“Siamo pronti per una nuova idea di economia”

L'intervista de L'Incontro ad Andrea Rapaccini

di Francesco Sorrentini
11 Marzo 2021

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Andrea Rapaccini, imprenditore sociale, founder di Music Innovation Hub (la prima SPA sociale in Italia) parlava di social business già dal 2008, fra i primi in Italia, quando Corporation non faceva ancora rima con Purpose e il Capitale era tutt’altro che paziente.

Lo abbiamo incontrato, e abbiamo chiacchierato un paio d’ore bevendo del caffè eccezionale prodotto dall’azienda di sua moglie che ha trasformato l’obiettivo di far bere agli italiani solo caffè di rango in una vera missione culturale.

Andrea, quando e perché hai cominciato ad interessarti di Impresa sociale?

Agli inizi del 2000 lavoravo per una grande multinazionale americana, ed ero colpito dal fatto che le stesse persone che fuori dall’organizzazione mettevano in gioco la ricchezza delle loro pulsioni, egoistiche ma anche altruistiche, nel lavoro le separavano nettamente: le relazioni interpersonali erano finalizzate esclusivamente alla carriera, il collega non era un “prossimo” ma un “competitor”; nelle riunioni, sotto gli obiettivi dell’ODG strisciavano metaobiettivi di posizionamento verso il Capo, di primatismo  “contro” gli altriNelle riunioni internazionali ci si scannava in un contesto di apparente cordialità, ma usciti dagli uffici ci si ubriacava insieme e attraverso la convivialità si cercava di recuperare, quasi caricaturalmente, la dimensione della relazione umana. Gli stessi che erano spietati dal lunedì al venerdì diventavano accoglienti, sensibili, “belle persone” nel week end, con amici e familiari. Poi, la crisi economica globale del 2008: allora mi fu chiaro che quella dicotomia antropologica, fortissima soprattutto nei paesi di cultura calvinista, era anche dicotomia sociale.

Cioè?

Nelle Aziende l’unico obbiettivo era fare Business massimizzando i profitti, col mantra “business is business” che legittimava qualunque cosa non fosse esplicitamente vietata dalla legge (ma a volte si bypassava anche la legge); la costruzione di un’immagine etica decente era delegata, per chi ne sentiva il bisogno, a una Fondazione. Dall’altra parte della barricata il mondo delle attività sociali, di solito molto caratterizzate ideologicamente, per le quali il denaro era sterco del diavolo e il Mercato, a priori, non poteva essere considerato un interlocutore. Poi, nel 2008, il crollo dei subprime e una crisi economica spaventosa: era chiaro che qualcosa di quel Sistema non funzionava e cominciava a fare danni, grossi danni, anche all’interno del business system oltre che alla società. La lettura di “Un mondo senza povertà” di Muhammad Yunus (2008, Feltrinelli), uscito in Italia proprio quell’anno, ha fatto il resto, cioè mi ha convinto che esisteva o almeno andava cercato con determinazione un altro paradigma economico: alcuni libri sono come alcune donne, ti cambiano la vita.

E da dove sei partito? 

Da un’intuizione, sicuramente banale ma difficile da mettere a fuoco in una Società dove la corrente spinge concordemente altrove: che la massimizzazione del profitto sia l’unico obiettivo che garantisce la salute di un’azienda è un assunto come tanti, una convenzione, non un dato quasi ontologico, immodificabile. Cosi cominciai a studiare con interesse voci imprenditoriali “fuori dal coro”, che già molti anni prima avevano preso strade diverse, che peraltro si rivelarono straordinariamente efficaci per la crescita della loro impresa nonostante fossero rispettose e proattive rispetto ad obiettivi non aziendali, ma socialiNella società di consulenza presso cui lavoravo ero ben pagato da manager ricchissimi per sviluppare progetti di “right sizing” che indicavano ai nostri grandi Clienti come licenziare il maggior numero di persone possibili ottenendo crescite di profitti a breve. Le persone da licenziare non erano persone, ma “full time equivalent” (diceva mia nonna: “occhio non vede, cuore non duole” e questo vale anche per le parole). Il numero di licenziamenti lo indicavamo noi. Il direttore del personale presentava un numero più alto ai sindacati, e in un gioco delle parti spesso consapevole si arrivava a un compromesso, che coincideva con l’obiettivo da noi indicato. Nessun pensiero di riqualificazione del personale in esubero, nessuno sforzo di ripensare il business in modo espansivo (per crescere ci vuole tempo, e gli investimenti necessari comprimono i profitti a breve…). Al di là di giudizi morali, che non voglio abbiano spazio in questo ragionamento, era una impostazione, semplicemente, poco fertileIn Italia la Olivetti, di fronte ad una contrazione del core business, non pensò di licenziare il personale in esubero, ma si inventò un business complementare: e nacque Omnitel, che diede nuovo lavoro in gran parte proprio i dipendenti che sarebbero stati destinati al licenziamento. Questo è stato possibile perché i manager formati alla scuola di Adriano Olivetti avevano in testa un modello diverso da quello dell’impresa  puramente “estrattiva”. Un altro esempio, di segno opposto: la Electrolux

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