abilità di chiunque a stimare il valore che egli assegna alla preghiera, senza sentirsi con ciò necessariamente indotti a diventare musulmani. Immigrazione e dialogo interreligioso L’attività ordinaria delle comunità religiose in un contesto pluralistico, in accoglienza della rivelazione divina o della spiritualità da cui sono state generate, s’identifica con il dialogo interreligioso. Non si tratta di un sentiero scontato né troppo facile, ma tanto indispensabile da valere la fatica della pazienza e dei tentativi che richiede.Le religioni non si pongono tutte allo stesso modo il problema dell’alterità religiosa e non è raro che, anche all’interno della stessa religione, convivano posizioni diverse a riguardo.
Ancora oggi può capitare che, in società non ancora raggiunte da un flusso rilevante di immigrati o ancora prive di comunità di immigrati al loro interno, trascurino la questione, non avvertendola come urgente.
Molte delle cose scritte possono sembrare utopistiche paragonate alle tensioni di una realtà molto spesso complessa, talvolta critica, dove non sempre si riescono a chiarire i termini del dialogo. L’immigrazione può configurarsi come fenomeno che crea la necessità, o, da un’altra angolatura, il tempo propizio ad affinare l’arte del dialogo e a cercare una conoscenza autentica finalizzata al vissuto, ben distinta dal sentito dire.La sfida e l’auspicio è che l’immigrazione, una volta valorizzata, possa rappresentare sempre di più un’opportunità di conoscenza e di dialogo in grado di generare l’ascolto capace di lasciar spazio all’autentico sentimento religioso, all’ascesi che slancia l’essere umano verso l’alto e verso l’altro e, di conseguenza, di immaginare forme di convivenza più rispettose dell’umano.
Ada Prisco
Docente di Storia delle Religioni, Facoltà Teologica Pugliese – Foggia
[1] Cf. Fernand Braudel, L’Europe, Art set métiers graphiques, Paris 1982, tr.it. L’Europa e gli europei, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 28.
[2] Sono recenti le immagini di tanti viaggi nel Mediterraneo. Pensiamo per esempio alle foto riprese, nel giugno 2013, sia dai quotidiani nazionali che da facebook riguardanti un gruppo di migranti aggrappati alle gabbie per la pesca del tonno. Pare che questo episodio abbia contribuito a motivare la visita a Lampedusa di papa Francesco.
[3] Cfr. Can 844, 3. Nel Direttorio Ecumenico, al n. 122, che cita, a sua volta UR 14-15, si legge: “Tra la Chiesa cattolica e le Chiese orientali esiste una comunione molto stretta nel campo della fede e quelle Chiese hanno veri sacramenti e soprattutto, in forza della successione apostolica, il sacerdozio e l’eucaristia (…) ciò, secondo la concezione della Chiesa cattolica, costituisce un fondamento ecclesiologico e sacramentale per permettere e perfino incoraggiare una certa condivisione con quelle Chiese… anche per quanto riguarda l’eucaristia, presentandosi opportune circostanze”.
[4] In applicazione di quanto raccomandato dal nuovo direttorio pubblicato nel 1993 a completamento del precedente richiesto durante il Concilio Ecumenico Vaticano II ed edito in due parti, nel 1967 e nel 1970. Vd. Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, Direttorio per l’applicazione dei principi e delle norme sull’ecumenismo. Al n. 137 del Nuovo Direttorio si legge: “Le chiese cattoliche sono edifici consacrati o benedetti, che hanno un importante significato teologico e liturgico per la comunità cattolica. Di conseguenza, sono generalmente riservate al culto cattolico. Tuttavia, se sacerdoti, ministri o comunità che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica non hanno un luogo, né gli oggetti liturgici necessari per celebrare degnamente le loro cerimonie religiose, il Vescovo diocesano può loro permettere di usare una chiesa o un edificio cattolico e anche prestar loro gli oggetti necessari per il loro culto. In circostanze analoghe può essere loro consentito di fare funerali o di celebrare ufficiature in cimiteri cattolici”. Si veda anche il Vademecum per la pastorale delle parrocchie cattoliche verso gli orientali non cattolici, 67-68.
[5] Firmata il 20 aprile 2001 a Strasburgo dai presidenti della CCEE (Conferenze Episcopali Europee) e della KEK (Conferenza delle Chiese Europee): tale Charta è un documento ufficiale comune alle Chiese d’Europa.
[6] Interessante a tal proposito è la riflessione del pastore presbiteriano Raafat Girgis, Un luogo di preghiera per tutti: il fondamento biblico per il ministero multiculturale, consultabile all’indirizzo http://www.fedevangelica.it/documenti/3/5701f893caab665563a0389601b791bc.pdf