Tante volte, nelle ultime settimane, è stata evocata la guerra: la lotta con il nemico sconosciuto, l’esercito medico, le energie del dopoguerra, l’economia di guerra, il coprifuoco… La scuola è il luogo che meno si dovrebbe prestare all’immaginario bellico, perché la sua missione si fonda sull’alleanza, tra tempi, soggetti, saperi, generazioni; sull’amicizia, che non esclude confronto e conflitto, ma che ha sempre il bene come suo orizzonte, mai l’annientamento/distruzione.
Quello che si è scatenato, però, dopo la pubblicazione delle bozze del decreto scuola contenente la notizia della promozione di massa all’anno successivo per ogni ordine e grado di scuola, è ben descrivibile ricorrendo all’immaginario bellico: armistizio e sbandamento degli eserciti.
Gli adolescenti nelle loro usatissime chat di classe hanno iniziato chi a esultare, chi a mostrare cauta incredulità, chi, i più secchioni, a nascondere un po’ di delusione, perché in quella guerra, tutto sommato, riuscivano niente male. Alcuni hanno già portato in cantina i libri, altri semplicemente hanno rilassato i muscoli per lo scampato pericolo.
I professori, caduti nel dubbio esistenziale radicale e nell’angoscia, si sono chiesti: e ora? E anche in questo caso, c’è chi non l’ha presa così male (una scomoda vacanza), chi ha avuto attacchi di panico (chi mi ascolta più?), chi, i più razionali e professionali, ha continuato a fare quello che già faceva pur con qualche dubbio –legittimo – riguardo la scelta dei “superiori”.
Due eserciti che sbandano, una situazione assolutamente inedita e imprevista.
Come in ogni guerra che finisce, la domanda è: “Come si vive, in pace?”.
Al di là dell’ironia, le domande avanzano serie: come si fa scuola senza l’orizzonte della valutazione finale? Che senso ha insegnare se non si ha il potere di valutare – apprendere se non per il fine di guadagnare le mostrine e le stelle? Come si garantisce il “merito”?
Sappiamo che non sarà per sempre e non è mia intenzione sostenere il discorso pedagogicamente corretto di una scuola assolutamente più giusta e migliore senza valutazione. La storia della scuola italiana è radicata in un modello che ha fatto degli esami e delle promozioni un elemento chiave del suo processo: le riflessioni di molta psicologia e pedagogia, nel corso dei decenni hanno mostrato, al contempo, come la funzione selettiva, lo stress e la competizione, il potere di un giudizio “assoluto” derivanti da un’eccessiva enfasi sulla valutazione non fossero funzionali all’apprendimento. L’incontro tra i programmi istruttivi e il pensiero psico-pedagogico è per lo più mancato, portando nella maggior parte dei casi ad un irrigidimento del sistema e ad una progressiva sfiducia nella sua funzione ed efficacia.
Il voto/giudizio, quello finale sommamente, non solo non è stato ripensato, ma è rimasta la grande leva per l’apprendimento e uno degli ultimi strumenti attraverso cui esercitare l’autorità di cui i docenti progressivamente sono stati privati o che inesorabilmente hanno perso.
Lo scollamento tra funzione iniziatica, esperienza di intensa esposizione relazionale, possibilità del fallimento come fondamentale passaggio sulla strada della crescita e il giudizio di fine anno, sempre più arroccato nella sua quantificazione e freddezza, “esposto” con poche possibilità di dialogo qualche giorno dopo la fine dell’anno scolastico, hanno reso l’utopia pedagogica di don Milani un riferimento costante per chi, con valide ragioni, criticava il malfunzionamento di una scuola appiattita sul ricatto della bocciatura. Scriveva il Priore insieme ai suoi ragazzi di Barbiana: “Perché il sogno dell’eguaglianza non resti un sogno vi proponiamo tre riforme: I. Non bocciare. II. A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a pieno tempo. III. Agli svogliati basta dargli uno scopo.”
I prossimi due mesi scarsi di scuola assomigliano alla realizzazione provvisoria dell’utopia e non è difficile affermare che non siamo pronti (e probabilmente non lo desideravamo nemmeno), impegnati a sostituire il vuoto dell’aula con le “lezioni in pigiama” della didattica digitale a distanza.
Il salto richiesto è dunque doppio e radicale ed è qui che si potrebbe realizzare lo sbandamento, ma anche il più grande intermezzo sperimentale della scuola del dopoguerra.
La tesi è ardita, ma in poche settimane ci siamo ritrovati privati di tanta parte di ciò che per tutti noi è scuola e dobbiamo sfruttare l’occasione.
In ordine sparso: è tempo di testare proposte didattiche che non siano sorrette, per necessità, dal presidio della “verifica”. Questo significa mettere alla prova le capacità di ciascuno di coinvolgere gli studenti, di riformulare il “lancio” dei saperi come qualcosa che li riguarda, di trovare nessi e connessioni. Se non lo faremo, sbandamento.
Dovremo e potremo, senza troppi rimpianti, abbandonare i programmi e selezionare, sulla base dell’appassionabilità, le nostre proposte: occorre sperimentare metodi, intrecci interdisciplinari, forme altre di lavoro che non appiattiscano la didattica alla frontalità di una conferenza a distanza. Mai come ora pensare la lezione in modo cattedratico sarebbe soffiare sul fuoco caotico dell’esercito in fuga.
È la grande occasione per la scienza di irrompere nelle nostre aule. Non solo ci stiamo accorgendo della necessità delle scienze come forme del sapere da cui le nostre vite dipendono, ma dobbiamo recuperare la scienza come metodo: intuizione, ipotesi, sperimentazione, esercizio, confronto, costruzione di nuovo sapere, verifica. E in tutto questo, risperimentare due elementi chiave: la dimensione collettiva del processo e l’esercizio del pensiero critico e autovalutativo. Non possiamo valutare, ma possiamo riportare la valutazione al suo significato di “dar valore” e di consapevolezza di un movimento complesso, qual è l’apprendere. Senza un insegnamento della domanda, e non della risposta, saremo perduti.
Il “tana liberi tutti” è un’apparente misura di uguaglianza che dobbiamo rendere sostanziale vivendo un tempo di individualizzazione degli apprendimenti, di riconoscimento delle differenze, di recupero di chi ha faticato nella prima parte dell’anno e ha bisogno di ritornare su quanto abbiamo proposto. Di più, è il tempo in cui costruire la disponibilità a riconoscersi, nelle proprie fragilità e mancanze, nei propri bisogni. Che conquista straordinaria sarebbe sentire uno studente riconoscere la propria fatica e le proprie vette raggiunte, accompagnarlo a riconquistare il senso dell’errore. Sarebbero loro, i ragazzi e le ragazze, i nostri alleati nel fermare quella catena avvelenata di ricorsi, conflittualità pretestuose, strade accidentate che spesso si aprono dopo ogni finale d’anno tra docenti e famiglie. Se non lo facciamo, ritornerà la guerra.
Se anche solo in piccola parte ci faremo prendere dall’entusiasmo della sperimentazione, queste settimane non verranno resettate da una partenza anticipata a settembre e dal ritorno-dello-stesso, ancora più vecchio, ancora più vuoto. Innovare, in questo caso, è una sfida win-win: che si riesca o non si riesca, conta provarci con convinzione.
Siamo di fronte ad una montagna da scalare, ha scritto Eraldo Affinati, “…Il maestro è la guida. Gli alunni lo seguono. Ma se la vetta non viene conquistata, il voto dobbiamo metterlo anche al capo della carovana”.
Questa volta ad essere valutati saremo noi, i “valutatori”.