Elemento connettivo tra sistema economico e vita concreta delle persone, il lavoro rimane snodo delicatissimo. Per i fortunati che hanno ancora un mestiere, esso continua a essere un pilastro esistenziale. Per tutti, avere o non avere un lavoro fa la differenza, non solo in termini di reddito, ma anche per sapere cosa si fa al mondo. Ancora oggi, attraverso il lavoro l’essere umano trova un modo concreto per esprimere le proprie capacità, misurarsi con la realtà, imparare a stare con gli altri, impegnarsi in vista di un risultato, dare il proprio contributo al bene comune. Al di là dei suoi aspetti problematici, il lavoro ci aiuta a essere pienamente umani.
Noi oggi ci troviamo in un momento storico in cui i livelli di disoccupazione hanno raggiunto livelli preoccupanti. E nel quale un’intera generazione di giovani rischia di essere sistematicamente esclusa. Di fronte a questa situazione, non si può far finta di niente.
Le ragioni di questo risultato così negativo sono tante. Ma, fondamentalmente, oggi si paga il conto di scelte sciagurate fatte negli anni passati, quando la dinamica espansiva della globalizzazione, trainata dalla deregulation e dalla finanziarizzazione, ha posto in discussione la centralità del lavoro raggiunta nella fase storica precedente. Una tendenza generale più o meno accentuata all’interno dei vari modelli nazionali. Oggi sappiamo che i paesi che hanno investito nella scuola e nella formazione, che hanno innovato il sistema delle relazioni industriali, che hanno fatto crescere la produttività complessiva, si trovano in una situazione migliore rispetto a quei paesi in cui si è scelta la strada facile dello sfruttamento della manodopera, della precarizzazione, dei bassi salari, del lavoro nero. Scegliendo nei fatti questa strada, l ‘Italia – o almeno buona parte di essa – ha finito per svalutare il lavoro a tutto vantaggio del consumo -a prescindere dalle forme di produzione del reddito – della rendita – che crea un reddito fittizio – e del profitto -con il formarsi di grandi ingiustizie sociali e la riduzione della quota di profitti reinvestiti.Il risultato è che oggi la disoccupazione giovanile è oltre il 35%, il tasso di disoccupazione attorno al 9% a cui si deve però aggiungere il 12% di scoraggiati – dato che non ha eguali in Europa.
Sia chiaro: in un’economia avanzata, i nuovi posti di lavoro possono venire creati solo a condizione di creare valore. Il che significa tornare a investire credendo nel futuro scommettendo sulle capacità personali, la formazione, la ricerca, l’innovazione. Con coraggio e determinazione. Esattamente quello che l’Italia ha smesso di fare da anni: in una situazione politica priva di qualunque razionalità, l’Italia si è fermata proprio nel momento in cui entrava nell’euro. La crisi finanziaria ha poi fatto saltare gli equilibri precari che erano stati costruiti negli anni precedenti, facendo sprofondare il paese – e soprattutto chi ci vive e ci lavora – nella situazione in cui oggi si trova.
Per invertire la rotta non basta invocare i pur necessari interventi di razionalizzazione e efficientizzazione. I posti di lavoro perduti in questi anni non potranno essere ricostituiti solo recuperando efficienza. Per risolvere il problema è necessario fare di più: tornare a considerare proprio il lavoro la fonte originaria su cui si basa la legittimazione stessa del sistema economico, invertendo così la deriva degli ultimi decenni.
Non si tratta di creare posti di lavoro fittizi. I trucchi in questo campo non funzionano, come ha dimostrato l’infelice esperienza dei lavori socialmente utili. E tuttavia, dato che rimane fondamentale per la vita delle persone, il lavoro non può essere trattato come una mera variabile dipendente. La creazione di posti di lavoro è il risultato di un’azione caparbia e corale che punta ad allargare la capacità produttiva, ad aumentare la produttività di sistema, a ridurre gli sprechi, a sviluppare nuove campi per l’attività economica, a elevare la qualità del sistema formativo.
Sappiamo altresì che, per riequilibrare la situazione, ci vorrà tempo. Non settimane, non mesi, ma anni. E, data la gravità della situazione, non ci si può limitare a dire a chi è senza lavoro di avere pazienza. Occorre agire fin da subito individuando interventi che alleggeriscano la sofferenza umana e sociale.La prima pista d’azione tocca il piano europeo. Com’è ormai evidente, le politiche dell’austerity da sole non solo non hanno risolto il problema, ma lo hanno aggravato. Occorre dunque rapidamente ottenere dall’Europa un cambio di rotta che punti ad affrontare la questione occupazionale introducendo una maggiore flessibilità di bilancio per rendere possibile una stagione di investimenti pubblici.La seconda pista riguarda la distribuzione del reddito e delle risorse, distribuzione che oggi è fortemente sbilanciata a favore di pochi e della rendita (di varia natura). Il tempo in cui si poteva pensare di vivere ognuno per se è finito. Occorre tornare a premiare chi investe nella comunità e nel suo sviluppo e, insieme, chi lavora e produce ricchezza. Tutte le risorse disponibili devono essere messe in campo per sostenere il lavoro e chi non ce l’ha. Nessuno può pensare di sottrarsi a questo imperativo.La terza pista ha a che fare con le azioni per sostenere i disoccupati. Non si può lasciare solo chi è disoccupato o inoccupato. Il lavoro non è mai un affare solo personale, ma è sempre anche una questione sociale. In effetti, è singolare che per un tema così importante la nostra società avanzata sia così sprovveduta. Nel cercare e nell’offrire lavoro, ognuno si deve arrangiare per sè.
Cambiare la situazione significa creare una rete non burocratica di servizi che accolga e accompagni chi è senza lavoro. Oltre a ciò occorre una legislazione più favorevole all’inserimento delle nuove generazioni, con contratti che non istituzionalizzino la precarietà, ma che, attraverso una ragionevole verifica delle capacità, facilitino l’inserimento dei giovani. Infine, occorre decidersi a modificare il carico fiscale che grava sul lavoro e a riorganizzare i percorsi scolastici, riducendo la distanza siderale che esiste tra il mondo della scuola e quello delle imprese. In sostanza, si tratta di cambiare passo. A partire da una ritrovata capacità a mettersi insieme per creare lavoro. Come insegna il caso di Padova, che costituisce un modello positivo che dice che, unendo le forze, si può fare tanto.
C’è dunque moltissimo da fare. Per farcela, occorre tornare a mettere al centro della nostra economia e della nostra società il lavoro, cioè le persone, le loro capacità, le loro qualità. L’esempio di Padova ci indica la strada: il lavoro è un problema di tutti e richiede l’impegno di tutti. Generosamente, cioè generativamente.