La pandemia: uno shock sistemico
L’arrivo del Covid 19 ha trasformato un rischio la possibilità annunciata da diversi scienziati circa la possibilità di pandemie globali in una grave emergenza sanitaria prima e economico-sociale poi. Ogni giorno che passa diventa sempre più chiaro che non si tratta di una breve parentesi che, una volta chiusa, potrà essere dimenticata, ritornando al punto di partenza.
In realtà, la pandemia deve essere letta per quello è che: il terzo shock globale in 19 anni (dopo le torri gemelle dell’11 settembre 2001 e il crack finanziario del 2008) che rende sempre più evidente il problema di fondo del modello di sviluppo affermatosi a fine secolo: potente e dinamico (il Pil mondiale è raddoppiato in meno di vent’anni, qualche cosa di impensabile solo qualche decennio fa), ma anche enormemente entropico. Un modello che, insieme ad una crescita accelerata e ad una integrazione crescente, crea condizioni idonee a shock sistemici in grado di determinare gravi danni. Dal punto di vista ambientale, sociale, politico ed economico.
Con la sua capacità di inceppare l’intera organizzazione socioeconomica, la pandemia sta agendo come un rivelatore, un declassificatore e un acceleratore, Rivelatore, perché ci permette di capire molti aspetti della nostra vita che, nella precedente normalità, rimanevano invisibili. In fondo, noi sappiamo che qualunque ordine sociale si basa proprio sulla sua capacità di creare routine e ordini istituzionali che, in quanto dati per scontato, acquistano stabilità.
Declassificatore perché rende precarie molte delle nostre certezze aprendo spazi di possibile cambiamento. Tanto in peggio quanto in meglio. Come l’esperienza storica dimostra, dalle crisi profonde e prolungate le società escono trasformate. A volte sprofondando in spirali depressive; altre volte avviando stagioni di trasformazione. Proprio come è accaduto nel secolo scorso dopo le due grandi guerre mondiali che, a parità di disastro, hanno portato a esiti opposti: la grande guerra gli anni ’20 e la seconda guerra mondiale gli anni ’50. Acceleratore, perché rende molto più veloci processi che erano già in atto prima dell’avvio della crisi. Basti pensare a come le imprese hanno dovuto imparare a usare il lavoro a distanza dapprima per far fronte a un’emergenza imprevista e successivamente per esplorare i margini di riorganizzazione che si sono aperti.
Cosa resterà? Difficile da dire. Ma certo è che tante cose non potranno essere più le stesse.
Due driver: sostenibilità e digitalizzazione
La transizione che ci aspetta sarà guidata da due driver principali che ritroviamo anche al centro del piano di rilancio approvato dalla EU: sostenibilità e digitalizzazione.
Negli ultimi anni (e in modo ancora più forte nel 2020) la questione della sostenibilità è uscita dai circoli ambientalisti per diventare un pilastro delle nuove strategie di sviluppo delle imprese più avanzate. Si tratta di un cambiamento di rotta che non deve sorprenderci. Come ha insegnato L.Boltanski, il capitalismo si trasforma e si rinnova incorporando le critiche che gli vengono mosse dalla società. Una dinamica che sta puntualmente avvenendo anche con la “sostenibilità”.
E ciò per la convergenza di due processi. Da un lato, le imprese che, in quanto organizzazioni sensibili alle trasformazioni del mondo circostante registrate attraverso il mercato, hanno ormai capito che è più conveniente diventare sostenibili che insistere con una prolungata disattenzione. Dall’altro, i mutamenti culturali che si registrano dentro l’opinione pubblica. Nella vasta e variegata platea dei consumatori si allarga sempre di più il numero di coloro che hanno sensibilità culturali legate alla sostenibilità. Un effetto che si vede anche all’interno delle stesse organizzazioni laddove la manodopera più qualificata (oltre che quote crescenti di manager e imprenditori) ha una netta preferenza a essere impegnata in attività che rispettino il contesto circostante.
La digitalizzazione porta invece a piena maturazione l’evoluzione tecnologica degli ultimi decenni. Il sistema tecno-economico è, a questo punto, pronto per un nuovo salto di livello. L’ambiente digitale è ormai una realtà e non è più possibile immaginare la vita economica senza fare riferimento a questo nuovo ambiente che apre potenzialità enormi. Di portata paragonabile a quelle della prima industrializzazione. Una maturazione progressiva che il COVID-19 ha ulteriormente accelerato. Non a caso, negli Stati Uniti, i due fuochi del dibattito di questi mesi sono stato il green new deal e lo screen new deal.
E tuttavia occorre essere molto chiari su un punto: dire sostenibilità e digitalizzazione non risolve la questione del futuro modello di sviluppo, perché questi due elementi possono essere compatibili con esiti molto diversi tra loro. Addirittura opposti: da un lato, quello che S. Zuboff ha chiamato “capitalismo della sorveglianza”; dall’altro lato. per citare M. Porter, il capitalismo “a valore condiviso”.
Verso un cambiamento dell’assetto capitalistico
In attesa di capire meglio la direzione del cambiamento, si può senz’altro affermare che il terzo shock globale sta già determinando la ristrutturazione dello ”spirito del capitalismo” affermatosi nell’ultima parte del XX secolo. Vediamo di capire perché e in che senso. M. Weber definisce lo “spirito” come ”un complesso di relazioni in una individualità storica, modi di pensare e di fare che a un certo punto diventano normali in base agli assetti istituzionali, sociali e economici del tempo”. Determinando un’interruzione di durata cospicua del processo economico, la pandemia è destinata a cambiare in profondità quell’impasto che è all’origine del capitalismo contemporaneo. Crepe profonde erano già ben visibili dopo il 2008. I postumi dello shock finanziario contenuti grazie alle politiche monetarie dette “non convenzionali” non hanno comunque potuto evitare l’aumento rilevante del numero di persone che tanto in Europa come negli Stati Uniti si sentono insoddisfatte della propria situazione. Così, a partire dal 2010, i sentimenti euforici associati alla globalizzazione degli anni ’90 si sono trasformati in un diffuso senso di insicurezza e in una crescente richiesta di protezione. L’entropia prodotta dal modello di sviluppo di fine secolo è diventata sempre più intollerabile sul piano sociale. Un fenomeno che si è ulteriormente aggravato con la pandemia. Tutto ciò sollecita un cambiamento dell’assetto capitalistico. Anche se non c’è ancora un nuovo mainstream, é in atto un “cambio di paradigma” (nel senso utilizzato da
- Kuhn). Esattamente come accadde nel corso degli anni ’80. E se allora la riorganizzazione del mercato e delle organizzazioni avvenne attorno all’idea centrale della “flessibilità” (che investiva tanto i modelli organizzativi quanto la libertà di pensiero e di vita dei singoli individui) oggi l’elemento cardinale è dato proprio dalla “sostenibilità”.
Un nuovo mindset
Ciò significa che, per scongiurare gli effetti più disastrosi che la pandemia rischia di determinare alimentando la rabbia che già era ampiamente diffusa prima dell’avvento del covid non basteranno piccoli aggiustamenti. Quello che serve è una trasformazione degli assetti capitalistici che presuppone un diverso mind set.
In sostanza, mentre il ciclo capitalistico che è alle nostre spalle si è basato sull’idea di slegamento reso possibile dalla potente espansione realizzata dalla globalizzazione il nuovo ciclo dentro cui stiamo entrando si fonda su una logica di rilegatura. Anche se non sappiamo ancora se tale processo avverrà in forma progressiva o regressiva.
Sono tre gli assi fondamentali intorno a cui tale processo si sta strutturando:
- Il primo asse riguarda la relazione tra l’io individuale e ciò che gli sta intorno. Uno dei passaggi fondamentali che hanno caratterizzato il neoliberismo è quello dell’individualizzazione che ha reso l’esistenza di ciascuno simile a quella di una particella elementare, autonoma e indipendente. Questo modello di vita che aveva avuto senso nel momento in cui la prosperità è diventata di massa e ha generato una forte spinta soggettivistica viene oggi messo in discussione proprio a causa degli effetti entropici causati da un modello fortemente espansivo ma anche enormemente disordinato. In fondo, la “sostenibilità” comporta il recupero del tema della relazionalità. A partire dalla consapevolezza che tutto è in relazione con tutto. Non è forse vero che è la nostra costitutiva interdipendenza ciò che il virus ci sta dolorosamente insegnando in questi mesi? L’idea di un “io a prescindere” si rivela così per quello che è: una pretesa irrealistica. Semplicemente perché ognuno di noi è “già” in relazione con ciò che gli sta attorno. Quello che contraddistingue la nostra specie è proprio la capacità di tessere reti relazionali dinamiche, aperte e variegate. Ma dire questo significa riproporre il nodo gordiano che è alla base di ogni ordine sociale: e cioè la relazione tra l’Io e il contesto circostante. Da un lato c’è la spinta che viene dalla digitalizzazione che modifica profondamente le forme delle nostre reti relazionali; dall’altro, c’è la questione della libertà, per il modo in cui si è definita negli ultimi decenni: quel che appare evidente è che non è possibile gestire sistemi complessi che devono affrontare questioni intricate come la pandemia o il riscaldamento globale contando semplicemente sul tipo di individualismo consumerista e di breve periodo che si è affermati negli decenni.
- Il secondo asse riguarda la relazione tra economia e società, tra locale e globale. Come accennato, la globalizzazione degli anni ’90 è stata fondamentalmente un processo di espansione che letteralmente ha slegato l’economia della società. Liberalizzando la prima si otteneva più prosperità da distribuire alla seconda. Ma, come abbiamo visto, nel corso degli anni le cose sono profondamente cambiate. Per navigare nel mare in tempesta della globalizzazione avanzata è necessario dotarsi di un’imbarcazione capace di tenere il mare minaccioso nel quale ci troviamo a muoverci. Questo fondamentalmente vuol dire essere in grado di ricostruire il nesso tra l’economia e la società. Nella nuova situazione nella quale ci troviamo, sopravvivranno quei territori, quelle organizzazioni, quei paesi capaci di scrivere alleanze effettive ed efficaci in vista del raggiungimento di obiettivi comuni. Una logica completamente diversa per molti versi addirittura opposta da quella degli ultimi decenni. Un processo di alleanza che non può essere giocato in contrapposizione al più ampio ambiente circostante. Non si tratta, infatti, di costruire muri che pretendano di disgiungere i destini tra chi e dentro e chi è fuori. Come abbiamo sperimentato in questi mesi, il ritirarci dentro le mura di casa movimento utile e necessario per difenderci dal virus finisce per tradursi in una trappola mortale se immaginassimo di blindare le nostre porte. Oggi riusciamo a capire meglio il bisogno di confini; ma di confini porosi, capaci di stare in relazione con l’oltre. Nel riconoscimento delle opportunità e dei problemi che ci accomunano con l’intera umanità.
- Il terzo asse si definisce attorno alla questione della cura. Il tipo di crescita espansiva e quantitativa degli ultimi decenni ci ha abituato ad una incuria sistematica. In un mondo sempre più accelerato e in continua trasformazione, la logica dell’usa e getta, della disattenzione, della indifferenza ha caratterizzato il nostro modo di vita. Con effetti distorsivi non solo sul nostro rapporto con l’ambiente, ma anche sulla stessa psiche individuale. Per citare l’espressione di B. Stiegler, l’incuria generalizzata ha prodotto l’età della betise, come perdita della capacità di fare, di vivere e persino di pensare. In questa prospettiva si capisce allora che cura non è una parola riferita solo la dimensione privata. Essa riguarda invece, a tutto tondo, il nostro rapporto con la realtà. Prendersi cura significa tornare a capire che le capacità trasformative dell’umano non possono pretendere di darsi a prescindere in modo prepotente ma possono esprimersi sensatamente solo dentro il riconoscimento di una relazione. Tanto più che proprio l’elemento della cura è la via per ricomporre ragione e affezione. Solo quando ci prendiamo cura riusciamo a superare quell’indifferenza gelida che produce poi perdita di senso e demotivazione. La cura è il farmacon che può aiutare a ripensare l’azione individuale e i modelli organizzativi in una nuova prospettiva.
Il ruolo della formazione
Come si può vedere, sostenibilità e digitalizzazione costituiranno i due veicoli della nuova fase storica. Ma è necessario tenere presente che il verde e il blu per usare un’espressione fortunata di L. Floridi non sono (solo) delle procedure. Esse implicano una nuova consapevolezza, un modo di definire il rapporto tra la persona e la società, tra l’organizzazione e il suo contesto.
Tutto ciò significa che il post-pandemia avrà bisogno di un grande sforzo culturale e organizzativo. Come ha scritto E. Morin, le crisi comportano sempre una rottura tanto dei determinismi quanto della stabilità. L’aumento di disordine che ne consegue rende necessari dei cambiamenti. Che possono essere sia regressivi che progressivi. E la possibilità di prendere una via di rilancio non è scritta nelle cose ma dipende dal modo in cui si è capaci di reagire positivamente alle sfide che ci si trova davanti. In questo quadro, la formazione gioca (non retoricamente) un ruolo centrale. É chiaro, infatti, che non è possibile intraprendere una via di resilienza trasformativa se non facendo un investimento importante in questa direzione. A tutti livelli: da quello manageriale e dirigenziale (dove si devono cambiare paradigmi vecchi che rischiano di essere addirittura controproducenti) fino agli ambiti della fragilità lavorativa e sociale. Investire nella formazione è la condizione per sfuggire al “soluzionismo” tecnocratico che riduce la trasformazione alla (necessaria) innovazione tecnica. Per questo è opportuno usare il termine proposta da G. Simondon di “trasduzione”, concetto più ampio che indica la capacità di dare risposte inattese ai mutamenti che si producono nell’ambiente, tipica delle forme vitali e in modo particolare di quelle sociali.
Percorsi trasformativi
Gli assi appena richiamati possono essere naturalmente declinati in maniera operativa indicando i percorsi trasformativi più urgenti. A titolo esemplificativo ne indico qui brevemente tre:
- Nei mesi della pandemia si è forzosamente diffuso il lavoro a distanza. Naturalmente si è trattato di un adattamento alla situazione di emergenza creata dal covid. E tuttavia, sappiamo già che molte organizzazioni non tornerannoindietro. La sperimentazione di questi mesi ha diffuso nuove pratiche di lavoro destinate a durare. Ci troviamo davanti a un passaggio di grande portata che tenderà a ridisegnare le culture manageriali, i processi di apprendimento e di condivisione, i criteri di valutazione, il nesso tra autonomia e controllo, il rapporto tra luogo di lavoro e luogo di vita etc. In sostanza, le logiche organizzative nel loro insieme, in un processo di vasta portata che avrà bisogno di essere accompagnato dal punto di vista educativo e formativo.
- I processi di reshoring, già avviati nell’ultimo decennio, si sono ulteriormenterafforzati e sono destinati a proseguire. L’insicurezza sistemica è troppo grande. È interessante osservare che il già citato M. Porter professore ad Harvard e negli anni ’80 autore del saggio sulle global chain che fece da guida per la riorganizzazione delle imprese nell’epoca della globalizzazione abbia pubblicato nel 2012 un nuovo fondamentale saggio sul tema dello shared value, questione che Porter riferisce da un lato al ruolo del territorio e della località e dall’altro al ruolo dell’ambiente. L’era dello slegamento è finita. Occorre rilegare. Un processo che ha bisogno di essere sostenuto e accompagnato da nuovi modi di pensare e nuovi modelli organizzativi
- La terza applicazione ha a che fare con la ridefinizione del rapporto tra benessere individuale e benessere collettivo. Il superamento dei problemi che abbiamo davanti comporta un investimento maggiore attorno al significato dell’azione economica. Come peraltro già emerso nel dibattito americano degli ultimi anni attorno al nodo purpose vs profit. Si potrebbe dire che il tema del desiderio oggi si esprime più nell’ambizione di svolgereun’attività dotata di senso insieme ad altri piuttosto che nel semplice accesso al circolo consumeristico del godimento individuale. D’altra parte, è difficile pensare che, soprattutto in una società avanzata, la spinta economica possa venire dal semplice aumento del consumo individuale. Noi oggi sappiamo che la soddisfazione personale è sempre più legata a elementi di contesto. Per questo, nel prossimo ciclo di sviluppo economico diventeranno più importanti i beni relazionali e collettivi, al di là della mera moltiplicazione dei beni individuali. La riflessione sulla generatività sociale, svolta in questi anni, costituisce un importante contributo a cogliere le dinamiche che si stanno osservando a questo proposito.
Per concludere, si può dire che gli assetti capitalistici sono in corso di rapida trasformazione anche se gli esiti sono tutt’altro che definiti. Il primo nemico da battere sarà la paura da cui rischia di generarsi una rabbia distruttiva. Ma per battere questi sentimenti non basterà un generico discorso tecnocratico di ripresa e rilancio della crescita. Semplicemente perché questi discorsi non appaiono più credibili a molti. È invece importante contribuire a delineare un modello di sviluppo diverso che non potrà che definirsi step by step, sulla base di risposte trasduttive alle sfide lasciate in eredità dalla pandemia.
Essere capaci come organizzazioni, come territori, come Paese di un transito di questo tipo è tutt’altro che facile. Ma è l’unica cosa che si può ragionevolmente pensare di fare. Per sventare il rischio di un conflitto sociale esplosivo, occorre tornare a coltivare il senso di una speranza concreta, in grado cioè di indicare una direzione di trasformazione dentro un processo inclusivo in cui nessuno effettivamente sia lasciato da parte. Pensare che si tratti di una questione esclusivamente economica è un errore. Abbiamo bisogno anche di nuove forme di integrazione politico-istituzionali e di nuove dina miche formativo-culturali. A essere decisivi saranno le cornici istituzionali e le policies (anche formative). In una nuova logica di alleanza. Alla base occorrerà alimentare il senso di una speranza. Dove speranza, come dice con grande efficacia V. Havel, non è un impasto di buoni sentimenti, né tantomeno l’ottimistica presunzione che cose possano andare bene da sole. È piuttosto la capacità fattiva di pensare diversamente la realtà, diventando così capaci di trasformarla:
“La speranza non è ottimismo.
La speranza non è la convinzione che ciò che stiamo facendo avrà successo.
La speranza è la certezza che ciò che stiamo facendo ha un significato. Che abbia successo o meno. O abbiamo la speranza in noi, o non l’abbiamo;
è una dimensione dell’anima,
e non dipende da una particolare osservazione del mondo
o da una stima della situazione.
La speranza non è una predizione,
ma un orientamento dello spirito e del cuore; trascende il mondo che viene immediatamente sperimentato,
ed è ancorata da qualche parte al di là dei suoi orizzonti”.