La riflessione sulla rigenerazione urbana e delle aree interne del paese ci riporta al tema dell’innovazione, ossia quel cambiamento positivo capace di rispondere in modo diverso (efficiente ed equo) a nuovi bisogni, generando così valore condiviso.

La genesi e la strategia per stimolare questi cambiamenti, sempre più oggetto di azioni di finanziamento da parte di policy maker, di fondazioni bancarie e di progetti nati dalle comunità, sono oggi al centro di un’azione progettuale sempre più vasta e raffinata (in termini di strumentazione). Nelle valutazioni di fattibilità di queste progettualità di sviluppo legato ai luoghi, la questione cruciale è identificare un denominatore comune, un “codice sorgente” su cui poi innestare una “sperimentazione”. Riflettendo sulla mia attività di ricerca e di osservazione sul campo son due gli ingredienti necessari, ma spesso non sufficienti, in grado di “fare la differenza”.

Il primo ha a che fare con la struttura motivazionale dei promotori: il prologo di ogni innovazione, infatti, è da ricondurre ad una domanda di ricerca.

Senza una motivazione autentica e il desiderio di volere affrontare un percorso anche le soluzioni o le risorse che si possono mettere in campo rischiano di essere non adeguatamente valorizzate, come diceva Alexis Carrel: «Nulla è più assurdo della risposta ad una domanda che non si pone»

L’energia di generare un cambiamento che trasformi uno spazio in un luogo non è perciò contenuta solo nell’urgenza di un bisogno (quante sono le aree di emergenza che ormai abbiamo metabolizzato come problemi da gestire e non da risolvere), ma innanzitutto nell’intenzionalità di un’azione.

Se la motivazione, o come insegna Appadurai “la capacità di aspirare”, è l’alba di ogni progetto di rigenerazione, si capisce come sia fallace immaginare processi di community organizing e community building a partire dall’infrastrutturazione di opzioni tecniche senza avere la spinta di una solida base di motivazioni e aspirazioni degli abitanti.

Le esperienze osservate in questi anni sia nelle aree interne che nelle periferie urbane, pur nella loro eterogeneità, mi hanno convinto che i veri asset dormienti (sleeping asset) non sono solo gli immobili non utilizzati, i luoghi abbandonati, i beni comuni non valorizzati, bensì le preferenze di chi abita (abitanti), di chi vorrebbe tornare ad abitare (ritornanti) e di chi trova senso nell’orientare le proprie competenze e i propri progetti di vita in luoghi distanti dal proprio (alieni).

Abitanti, ritornanti e alieni sono parte significativa di quelle minoranze profetiche che fungono da “cellula staminale” dentro i percorsi di rigenerazione: un ingrediente indispensabile per favorire quella “nascita sociale” che è premessa poi di comunità intraprendenti e di soluzioni imprenditoriali comunitarie capaci, attraverso logiche multifunzionali e multistakeholder (insomma ibride), di avviare processi sostenibili e duraturi di rigenerazione.

Ecco che quindi il primo passo verso un processo di rigenerazione non è un master plan dove strumentalmente si disegnano percorsi partecipativi, ma un’azione maieutica, conversazionalerivolta e condivisa con quella che Giovanni Teneggi chiama “Economia di Abitanti”; una fase in cui è protagonista l’informalità e dove i “riti e i piaceri del cooperare” (R. Sennet) diventano meccanismi generativi di un processo spesso non catturabile da un diagramma di Gaant.

Il secondo aspetto riguarda il fine, ossia il telòs. Un’azione di rigenerazione sociale implica sempre un’azione comune (common action) le cui caratteristiche distintive sono definite da tre tratti:

  • coloro che partecipano devono avere consapevolezza della propria interdipendenza;
  • nell’azione comune le persone mantengono la propria identità e responsabilità;
  • i componenti condividono la consapevolezza e la tensione al raggiungimento di un obiettivo comune.

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