L'affermazione secondo la quale «non c'è futuro senza memoria» è così spesso ripetuta, da tutti e in ogni occasione, che la sua lapalissiana certezza rischia di non far intendere l'altra più inquietante verità che la società dei consumi, nelle sue pratiche e nei suoi comportamenti, non si stanca di proporre: «affinché ci sia futuro e necessario che non ci sia memoria». Proviamo a capire perché.Innanzitutto, il consumismo ha dimostrato di conoscere a fondo il segreto che attesta come tutti i gesti umani, compresi quelli apparentemente banali connessi al consumo, siano abitati da fantasmi. In effetti il soggetto, vale a dire quell'individuo vivente che oltre ad essere costituito da bisogni (come ogni altro vivente) è anche abitato dal desiderio, ha sempre a che fare con i fantasmi; a tale riguardo Lacan ha assolutamente ragione quando afferma che «il soggetto come tale si situa come determinato dal fantasma». Certo, l'uomo consuma oggetti e cose, ma per farlo continuare a consumare, soprattutto per farlo consumare in eccesso, è necessario che attorno a questi oggetti e cose si coagulino dei fantasmi. L'oggetto deve essere pertanto «vestito», sottoposto ad una «investitura», deve essere presentato in modo tale da farlo percepire come desiderabile, come qualcosa che coinvolge il ed è coinvolto dal desiderio: l'oggetto deve essere trasformato in un desiderabile, o se si preferisce: l'oggetto da consumare e da far consumare deve sempre essere «prodotto» come desiderabile, e per raggiungere tale obiettivo esso deve essere sottoposto ad un particolare processo di fantasmatizzazione. A livello umano, infatti, non si vendono e non si consumano mai semplici oggetti o meri enti di natura, ma sempre e solo «prodotti», e quest'ultimi non sono altro che forme di risposte al desiderio: a livello del soggetto, anche quando si tratta del bisogno, in verità si ha sempre a che fare con il desiderio.
Riconoscendo questo segreto, il consumismo ha dimostrato non solo di essere ben consapevole della necessità di dover fantasmizzare l'oggetto (ecco la legge a cui esso sempre obbedisce: per vendere e far consumare oggetti bisogna in verità produrre e proporre fantasmi), ma ha anche saputo elaborare, a partire da tale consapevolezza, un sapere estremamente sofisticato su come fare per fantasmizzarlo.
E' per questa profonda ragione che non c'è e non potrà mai esserci consumismo senza pubblicità: trasformare un oggetto – che come tale è sempre e solo un semplice oggetto: si tratta del valore d'uso di cui parla Marx – nella risposta al desiderio del soggetto, o meglio: riuscire a far percepire un oggetto come la risposta al desiderio del soggetto, non è affatto un'operazione facile. La costruzione della «desiderabilità» impone infatti sempre un duplice delicato intervento: è necessario innanzitutto che l'oggetto sia presentato al soggetto come «l'unico», è necessario ch'esso venga configurato, ch'esso venga elevato (si tratta dell'ergersi di un idolo/fallo) come il solo in grado di colmare la mancanza che lo inquieta dal fondo del suo stesso desiderio: «ciò che cerchi è questo, è solo questo; tu ancora non lo sai – e infatti è proprio di un non sapere che inevitabilmente si tratta a livello del desiderio -, ma questo, e solo questo, è la risposta».
In estrema sintesi: «Stai attento, non perdere l'occasione, cogli l'attimo (sono le parole d'ordine sulle quali si fonda ogni messaggio pubblicitario): mangia la mela è diventerai come Dio». In secondo luogo è necessario che tale presentazione, che questa «elevazione» fallica o «configurazione» fantasmatica dell'oggetto, sia insistentemente riproposta al soggetto: bisogna fare di tutto per convincerlo del carattere accidentale del suo non sapere e della sua mancanza: dato che c'è un «buco», una «frattura», una «apertura», cioè un desiderio, ecco che allora bisogna ingegnarsi per fargli credere che ci sarà di sicuro qualcosa, in particolare quel determinato oggetto/prodotto, in grado di colmare il buco e ricomporre la frattura. Non si deve dunque perder tempo, il che significa soprattutto che non si deve dar tregua al soggetto: non bisogna esitare un istante nel sottolineare la sua mancanza (è evidente: sei un mancante) e contemporaneamente non bisogna esitare un istante nel proporgli il prodotto/fantasma in grado di colmarla (è evidente: la tua mancanza coincide con l’assenza di una determinata cosa, precisamente con «questa cosa»).
Scopo della pubblicità è dunque quello di produrre ed imporre un certo sapere proprio laddove si agita il non sapere del soggetto: «tu non sai che cosa desideri, io sì; io do un nome a quella mancanza rispetto alla quale tu, non avendo alcun sapere, non sai mai cosa fare; io do un nome a ciò che tu desideri senza saperlo, e proprio per questo mi sento autorizzata a dirti come dovrai comportarti». Per tutte queste ragioni la pubblicità non può che essere martellante.In secondo luogo il consumismo, esperto in fantasmi, non ha mai negato l'evidente inconsistenza dei suoi singoli prodotti, ma proprio per questo è arrivato ad elaborare un altro sapere, altrettanto sofisticato come quello precedente, su come tentare di porvi rimedio. Il fantasma, si diceva, è un punto di appoggio e di sostegno destinato a svanire e a venire meno: ogni fantasma, sostegno del desiderio umano, prima o poi cede e si dissolve.
Tuttavia, quando ciò accadrà, sarà sempre possibile appoggiarsi su un altro fantasma acquietandosi nel godimento provvisorio ch'esso è comunque in grado di garantire: in verità il dissolversi di un singolo fantasma non compromette affatto il processo di produzione dei fantasmi, essendo invece proprio ciò che lo alimenta. Una tale logica ha trovato nel consumismo la condizione storica per eccellenza per potersi affermare. In effetti, si pensi all'esperienza del collezionista, per un certo periodo il possesso di un determinato prodotto (la lettera mancante alla propria collezione: oggetto fantasmizzato) permette al soggetto di godere e di conseguenza di compiere un certa esperienza di pienezza d'essere (ego), quando poi tale esperienza si esaurirà sarà sempre possibile concentrarsi su un altro prodotto (iniziare una nuova collezione) che per un altro certo periodo rappresenterà il nuovo punto d'appoggio, e così via.
La dimensione dell'effimero, propria del consumismo, si accompagna in tal modo con una sorta di ebbra attività produttiva: più i prodotti sono effimeri più bisognerà produrre nuovi prodotti, ma anche: per continuare a produrre sempre nuovi prodotti e necessario produrre prodotti sempre più effimeri.
Da questo punto di vista il consumismo, rendendo estremamente facile ed economica la sostituzione di un prodotto con un altro (estrema diversificazione dei prodotti, costante abbassamento del loro prezzo), si configura come il luogo ideale all'interno del quale la pulsione a godere è libera di esprimersi senza limiti: ogni prodotto viene enfatizzato come «l'unico», «lo splendente», ma nel momento stesso in cui esso viene così presentato si è già pronti a sostituirlo con un altro prodotto «unico», ancora più «splendente». Al legame consumismo-pubblicità (trasformazione di un mero oggetto in un prodotto desiderabile) è necessario ora affiancare il legame consumismo-innovazione tecnologica (necessità di produrre in breve tempo sempre nuovi prodotti).
Si diceva: non c'è e non potrà mai esserci consumismo senza pubblicità; ora bisogna aggiungere: non c'è e non potrà mai esserci consumismo senza industria, vale a dire senza quella tecnologia che permette di produrre, in grande quantità e in breve tempo, una molteplicità di oggetti di consumo sempre nuovi e soprattutto a costi sempre più bassi. La pulsione a godere, che si traduce nella pulsione a consumare, sollecita così quella pulsione a produrre che a sua volta è causa ed effetto della continua innovazione tecnologica. Si impone a questo livello un secondo importante punto di contatto con la pratica idolatrica; oltre alla «lucentezza» c'è infatti la «sostituibilità»: ogni idolo, pur essendo sfavillante, prima o poi si opacizza e cade, ma al tempo stesso ogni idolo caduto potrà sempre essere sostituito da un nuovo idolo ancora più lucente, e così via. E' per questa ragione che l'idolatria è per sua stessa natura politeista, così come lo è il consumismo la cui parola d'ordine, in fondo, non è altro che questa: «bisogna vendere tutto, bisogna vendere a tutti, ma soprattutto tutti devono consumare». Non è certo il consumismo ad aver inventato l'idolatria, ma esso ha certamente facilitato come mai prima il diffondersi di una simile pratica: la frequente sostituzione e il moltiplicarsi dei punti di sostegno al proprio desiderio è divenuta nella nostra società un'esperienza quotidiana per intere masse, un'esperienza estremamente facile da realizzarsi anche perché poco costosa.
Forse, per tutte queste ragioni, non è assurdo intravedere nel consumismo una sorta di idolatria per le masse a basso costo.Che cosa c'entra tutto questo con il futuro e soprattutto con la memoria come sua radice? Sulla base della breve analisi proposta non è difficile comprendere come il consumismo esiga un soggetto centrato solo sul presente, dato che quest'ultimo è proprio il tempo del godimento e di conseguenza del consumo che lo garantisce (anche se solo momentaneamente). Si tratta precisamente di distrarre il soggetto dalla memoria del fallimento della pratica di consumo in quanto tale per far concentrare tutta la sua attenzione solo sul fallimento dell'ultimo oggetto consumato: non è il consumare in quanto tale ad essere inadeguato al desiderio, così si dice, ma solo l'ultimo oggetto, che non era ancora quello «giusto», come invece lo sarà certamente il prossimo. In altre parole è necessario che il soggetto non accumuli un'esperienza ed anzi sia liberato da essa in modo che gli possa continuare a far credere di essere vicino alla futura felicità.
E' dunque «giusto» che il soggetto non si attardi e non si interroghi sui fallimenti precedenti (sulla continua caduta dei precedenti idoli), è «giusto» ch'egli non cerchi di stabilire dei nessi tra il tradimento delle precedenti promesse e le nuove promesse che non cessano di raggiungerlo, che lo vogliono raggiungere come se fosse sempre «la prima volta»: eterno e patologico peterpanismo di un uomo che vivendo costantemente in «sorvolo», secondo la bella espressione dimerleau-Ponty, non si cala nella «carne» e non diventa mai adulto. Il consumatore perfetto è pertanto quel soggetto che crede solo nei suoi bisogni e non ha alcuna fede nel proprio desiderio, e per giungere a questa condizione non c'è nulla di meglio che banalizzare ogni tipo di legame, ridicolizzare la sua memoria e asciugarne l'esperienza fino al punto di trasformarla in una mera successione di sensazioni: non pensare, non pensarci, fallo e basta, chiama ora e compra.
In uno dei passaggi più drammatici di Timidezza e dignità il grande scrittore norvegese Dag Solstag scrive: «Diceva che si trattava di capire il vero e proprio fascino che ci attira verso la tenebra che è il capitalismo, inteso da un punto di vista intellettuale, ma che viene percepito come lustro, luccichio e splendore, cosa che il capitalismo in realtà è anche, se solo apri gli occhi e guardi. Lucente, luccicante, sfavillante, pensa alle metropoli (…) egli aveva visto con i suoi occhi come le masse povere affluivano nella grande città, incantante dalla possibilità di vivere proprio lì. Lasciavano la grigia e povera quotidianità del contado per una disperata esistenza da baraccopoli alla periferia delle metropoli, e non volevano mai andare via di lì. Erano stati meglio nei luoghi di provenienza, ma andavano nelle metropoli e vi si aggrappavano. Perché? Il fascino. Il fascino di essere contemporanei alle grandi automobili, i programmi televisivi, i ristoranti esclusivi, le code del traffico, le luci della pubblicità dei cinema, le lotterie, le ville di lusso dietro alle mura, con le guardie armate ai cancelli. La fame poteva torcere gli intestini, ma il fatto di essere contemporanei al programma televisivo te la fa dimenticare»[1].
Non dimentichiamo, anche se spesso nel ricordare è anche la fame che si ricorda. Tuttavia bisogna cercare di essere seri riconoscendo che la più sicura alternativa alla deriva distruttiva del consumismo non è affatto rappresentata dal sogno romantico di una fuga dall'economia e dalla società dei consumi, e neppure dalla fin troppo lodata «finanza etica», quanto piuttosto da un uomo che, non confondendo la propria ragione con l'intelligenza e il proprio desiderio con i suoi bisogni, non si sottrae a quei legami con l'alterità, spesso drammatici, che lo interpellano quotidianamente dal fondo stesso della sua esperienza.
Silvano Petrosino
[1] Dag Solstag, Genanse og verdighet, ForlagetOktober, Oslo 1994, trad. it. di M. Ciaravolo, Timidezza e dignità, Iperborea, Milano 2010, pp.100-101.