Dopo la pandemia, la guerra. La serie ormai nutrita di shock globali – siamo al quarto in ventuno anni (Torri gemelle, Lehman Brothers, coronavirus, Ucraina-Russia) – dovrebbe convincerci che la stagione della globalizzazione, inaugurata dalla caduta del muro di Berlino, è definitivamente tramontata.
Siamo oltre la modernità liquida: è arrivato il momento di fare i conti con gli effetti entropici del modello di sviluppo che ha dominato il passaggio di secolo.
Il cambiamento è accelerato: la questione della transizione ecologica – percepita finalmente come rilevante da larga parte dell’opinione pubblica – si incrocia con una digitalizzazione ormai già avanzata, mentre è l’intero quadro geopolitico planetario a essere in fibrillazione.
Così oggi si deve far quadrare il cerchio: governare gli esiti di una pandemia che non si lascia debellare e allo stesso tempo ripensare il senso dello sviluppo, nel quadro del paradigma tecnico digitale e del delicato processo di costruzione di un nuovo ordine mondiale.
Di fronte ai nuovi ardui problemi da risolvere, l’organizzazione sociale ormai planetaria é chiamata a rispondere con un aumento di complessità.
Stiamo entrando nella “supersocietà”, un inedito intreccio tra processi già in corso da tempo, che si caratterizza per la convergenza di tre dimensioni: la stringente interdipendenza tecno-economica su scala globale; il nesso inestricabile tra azione umana e biosfera; l’assorbimento sempre più spinto della soggettività nel processo di autoproduzione sociale.
A differenza della globalizzazione (e delle sue narrazioni), la supersocietà non origina un processo uniforme, bensì una integrazione non lineare che, mentre spinge verso una maggiore verticalizzazione, aumenta le disuguaglianze e apre nuovi conflitti.
Superata la fase dell’espansione planetaria, ci troviamo davanti a una biforcazione. I due principali vettori del cambiamento, sostenibilità e digitalizzazione, ruotano infatti attorno a un’ambivalenza di fondo: ci porteranno verso un mondo distopico, centralizzato e burocratizzato, verso una “stupidità di massa” dove la libertà personale è confinata al puro spazio del divertimento? Oppure apriranno la via per una società più desiderabile, dove la libertà sarà ancora l’elemento cardine per tenere insieme sviluppo economico e democrazia?
Per l’Occidente, in particolare, si prospetta una vera e propria scelta di civiltà: decidere, ancora una volta, che è la libertà – e con essa la democrazia e l’iniziativa personale, il pluralismo, la sussidiarietà, la solidarietà, la pace – la carta vincente per affrontare le nuove sfide della fase post-pandemica.
Una scelta tutt’altro che scontata e a costo zero: solo sovrainvestendo sulle persone e la qualità delle nostre relazioni personali e istituzionali possiamo pensare di farcela. Non in astratto, ma molto concretamente, con un massiccio e consapevole investimento nell’educazione, nelle organizzazioni, nei territori.
Non è affatto detto che ce la faremo. Ma risultati arriveranno se torneremo a interrogarci su quel bene inestimabile che è la libertà. Dopo gli anni dell’io e della concorrenza, per sfuggire alla rabbia e all’aggressività crescenti, viene il tempo del noi e della collaborazione. O meglio, di quello che Alexis de Tocqueville chiamava “l’interesse bene inteso”. Dentro ogni singolo paese e a livello internazionale.
Per scongiurare le spinte distopiche che la attraversano, la supersocietà ha bisogno di una nuova epistemologia, che la liberi dal “mantello di ferro” di una ragione ridotta a calcolo.
Accanto ai superpoteri dell’intelligenza artificiale serve potenziare il sapere concreto dell’intelligenza umana diffusa: fatta di errori e fallimenti, ma anche di comprensione dei problemi, di condivisione delle prospettive, di concretezza delle soluzioni.
Un’intelligenza vivente, non sclerotica, dialogante, non ingabbiata dalle procedure e invece capace di orientarle e sottoporle a critica.
Una intelligenza libera. E cioè in relazione. Nella rete di una responsabilità condivisa, nella direzione di un avvenire che ancora non c’è ma verso cui possiamo tendere insieme.
*estratto dalla prefazione del libro “Supersocietà”, di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, edito da Il Mulino