Chiunque sieda oggi in un consesso ove si discuta di welfare, quale ne sia il livello, non potrà esimersi dall’ascoltare pronunciato più e più volte ed in molteplici accezioni l’aggettivo “generativo”.
Tale e tanta è l’insistenza nell’accostare tale termine qualificativo al sostantivo “Welfare”, almeno tra gli “addetti ai lavori”, che tale endiadi pare divenuta una sola parola, nella quale i due termini del discorso si fondono e compenetrano. Poiché il linguaggio costruisce il mondo, occorre tuttavia prestare attenzione e chiedersi se davvero tutto il welfare è generativo e, soprattutto, se lo è tutto ciò che si intende per welfare generativo. Non occorreranno troppo tempo né ricerca per rendersi conto che il più delle volte di generativo in ciò che viene definito “welfare generativo” c’è poco o nulla. Prendiamo ad esempio una delle fattispecie esemplificative più note mediante le quali da molti viene illustrato il welfare generativo.
Io sono lo Stato e tu sei un beneficiario in stato di bisogno; invece che offrirti in modo apparentemente assistenziale beni e servizi per lenire il tuo stato di bisogno o superarlo, io intervengo supportandoti se tu in cambio ti attivi a tua volta dando o facendo qualcosa per gli altri membri della comunità, e via così, in un circuito di altrettanto apparente “vittoria di tutti”, nel quale le risorse pubbliche “generano” altre risorse, facendo da moltiplicatore delle risorse individuali per il bene della comunità. Di certo non si tratta di una visione malvagia e un welfare così configurato crescerebbe probabilmente in sostenibilità economico-finanziaria.
Tuttavia chiamare un tale meccanismo “generativo” è al tempo stesso riduttivo, semplificatorio, mistificante.
E’ riduttivo, perché la generatività sociale è qualcosa di assai più articolato e complesso di una semplice “restituzione” di ciò che si è ricevuto.
E’ semplificatorio, perché riporta ad una prassi fatta di dare/avere una dimensione, quella del welfare, che è fondata anzitutto su dignità, riconoscimento e diritto.
E’ mistificante, perché di fatto si tratta né più né meno di una riproposizione in chiave edulcorata e comunitarista del vecchio adagio pragmatico della condizionalità, introdotto nel welfare anglosassone sin dai suoi albori e volto a premiare i “buoni” e punire ancora di più i “cattivi”, sottoponendo ad un giudizio di meritevolezza l’esigibilità delle prestazioni sociali. Qualora la retorica di un “welfare generativo” così inteso divenisse dominante, sarebbe in pericolo non solo il welfare, destinato a scivolare progressivamente verso un sistema quasi eugenetico di selezione sociale, ma anche il diritto pubblico stesso, non solo sociale, reso in tal modo merce di un meccanismo di scambio sostanzialmente paternalistico e disequilibrato, in cui se dai ricevi, se non dai non ricevi, ma, se hai bisogno e devi ricevere per forza, non sei tu a decidere cosa dare, come e quando; puoi solo obbedire, dare e ringraziare.
Contro questo rischio ed i riduzionismi e le semplificazioni che ad esso conducono, vale la pena affermare e praticare una applicazione decisamente differente del concetto di Generatività Sociale al campo del welfare. Si guardi ai movimenti fondamentali della Generatività: il desiderare, il mettere al mondo, il prendersi cura, il lasciare andare; se ne considerino le direttrici di sviluppo più importanti: la capacità di autorizzare, l’esemplarità, la intertemporalità; si provino a declinare nella complessità del campo socio-assistenziale e, più in generale, del bene comune e del benessere, le dimensioni dell’abilitazione, della capacitazione, della creazione di valore condiviso, della significazione comunitaria, dell’elaborazione della morte e del dolore, della narratività che sviluppa ambienti.
E’ in questo quadro apparentemente iper complesso e caleidoscopico che si può parlare di welfare generativo in modo appropriato, non dove la generatività è ridotta a un condizionamento assunto più o meno passivamente. Se si guarda bene peraltro si può capire che il quadro, in realtà, non è né così complesso né cosi indecifrabile. C’è un filo rosso che percorre la complessità del vivere comunitario e che può orientarla in senso generativo o meno, ed è il legame sociale, interpersonale e comunitario, che un sistema di welfare può concorrere ad alimentare o può consumare sino a distruggerlo, come accaduto in molte esperienze storiche di welfare assistenzialistico o condizionalistico. Con lineare semplicità, possiamo quindi considerare azioni e dispositivi di welfare generativo tutte quelle attività che, mediante l’esperienza di servizi, trasferimenti, percorsi di cura vissuti in un contesto non individuale ma comunitario, agiscono sul legame sociale rinforzandolo e mettendolo in condizioni di esercitarsi liberamente e produrre e condividere nuovo valore, anche al di fuori del perimetro originario.
Sono moltissime le esperienze di questo genere; sfidano la burocrazia, il paternalismo, la diffidenza, l’economicismo e persino il pragmatismo e producono valore condiviso, offrendo al tempo stesso un comune senso e scopo a chi vi è coinvolto. Il vero problema, ancora lontano dall’essere risolto e la cui natura è profondamente politica, è che le forme del welfare oggi sono, come tutta la società, in transizione e che, in questa specifica transizione istituzionale e organizzativa, per nessuno è ancora chiaro come le azioni e i dispositivi di un welfare generativo possano essere messi a sistema per rappresentare ed agire “il Welfare generativo”.
Tale sfida di per sé non è un ostacolo ma un segno dei tempi; ed è una ragione in più per impegnarsi, non demordere, ricercare sperimentando e non cadere nella trappola di pensare che generare possa voler dire moltiplicare condizionando.