C’è un lato del pensiero di Michel de Certeau, il grande gesuita e storico francese scomparso nel 1986, che molti ignorano o che, forse volutamente, lasciano ai margini. Si tratta del lato più “critico” ma, oserei anche dire, del lato più “feroce” del suo pensiero. Un pensiero che non fa sconti a saperi e poteri e che instancabilmente si spende per spingere sempre un passo avanti il lavoro appassionato dell’intelligenza. Di questo lato critico fanno senza dubbio parte le molteplici riflessioni che de Certeau dedica tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso alle questioni del “credere” e dell’“autorità[1]. Sono questi gli anni che seguono la crisi del maggio del ’68; anni nei quali le euforie e le speranze del cambiamento sembrano venire meno e in cui le società paiono sprofondare in un clima di rassegnazione e di disincantamento.

In un formidabile articolo del 1969 intitolato “Les révolutions du ‘croyable’” (“Le rivoluzioni del ‘credibile’”)[2] de Certeau constata come sempre più autorità – tra cui partiti, sindacati, imprese e chiese – siano sempre più oggetto di “discredito” e come, di conseguenza, la credibilità nei loro confronti venga progressivamente a mancare. Egli paragona questo “esaurimento del credere[3] al venire meno dell’“aria” che rende respirabile una società e che le permette di rimanere in vita anche nei momenti di crisi. In questi periodi di transizione, le autorità apparentemente sembrano ancora funzionare. I loro “valori” continuano ad essere proclamati e ostentati ma, ad uno sguardo più attento, è come se l’utilità prevalesse sulla convinzione, come se il dover mostrare a tutti i costi qualcosa diventasse più importante della possibilità di rispondere ad un reale bisogno di senso. L’altra faccia di questo esaurimento del credere riguarda, infatti, il progressivo spostamento ai margini di coloro che dovrebbero essere rappresentati da queste autorità ma che ormai non lo sono più. Essi sono coloro che non si riconoscono più nell’istituzione ma che, tuttavia, ogni giorno continuano ad impegnarsi al suo interno in un lavoro solitario e silenzioso, un lavoro “in esilio”, senza luci e senza bandiere. Lungo entrambi questi fronti, ciò che sembra saltare è l’articolazione tra le autorità – politiche, economiche, scientifiche, religiose – di una società e la “geografia reale del senso[4] delle persone che di questa società fanno parte; l’articolazione tra coloro che dovrebbero essere i rappresentanti e coloro che dovrebbero sentirsi da essi rappresentati.

Oggi – pur certamente con tutte le evidenti differenze storiche – ci troviamo in una situazione per certi aspetti molto simile a quella analizzata da Michel de Certeau alla fine degli anni ’60. Nella crisi che stiamo attraversando in questi ultimi anni il discredito delle autorità e l’esaurimento del credere sembrano ormai essere sempre più evidenti. In questo senso, la pandemia ha forse solamente messo ulteriormente alla prova autorità e credibilità ormai da tempo instabili, contribuendo ad approfondire alcune fratture già presenti lungo molteplici frontiere. Pensiamo alla politica, teatro quotidiano di avvicendamenti, di proclami e di scontri ad ogni livello e su ogni argomento ma in pratica totalmente incapace di articolare una qualsivoglia narrazione comune in grado di andare oltre la mera gestione dell’emergenza. Oppure pensiamo alla religione, la grande assente dalla sfera pubblica, chiamata ad attivarsi episodicamente ed emotivamente a livello mediatico, per poi però ripiombare altrettanto rapidamente nelle profondità nascoste del vissuto personale o nell’insignificanza dei tanti discorsi istituzionali ripetuti stancamente. Oppure, infine, pensiamo alla scienza e alla tecnica, forse le ultime grandi autorità moderne che ritenevamo immuni di fronte a questo discredito generalizzato, eppure a loro volta fatte a pezzi e ridicolizzate dal carosello mediatico di medici, esperti, virologi, epidemiologi di ogni sorta, nonché dalla circolazione irresponsabile e incontrollata di notizie e contro-notizie di ogni tipo.

Oggi più che mai l’aria sembra mancare nelle nostre vite e nelle nostre società. Sembra mancare non solamente perché trascorriamo sempre più giorni, settimane e mesi chiusi in casa oppure perché l’angoscia di tutto quello che accade nel mondo sembra dover continuamente ricadere sulle nostre fragili spalle. L’aria sembra mancare anche perché sembra mancare qualcosa in cui credere, qualcosa che dia respiro alle nostre vite e alle nostre società, qualcosa che le apra verso delle ragioni di esistere capaci di andare oltre le mere contingenze del quotidiano.

Proprio su quest’ultimo aspetto, infatti, si innesta la proposta “terapeutica” sviluppata da Michel de Certeau ormai più di cinquant’anni fa. Di fronte al discredito delle autorità, egli, infatti, mette in guardia dal considerare il “credere” come un atto dovuto e dato per scontato una volta per tutte all’interno di una società, sia da parte delle autorità che da parte dei credenti. Piuttosto, egli invita a considerare la questione del “credere” come un vero e proprio “compito infinito[5] per l’essere umano. Un compito che vede al suo fondamento la necessità di cercare instancabilmente delle “ragioni di vivere proprie a tutti e a ciascuno[6], delle ragioni cioè attraverso cui intrecciare inscindibilmente la questione del rapporto con l’“altro” con la questione del rapporto ad una “verità”, sia essa sociale, politica, religiosa oppure scientifica. In questo senso, ogni autorità si fonda su una legittimità che non può mai dare per consolidata ma che deve ripetutamente saper rimettere in gioco, affinché i segni con cui si rappresenta (parole, immagini, azioni, volti) siano credibili, cioè dotati di senso per coloro che ad essi affidano le loro vite.

Anche per questo motivo, inoltre, per de Certeau ogni autorità deve saper porgere ascolto alle “rivoluzioni del credibile”, cioè a quei movimenti della storia che, a partire dal vissuto e dall’esperienza tacita, fanno nascere nuovi segni credibili sotto forma di nuove parole, nuove immagini, nuove azioni e nuovi volti. Sono i segni “inventati” proprio da coloro che si trovano ai margini dell’istituzione e, pur tuttavia, al suo interno. Per rimanere all’oggi, pensiamo ai tanti sindaci e ai tanti assessori lontani dai riflettori ma concretamente responsabili dell’emergenza sul loro territorio; ai medici e agli infermieri in prima linea, la cui etica e vocazione ogni giorno si spinge ben oltre le mere aspettative di ruolo; ai parroci e ai catechisti disposti a non indietreggiare davanti alle domande di senso e al dolore di giovani, famiglie e anziani. Sono loro gli “esiliati” che in questi mesi di pandemia, nel silenzio del quotidiano, hanno dato vita a vere e proprie “poetiche sociali[7]. Sono proprio loro coloro che “mancano” alle autorità oggi in affanno, coloro che chiedono di poter essere riconosciuti e rappresentati. Affinché le autorità tornino a dotarsi di senso, affinché siano di nuovo credibili e respirabili.

[1] Su queste due questioni fondamentali del pensiero certiano si vedano in particolare: de Certeau, M., La Culture au pluriel, Éditions du Seuil, Paris, 1993 (ed. or. 1974); de Certeau, M., La debolezza del credere, Vita & Pensiero, Milano, 2020 (ed. or. 1987).

[2] L’articolo verrà raccolto qualche anno dopo nel volume La culture au pluriel (1993, ed. or. 1974).

[3] Termine che userà, in modo particolare, qualche anno dopo nel capitolo XIII de L’invention du quotidien intitolato “Credibilità politiche”. Si veda de Certeau, M., L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2001 (ed. or. 1990).

[4] De Certeau, 1993, cit., p. 24.

[5] Ibidem, p. 30.

[6] Ibidem, p. 31.

[7] Ibidem, p. 29.