Sapremo non rimuovere questa immobilità? Trasformarla in attenzione, concentrazione, discernimento: per portare alla luce ciò che é urgente ed importante e merita il nostro impegno e la nostra azione.
Una meditazione nei giorni del Coronavirus
Che cosa vuol dire sperare in questo tempo? Cosa vuol dire andare oltre facili e a volte urticanti slogan ottimistici ? Che cosa può dare spessore e consistenza a questa speranza? Cosa vuol dire sperare in uno spazio e un tempo di morte?
Sperare quando la morte non è un immagine astratta vista su uno schermo di computer o comparsa in numeri generici che appaiono su alcune slide da mostrare alla cosiddetta opinione pubblica. Ma con la morte vicina, diffusa, debordante. A cui non puoi sfuggire. Che passa con la sua falce tra i parenti, gli amici, i conoscenti, i tuoi compaesani, i tuoi concittadini. La morte che senti potrebbe raggiungere da un momento all’altro tua moglie e te stesso. Adesso.
Sono migliaia i morti a Bergamo. Molti, molti di più di quelli ufficiali.
Cosa vuol dire sperare quando la morte ti é persino negata?
Questa condizione costringe ad andare in fondo. Nella profondità delle nostre esistenze. In fondo a ciò che sei, a ciò che siamo. Non mi interessa qui entrare in dibattiti sulle politiche socio sanitarie, pur importanti e doverosi. Mi interessa cercare ciò che è urgente ed importante per noi.
Provare a cercare insieme una pratica ed una teoria che non sfugga troppo velocemente a ciò che la realtà ci ha svelato. A queste domande piene di lacrime e sgomento che la realtà mi mette e ci mette davanti.
Sapendo che solo la custodia di queste domande, il loro insistito e costante lavorio dentro di noi, può suggerire, forse, una parola di speranza. Perché la speranza è sempre un andare oltre, é sempre rubricata in ciò che oggi ci appare impossibile, senza forma. Perché la speranza è ciò che da respiro alla libertà.
Allora comincia un pellegrinaggio interiore, che si sostiene anche con piccoli gesti quotidiani, sguardi fatti di pietà e compassione. Un pellegrinaggio, che é giá forse in sé l’alba di questa speranza. Vita.
Questo pellegrinaggio é come un rosario di domande, che chiede di essere vissuto, recitato, agito quotidianamente.
Perché sia la domanda ad allargare lo spazio delle risposte, il più ampio possibile, che già certamente la realtà contiene e che la nostra esistenza ed il nostro impegno può far venire alla luce. Partendo dal concreto della realtá, dall’ esperienza che non rinuncia a dare il nome alle cose e si arrischia anche di cercare un senso ai fatti.
Cominciamo dunque.
Sapremo non rimuovere questo tempo e spazio di silenzio? Per poi trasformarlo in silenzio profondo, fecondo. Capace di ospitare e generare nuove parole e di rigenerarne di antiche. O ci faremo di nuovo travolgere dalla banalità di bla-bla-bla estenuanti e insignificanti?
Sapremo non rimuovere questa solitudine? Non riducendola ad un isolamento sterile da affollare di mille cose, ma trasformandola nel viatico per scoprire interiorità più mature e consistenti. O ci faremo di nuovo travolgere dall’anomia della massa e dall’angoscia che facilmente si scaricherà su qualcuno o su qualcosa?
Sapremo non rimuovere questa immobilità? Trasformarla in attenzione, concentrazione, discernimento. Per portare alla luce ciò che é urgente ed importante e merita il nostro impegno e la nostra azione. O ci faremo di nuovo travolgere dall’agitazione, l’affanno, l’accelerazione insensata?
Sapremo non rimuovere questo vuoto? Trasformandolo nella condizione essenziale della nostra vita. L’ origine di ogni forma. O ci faremo di nuovo travolgere dalla bulimia da riempimento, di qualsiasi cosa, sensazione, pensiero, opera, a scapito di tutto ciò di visibile ed invisibile che ci circonda?
Sapremo non rimuovere questa fragilità? Benedicendola e trasformandola nella più potente occasione di condivisione, incontro, fraternità con gli altri. O continueremo a rincorrere potenza e potere, illudendoci che gonfiando un pò il nostro io ( o il nostro noi) possiamo essere più vivi?
Forse così, lentamente, cominceremo a sperare e a generare speranza. Perché avremo pienamente accolto questo urlo di morte che ha circondato le nostre giornate, ed è penetrato nelle nostre vite.
Avremo cominciato a lasciare andare “ il vecchio” preparandoci ad accogliere il tempo nuovo.
Tutto ciò é molto concreto, tanto concreto da toccare il senso della nostra vita è della nostra morte
Qualsiasi progetto di ricostruzione e ricominciamento che non si poggi su questi presupposti di trasformazione interiore, che é in sé inevitabilmente trasformazione esteriore , non poggi su uomini che non li abbiano fatti propri sarà destinato ad oscurare la speranza, ci ricaccerá in mondi illusori. Dove rincorreremo il “ funzionamento perfetto”, la ” certezza assoluta”, la ” sicurezza garantita”. Un mondo orrendo, un mondo di zombi instupiditi. Con la vita ridotta ad un attraversamento confortevole della banalità.
Il male non sta nel dramma che stiamo vivendo. Il male si annida nella trasformazione del dramma in tragedia o peggio ancora in farsa. Non siamo in guerra siamo in una tempesta. Si muore sempre per gli altri. Volenti o nolenti.
Le cinquemila persone che sono morte qui a Bergamo, sono morte per me, per noi.
Perché noi possiamo vivere, essere pienamente ciò che siamo chiamati ad essere.
La speranza apre sempre ad una aspirazione ad essere, ma il desiderio non si può consumare, il desiderio ci consuma, richiede la messa in gioco della nostra esistenza.
Questo é il sacrificio che ci libera.
Chiudo con la poesia di grande maestro del 900, padre David Maria Turoldo, che come tutti i profeti ci ha lasciato un eredità feconda per il nostro tempo.
No, credere a Pasqua non é giusta fede: troppo bello sei a Pasqua! Fede vera é al venerdì santo Quando Tu non c’eri lassù! Quando non un eco risponde Al suo alto grido e a stento il Nulla dà forma Alla tua tua assenza