Memoria e perdono. A più di 40 anni dagli anni del terrorismo, in Italia, sembrano non esserci né l’una né l’altro. Gli anni di piombo, chiusi senza averli davvero affrontati, pesano sulla storia del nostro Paese. E ci impediscono di capire davvero da dove veniamo e quale direzione possono tracciare le nostre azioni. Qualcuno ricorda qualche data, il 12 dicembre 1969, il 9 maggio 1978, il 28 maggio 1974. Qualcuno sa attribuire correttamente la matrice degli atti terroristici, molti altri ne fanno un unico calderone indistricabile. Eppure se non si torna indietro, all’attimo o agli attimi che hanno innescato le tragedie sarà difficile restare immuni dalla violenza nei tempi a venire.
Per questo è importante un’opera come quella della Casa della Memoria di Brescia. Manlio Milani, con una lungimiranza non comune tra le vittime del terrorismo, è riuscito a inserire la sua storia personale nel racconto di quella nazione. Così che la richiesta di giustizia per la strage fascista di piazza Loggia non è l’avvio alla chiusura giudiziaria di una storia singolare. È semmai l’apertura, soprattutto alle nuove generazioni, alla comprensione del sogno che animava l’Italia uscita dalla guerra. Un sogno ghermito fin da subito dalle forze reazionarie che si sono annidate e si annidano nella pancia del nostro Paese e sfregiato da quanti hanno pensato alla violenza come scorciatoia per la loro incapacità di stare dentro i cambiamenti . Senza ripercorrere le tensioni di quegli anni è quasi impossibile capire come sia stato possibile innescare una violenza come quella del terrorismo che è costata all’Italia, secondo i dati dell’Aviter (Associazione vittime del terrorismo), 460 morti e 4.550 feriti dal 1969 a oggi. In realtà i morti andrebbero conteggiato da prima, almeno da quel 7 luglio 1960 che costa la vita, a Reggio Emilia, a cinque persone che manifestavano contro il governo Tambroni. Un governo che, reggendosi con l’appoggio del Movimento sociale italiano (partito di destra con all’interno esponenti che avevano fatto parte del disciolto partito fascista), faceva temere un riaffacciarsi di quel regime che aveva schiacciato gli italiani per 20 anni. E mentre la sinistra si organizza per la sua “rivoluzione”, parlando di resistenza tradita, e cominciando a ventilare l’ipotesi di riprendere in mano le armi dei partigiani, la destra provoca, forse anche con l’appoggio di apparati deviati dello Stato. La bomba che esplode a Milano il 12 dicembre del 1969 accelera il processo violento dei gruppi di sinistra, in primis le Brigate rosse.
Ma ha bisogno ancora di tempo, delle stragi sui treni, della bomba in piazza loggia del 1974. Il primo omicidio pianificato delle Br (anche se c’erano già stati gli omicidi di Alessandro Floris nel 1971, di Luigi Calabresi nel 1972, di Federico Masaria, Giuseppe Panzino e Gabriella Bortolon nel 1973, di Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci, di Felice Mauritano, di Andrea Lombardini nel 1974, di Giovanni D’Alfonso e di Vittorio Vallarino Gancia, di Armando Femiano, di Giuseppe Lombardi, di Gianni Mussi nel 1975, di Enrico Pedenovi il 20 aprile 1976) è quello del magistrato genovese Francesco Coco e della sua scorta (Antonio Dejana e Giovanni Saponara) uccisi il 9 giugno 1976 perché il magistrato aveva bloccato la scarcerazione di militanti della XXII ottobre. Intanto quelle che da subito vengono definite “stragi di Stato” riscaldano le tensioni nel Paese. Gli evidenti depistaggi, le verità mai completamente accertate, le ingiustizie che si respirano nel Paese, le povertà, i cambiamenti che sembrano troppo lenti accelerano lo scoppio. Tutti gli anni a seguire sono una lunga scia di sangue e di calcolo, di cinismo e disperazione. L’11 settembre del 1973, la data del golpe cileno che porta alla morte di Allende, il primo presidente di sinistra al governo con l’appoggio esterno del partito cattolico, disegna anche per l’Italia scenari di paura. Il discorso di Enrico Berlinguer, l’allora segretario del Pci che ricorda ai militanti che è necessaria una alleanza con la democrazia cristiana perché i comunisti non potrebbero governare neppure con il 51 per cento, dà la percezione di una “democrazia finta”, come diranno gli esponenti di Prima Linea che prendono le armi dopo quel discorso. Non sappiamo quello che sarebbe successo se il disegno di Aldo Moro (una democrazia dell’alternanza tra Dc e Pci, che doveva però necessariamente passare da quello che è sempre stato chiamato – ma non dal leader democristiano – “compromesso storico”) fosse andato a compimento.
Quello che sappiamo è che, proprio mentre il Governo da lui faticosamente messo in piedi con questo intento doveva incassare la fiducia, quella stessa mattina, i brigatisti rossi uccidono la sua scorta e lo rapiscono. Tutti sappiamo cosa è stata l’Italia degli anni a venire. Una storia che è scorsa su binari diversi da quelli sui quali era incamminata. Paradossalmente i terroristi rossi ottengono l’effetto (almeno parziale) agognato dai più conservatori: quello di bloccare una grande stagione che cominciava a farsi spazio. Le riforme di quegli anni, dal Sistema sanitario nazionale alla nascita delle Regioni, al diritto di famiglia, ai decreti delegati che aprono la scuola alla partecipazione, ci dicono di un Paese che, seppur a fatica, stava costruendo una democrazia inclusiva, che metteva al primo posto i cittadini e i loro bisogni. Le forze reazionarie, la cosiddetta strategia della tensione, le pressioni anche straniere – ricordiamo che siamo in una fase di piena guerra fredda con il Muro di Berlino ancora ben lontano dal cadere – hanno pesato fortemente sulla nostra storia. Una storia che dovremmo assumere tutti per intero senza lasciare ai soli familiari delle vittime il peso di tramandarne la memoria. Tutte le voci devono far parte del coro. E spetta a tutti noi rintracciarne i volti, le motivazioni, i contesti.