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La centralità del lavoro

di Giovanna Fullin

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“Permettere al meccanismo di mercato di essere l’unico elemento direttivo del destino degli esseri umani e del loro ambiente naturale e perfino della quantità e dell’impiego del potere d’acquisto porterebbe alla demolizione della società. Le presunta merce “forza lavoro” non può infatti essere fatta circolare, usata indiscriminatamente e neanche lasciata priva di impiego, senza influire anche sull’individuo umano che risulta essere il portatore di questa merce particolare. Nel disporre della forza lavoro di un uomo, il sistema disporrebbe tra l’altro dell’entità fisica, psicologica e morale dell’uomo che si collega a questa etichetta”.

Karl Polanyi, La grande trasformazione, 1944 Data la vastità e la complessità del tema – che emerge chiaramente dalle parole di Karl Polanyi appena citate – scrivere un’introduzione al tema del lavoro che punti ad essere esaustiva, o almeno a toccare tutti gli aspetti importanti connessi alla questione, sarebbe un’impresa ardua e per certi versi anche poco sensata. Comincerò, quindi, dichiarando cosa rimane fuori da queste pagine. Ci lasceremo alle spalle, non entrando nel merito, l’analisi dei diversi significati della parola lavoro cui si connette la distinzione di Hannah Arendt tra lavoro, opera e azione richiamata in altra parte di questo sito o quella tra attività lavorative svolte nell’ambito dell’economia sostanziale e nell’ambito, più ristretto, dell’economia formale.

L’attenzione si focalizzerà sul lavoro inteso come occupazione, ovvero come attività retribuita, con l’obiettivo di mettere in luce che cosa essa rappresenti nella vita delle persone. Anche riguardo a questo tema, non entreremo nell’ampio dibattito relativo alla perdita o meno di centralità del lavoro nella società contemporanea (che la si voglia definire postindustriale o post moderna), partendo dal presupposto che, nonostante la diversificazione e la precarizzazione di molte esperienze lavorative, nonostante le trasformazioni profonde nei contenuti e nei modi di lavorare connesse alla terziarizzazione, la frammentazione e la destrutturazione di molti percorsi lavorativo/professionali, il lavoro rimanga un aspetto centrale della vita degli individui, oltre che un elemento chiave della strutturazione delle diseguaglianze sociali ed economiche. Vediamo come.

Per chi ha un impiego a tempo pieno, innanzitutto, l’attività lavorativa riempie una quota molto consistente del tempo di vita e influisce anche su parte di quello restante vincolando spostamenti, relazioni con i famigliari, attività nel tempo libero ecc. Per questo motivo la qualità del lavoro è strettamente connessa alla qualità della vita delle persone, in quanto lo stress, così come le soddisfazioni, le relazioni sociali, i riconoscimenti derivanti dall’attività lavorativa sono stati ormai riconosciuti come elementi essenziali del benessere individuale (http://www.misuredelbenessere.it/).

Ma, ben oltre questo, il lavoro costituisce una delle sfere più importanti su cui gli individui fondano la definizione della loro identità (Simmel, 1989, ed. or. 1908) e un elemento essenziale cui è generalmente ancorata la nostra posizione sociale. Il lavoro che un individuo svolge, pertanto, nella stragrande maggioranza dei casi, costituisce non solo un riferimento importante per costruire la sua immagine di sé ma anche, contemporaneamente, per definire il suo posto all’interno della società. Lo svolgimento di un’attività lavorativa con orario ridotto o in modo saltuario, la precarietà del contratto, il sovrapporsi e il concatenarsi di attività diverse nei percorsi lavorativi delle persone possono rendere più debole e più complessa la relazione tra lavoro svolto e definizione dell’identità, ma comunque non la eliminano. Dall’occupazione, inoltre, quando è svolta in modo regolare, derivano diritti e tutele.

Ciò è particolarmente rilevante, in Italia, per coloro che sono nati nei paesi non appartenenti all’Unione Europea, i quali hanno bisogno di un contratto di lavoro regolare per avere accesso al permesso di soggiorno e, di conseguenza, alle dimensioni principali della cittadinanza.L’attività lavorativa, infine, costituisce per la stragrande maggioranza degli occupati, la fonte principale di reddito, aspetto che in molti casi viene sottolineato come fondamentale e che, invece, citiamo solo a chiusura di questo breve elenco. Il nostro intento, ovviamente, non è quello di negare la rilevanza di questa caratteristica del lavoro – quale fonte della sussistenza o, marxianamente, mezzo per la riproduzione sociale dei lavoratori – ma di mettere in luce come ad essa vadano accompagnandosi altre dimensioni altrettanto importanti, non solo dal punto di vista analitico, ma dal punto di vista sostanziale, relativo al posto che l’attività lavorativa occupa nella vita degli individui.

La recente crisi economica ha messo sotto tensione il mercato del lavoro italiano, determinando un aumento consistente – seppur più lento che in altri paesi – del tasso di disoccupazione, che è passato da 6.7% del 2008 al 10.4% del 2012. Si può quindi partire dalla situazione attuale per sviluppare alcune riflessioni su cosa accade quando il lavoro viene a mancare o diviene, soprattutto per alcuni, una risorsa scarsa. Il rischio di perdere il lavoro e/o di rimanere alla ricerca di un impiego senza trovarlo si distribuisce in modo diseguale sulla popolazione e sul territorio. La crescita del tasso di disoccupazione, infatti, si è mostrata particolarmente accentuata nelle regioni meridionali – dove il livello già elevato del 2008 (10% per gli uomini, 15.7% per le donne) nel 2012 ha superato quota 15% per gli uomini e 18%per le donne – e ha riguardato in modo particolarmente drammatico i giovani: se nel 2008, infatti, il tasso di disoccupazione dei 20-24enni era pari a 18,4%, nel 2012 era arrivato a superare il 30%Ma questi dati, che rimbalzano periodicamente sulle pagine dei giornali, sono ormai abbastanza noti tanto che la crisi economica viene generalmente associata al problema della mancanza di lavoro e delle conseguenze economiche che questa comporta per molte famiglie.

Ciò su cui vale la pena soffermarsi – perché non è scontato – è il diverso impatto che la mancanza di lavoro può avere sulla vita delle persone, a seconda delle loro caratteristiche individuali e famigliari. In alcuni casi, le conseguenze della perdita o della mancanza di un impiego sembrano ben visibili e assumono i lineamenti di problemi sociali – su cui si cerca di intervenire con politiche ad hoc – mentre in altri casi tali conseguenze vengono incluse tra le esternalità negative di ordine minore, nonostante spesso i costi sociali e personali siano comunque molto elevati.Procedendo schematicamente si possono individuare alcuni segmenti della forza lavoro che sono particolarmente colpiti dal rischio di perdere e/o di non trovare lavoro a causa della crisi economica.

Il primo gruppo è quello dei lavoratori adulti che avevano un impiego stabile e lo hanno perso. Su questi soggetti si concentra molto del dibattito pubblico e delle misure di politica che sono state adottate negli ultimi anni per far fronte all’emergenza occupazione – si veda il ricorso ai diversi schemi di cassa integrazione guadagni (CIG), all’introduzione della CIG in deroga, ai contratti di solidarietà, alle forme di accompagnamento alla pensione e alla mobilità – sia perché la chiusura di alcune aziende suscita proteste e guadagna così gli onori della cronaca (soprattutto quando si tratta di imprese di grandi dimensioni), sia perché si tratta spesso di casi in cui la crisi economica mette in discussione in qualche modo il perno centrale del modello occupazionale italiano, ovvero il ruolo del capofamiglia (maschio) con un lavoro a tempo indeterminato che, in qualità di breadwinner, fino ad oggi aveva il ruolo di garantire agli altri membri del nucleo famigliare una certa sicurezza economica rispetto alla loro eventuale instabilità occupazionale o alla scelta di rimanere inattivi.

Per questo motivo, l’uso degli ammortizzatori sociali è stato prevalentemente mirato a risolvere il problema della protezione economica, mentre sono rimasti in secondo piano altri aspetti critici della perdita del lavoro, che porta con sé l’indebolimento di molte delle relazioni sociali che sono legate all’ambiente lavorativo, pone problemi rilevanti di ricostruzione del senso di sè, soprattutto per coloro (prevalentemente uomini) che facevano del lavoro il perno della propria identità e del proprio ruolo all’interno del nucleo famigliare e costringe a ripensare la strutturazione del vivere quotidiano, generalmente scandito dai tempi della vita lavorativa. Nella situazione attuale si tende a guardare a questi aspetti come collaterali ma non si deve dimenticare che essi rappresentano, invece, parti essenziali dell’esperienza lavorativa.

Il secondo gruppo su cui è utile concentrare l’attenzione è costituito dai giovani al primo ingresso nel mercato del lavoro, il cui tasso di disoccupazione – già di molto superiore alla media europea – negli ultimi anni è letteralmente esploso. Sebbene la questione giovanile sia spesso citata come uno dei problemi della società italiana, in realtà nel dibattito pubblico la mancanza di lavoro per le generazioni che si stanno affacciando ora sul mercato non assume i connotati di una vera emergenza sociale. La stessa cosa si può dire per la crescente precarizzazione delle condizioni di impiego che colpisce in particolar modo i giovani ma, spesso dipinta come conseguenza inevitabile della flessibilizzazione del mercato del lavoro e come fase transitoria nei loro percorsi occupazionali, non pare suscitare particolare apprensione. Per motivazioni analoghe poco o nulla è stato fatto, negli ultimi anni, in termini di politiche a sostegno dell’occupazione giovanile.

Vero è che la mancanza di un impiego per i giovani da poco usciti dal sistema formativo incide solo superficialmente sul processo di definizione della loro identità, che è in una fase di formazione e che può rimanere ancorata al ruolo di figli o giocarsi un ritorno a quello di studenti prolungando la formazione in modo più o meno mirato (corsi ad hoc, iscrizione all’università per i neo-diplomati, iscrizione a master e lauree specialistiche per i neo-laureati). Nel contesto italiano la lunga permanenza nel nucleo famigliare di origine – che vede circa il 60% dei giovani italiani tra i 18 e i 34 anni vivere ancora nella casa dei genitori, contro una media europea che si aggira attorno al 30% (Rosina, Billari e Livi Bacci, 2006) – ha il duplice ruolo di sostenere economicamente questi ultimi durante la ricerca di un lavoro e di renderli meno fragili degli adulti di fronte alla mancanza prolungata di un impiego, se non altro dal punto di vista della definizione dell’identità.

Tuttavia, il ruolo di ammortizzatore sociale svolto dalla famiglia ha dei risvolti rischiosi che con la crisi economica risultano ancora più evidenti. In primo luogo, l’attesa per l’ingresso nel mercato del lavoro, se troppo prolungata, determina in molti casi il posponimento di alcune scelte importanti, quali quella di sposarsi e fare dei figli, oltre che la temporanea rinuncia all’autonomia abitativa. Inoltre, e questo vale sia per i giovani che, in misura diversa, per le donne adulte, la temporanea e parziale riduzione dell’incentivo a trovare un impiego determina, in alcuni casi, fenomeni di scoraggiamento che possiamo leggere sia nei dati sul numero crescente di giovani “neet” (Cnel-Istat, 2013, Eurofound, 2012) – Not in Education, Employment or Training, ovvero ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano, non sono in formazione e non cercano un lavoro – sia nelle stime relative al tasso di disoccupazione allargato a includere la “mancata partecipazione al lavoro” elaborato di recente da Pintaldi e Reyneri (in corso di pubb.) che, per la fascia d’età dei 20-24enni, sarebbe cresciuto dal 33.6 del 2008 al 45.3% del 2012.

Quest’ultimo dato, che desta sicuramente preoccupazione, va preso con le dovute cautele perché, data l’alta propensione a proseguire gli studi e quindi rimanere inattivi, si traduce in un numero abbastanza esiguo di giovani disoccupati. Risulta più critico dal punto di vista sociale il più ridotto tasso di disoccupazione dei 25-34enni (23.6 se si considera anche la mancata partecipazione), che corrisponde però ad un numero molto più elevato di giovani che vorrebbero lavorare ma che non hanno un impiego e che spesso sono senza alcun sostegno famigliare e in molti casi con figli piccoli a carico. Un terzo segmento della forza lavoro su cui è utile soffermarsi sono le donne adulte, le quali hanno corso meno rischi dei coetanei maschi di perdere il lavoro, grazie al fatto che svolgono prevalentemente attività terziarie che hanno risentito meno della crisi economica rispetto a quelle industriali. Sulla base del modello di welfare incentrato sulla figura del male breadwinner citato in precedenza, la mancanza di lavoro per le donne che hanno un partner dovrebbe avere conseguenze meno gravi, sia dal punto di vista economico che da quello della definizione dell’identità, soprattutto quando quest’ultima può essere in qualche modo legata all’attività di cura svolta quasi esclusivamente dalle donne, per figli piccoli o per gli anziani appartenenti al nucleo famigliare.

Non bisogna dimenticare, tuttavia, che la partecipazione femminile al mercato del lavoro in Italia continua ad essere molto inferiore a quella degli altri paesi europei (Sabbadini, 2010), e che il fenomeno dello scoraggiamento era già evidente per le donne meridionali ben prima della crisi (Reyneri, 2011) e pare estendersi a tutto il territorio nazionale nei primi anni della crisi. In un primo momento, pertanto, sembrava che le difficoltà crescenti a trovare un lavoro avessero arrestato il lento e faticoso processo di crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro. In realtà, un’analisi più attenta dei dati (Pintaldi e Reyneri, in corso di pubb.) mette in luce come, nell’ultimo anno, l’acuirsi delle difficoltà economiche abbia spinto un maggior numero di donne a mettersi alla ricerca attiva di un’occupazione, invece di lasciarsi scoraggiare da un mercato del lavoro dove le opportunità di impiego paiono sempre più scarse. La crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro registrata nell’ultimo anno, pertanto, nello scenario attuale, più che un segnale di sviluppo economico e sociale può essere interpretato come la conferma della crucialità della dimensione economica nelle scelte lavorative delle persone.

Questa breve panoramica, infine, non può che concludersi con un riferimento ad un segmento della forza lavoro che ha subito pesantemente le conseguenze della crisi economica, ma la cui condizione non viene generalmente considerata “critica”: gli immigrati. Nonostante molti lavoratori stranieri che lavoravano nelle costruzioni o nelle piccole imprese manifatturiere delle regioni centro settentrionali abbiano perso il lavoro, nonostante l’impossibilità, per molti di questi, di ricorrere alla protezione della famiglia nei periodi di disoccupazione, l’idea che gli immigrati siano ospiti temporanei cui si concede il permesso di entrare e rimanere in Italia solo e condizionatamente al fatto che siano necessari per soddisfare la domanda di lavoro, porta a mettere in secondo piano i problemi – gravissimi – che essi devono affrontare quando rimangono disoccupati. Al contrario, non bisogna dimenticare che, per questo gruppo, il ritrovarsi senza un lavoro implica rischiare di perdere il permesso di soggiorno e, con esso, la possibilità di rimanere nell’economia regolare e di accedere alle tutele e ai diritti di cittadinanza di base. Si potrebbe obiettare richiamando la possibilità che molti di questi immigrati hanno di ritornare nel paese di origine, dove le reti sociali sono più dense e i costi per garantirsi la sopravvivenza sono inferiori. Si potrebbe anche sostenere che, grazie al mantenimento dei legami con il paese di origine, molti immigrati possono ancorare la definizione della propria identità al contesto di partenza, vivendo in modo meno problematico la condizione di disoccupati.

Dall’altra parte, però, recenti ricerche (Fullin e Reyneri, 2013) hanno mostrato che molti immigrati, di fronte alle difficoltà economiche derivanti dalla crisi, non ritornano nel paese di origine, perché ciò significherebbe rinunciare al proprio progetto di insediamento nella società ospite, ma riducono pesantemente i propri consumi (magari abbandonando l’abitazione in affitto e costringendosi alla convivenza con altri connazionali), pospongono i ricongiungimenti famigliari e spingono i parenti che sono già arrivati a ritornare nel paese di origine. Tendono inoltre a spostarsi sul territorio italiano in cerca di opportunità di impiego, a volte costretti dalle necessità a ripercorrere all’indietro le tappe del proprio percorso lavorativo e di integrazione nella società di arrivo, fino ad accettare di svolgere attività pesantissime, poco pagate e irregolari in agricoltura e nel commercio ambulante. Questo regresso ha conseguenze molto pesanti in termini di vissuto e di costruzione dell’identità, in quanto significa rinunciare alle pur piccole conquiste, ottenute faticosamente, in termini di integrazione e di mobilità sociale ascendente, che il contesto italiano rende accessibili alla forza lavoro immigrata. Anche quest’ultimo caso – estremo per certi versi – non fa che mettere in luce come, con modalità e significati diversi, l’esperienza lavorativa sia un aspetto centrale nella vita delle persone.

Giovanna Fullin

Bibliografia

Cnel-Istat (2013), Rapporto Bes 2013: il benessere equo e sostenibile in Italia, http://www.istat.it/it/archivio/84348Eurofound – European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, (2012), Recent policy developments related to those not in employment, education and training (NEETs) http://www.eurofound.europa.eu/emcc/erm/studies/tn1109042s/index.htmFullin G. e Reyneri E. (2013), (a cura di), numero monografico della rivista Mondi Migranti, n.1, giugno, Franco Angeli.Pintaldi F. e Reyneri E. (in corso di pubblicazione), Dieci domande su un mercato del lavoro in crisi, Il Mulino, Bologna.Reyneri E. (2011), Sociologia del Mercato del Lavoro, Il Mulino, Bologna.Rosina A., Billari F., Livi Bacci M. (2006), Famiglia e figli, in Fondazione Giovanni Agnelli, Generazioni, famiglie e migrazioni. Pensando all’Italia di domani, Edizioni Fondazione Giovanni Agnelli, Torino.Sabbadini L.L. (2010), Partecipazione delle donne alla vita economica e sociale, Audizione del Direttore Centrale per le indagini su condizioni e qualità della vita, Commissione Lavoro, previdenza sociale Senato della Repubblica, http://www.istat.it/it/archivio/8102.Simmel G. (1989, ed. or. 1908), Sociologia, Comunità, Milano.

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