«Fare profitto sulla iniquità dei vaccini: un crimine contro l’umanità?» É questo il titolo shock dell’editoriale con cui il British Medical Journal — una delle riviste scientifiche più accreditate — ha pochi giorni fa criticato lo stato confusionale in cui si trova la politica vaccinale internazionale.

A causa degli enormi squilibri nella distribuzione dell’antidoto, il contenimento nella circolazione del virus sta diventando una chimera irraggiungibile: mentre nei paesi occidentali la percentuale di popolazione vaccinata è in molti casi superiore al 60%, nelle zone meno sviluppate non si arriva al 2/3%. Le 50 nazioni più povere — che contano il 20% della popolazione mondiale — hanno finora ricevuto solo 2% delle dosi.

L’analisi del British Medical Journal sottolinea una serie di incongruenze: l’abnorme crescita dei profitti delle imprese produttrici; il mancato rispetto delle promesse fatte in sede internazionale sulla distribuzione dei vaccini ai paesi più poveri; il fallimento dei negoziati non solo per la sospensione temporanea dei brevetti vaccinali ma anche per la diffusione della capacità produttiva in paesi terzi; l’ accaparramento delle dosi disponibili da parte dei paesi ricchi (il Canada ha acquistato dosi per sette volte il suo fabbisogno, l’Inghilterra quattro) fino al vero e proprio spreco, con la notizia di centinaia di migliaia di fiale distrutte perché lasciate scadere o mal conservate.

Il problema — lo sappiamo — è l’assenza di una governance istituzionale in grado di coordinare il compito di una pluralità di attori nell’affrontare la complessità di problemi legati all’interdipendenza globale. L’organizzazione mondiale della sanità (WHO) è troppo debole. Così, ogni paese si muove in ordine sparso sula base dei propri interessi, e lo stesso fanno le grandi imprese commerciali. Allo stato attuale, l’unico strumento di cui disponiamo per coordinare — in modo indiretto — una pluralità di attori diversi è la concorrenza di mercato (dove concorrere, lo ricordiamo, significa correre verso lo stesso obiettivo). Ma quando questo dispositivo non funziona — come nella maggior parte delle situazioni critiche del nostro tempo — il pur riconosciuto bisogno di collaborazione diventa difficile da realizzare. Col rischio concretissimo di una escalation delle tensioni e quindi della conflittualità.

Sciogliere questo nodo è tutt’altro che facile. Anche perché per superare questa inadeguatezza istituzionale è necessario un passaggio culturale: la natura «complessa» dei fenomeni con cui ci troviamo oggi a confrontarci che pone delle domande circa il modo in cui leggiamo la realtà e la logica con cui proviamo a gestirla.Usata per mascherare un discorso vago, incapace di inquadrare con precisione un problema, la parola «complessità» è divenuta quasi impronunciabile.Ma forse dovremmo fermarci un momento per capire le implicazioni di un termine che diventa invece ogni giorno più essenziale per sopravvivere nel mondo che abbiamo costruito.

Etimologicamente, complessità viene da complexus cioè tessuto insieme. In effetti, le questioni che dobbiamo affrontare sono costituite da una pluralità di piani da considerare nella loro interdipendenza. Qui stiamo parlando del vaccino. Ma considerazioni analoghe valgono per il riscaldamento globale, per la questione delle migrazioni, per la sicurezza digitale, etc.

Scrive Edgar Morin: «Il pensiero della complessità ci dice che nulla è acquisito una volta per tutte, che le forze di disgregazione di dispersione e di morte riappaiono sempre; ci dice che anche solo per sussistere, tutto ciò che è vivente umano culturale sociale deve autorigenerarsi, autoprodursi incessantemente. In altre parole, ciò che è complesso — cioè migliore — è fragile». Ciò significa che la complessità non è un modo per definire un grado superiore di complicazione del mondo e dei suoi processi. Piuttosto, un termine che ci serve per capire che un processo non è interamente rappresentabile, cioè che vi sono dimensioni del sapere in cui l’alea è irriducibile.

È esattamente questo il tema della campagna vaccinale e delle altre grandi questioni globali: per trovare, un passo dopo l’altro, il bandolo della matassa — al di là di ogni fantasia attorno a soluzioni miracolistiche — occorre muoversi alla luce di una ragione capace di dare priorità, nel processo di conoscenza, alle connessioni e alla circolarità tra le parti e i livelli, piuttosto che alle separazioni, ai riduzionismi, alle spiegazioni meramente lineari. Semplicemente perché non esistono soluzioni facili a problemi complessi.

Morale della favola: per evitare una escalation dei conflitti, i problemi dell’età globale hanno bisogno di collaborazione e cooperazione, tra paesi, culture, istituzioni, attori economici, approcci, discipline scientifiche diverse. Una attitudine che però, come dimostrano i fatti, siamo ben lontani dall’aver acquisito. Non è detto che ce la faremo. Quello che possiamo sperare è riuscire a imparare velocemente dall’esperienza, soprattutto dai fallimenti. Un po’ per volta comprendere che «quando si è tutti sulla stessa barca» — quando, cioè, i problemi sono imbricati l’uno nell’altro — alla fine, la cosa che conviene a tutti è trovare strategie efficaci di dialogo e cooperazione. La faticosa (ma necessaria) costruzione di nuovi assetti e strumenti istituzionali sul piano internazionale ha bisogno di conquistare prima questo diverso sguardo culturale. Il che non è responsabilità solo dei politici, ma di tutti.