La scuola si fa, sempre; si deve fare. Si fa anche senza i banchi, senza le lavagne, senza quell’ambiente ordinato e scandito; senza le sue routine. Senza la sua immutabile normalità.

Si deve fare perché senza scuola perdiamo il futuro insieme, ricadiamo nel totale individualismo dei destini, smarriamo l’orizzonte in cui iscrivere la piena realizzazione di ciascuno.

L’immagine di una scuola-senza, fino a poche settimane fa ci avrebbe trasportati in un luogo altro, di calamità, di sottosviluppo, di privazione. Fotografie di mondi tanto lontani dalla nostra salda (o traballante?) scuola nazionale, con la sua tradizione, la sua forma ben più antica della scuola di massa novecentesca: ampio è l’archivio di lezioni in tende da campo, sotto esotici baobab o in non luoghi dove, alle molte privazioni, resiste il desiderio di imparare, la relazione abitata dal riconoscimento e dalla trasmissione, vero cuore pulsante della scuola.

La resistenza di oggi si fa a distanza, come noto. Il digitale è l’àncora a cui ci si è aggrappati come strumento a cui ricorrere nell’emergenza, investiti da un vento di apparente innovazione solo tecnica, che rischia di non produrre respiro: solo uno scompaginamento temporaneo delle righe, la salvaguardia di una continuità apparente con la vita di prima.

Ci manca però la scuola, quella vera, quella dei corpi e della presenza. Quella dell’evento che ogni lezione genera. La scuola che si è, non la scuola in cui si va come ha scritto D’Avenia.

Ma a questo esilio, di isolamento, di lontananza, non potremo rispondere con una tensione nostalgica, pena il naufragio dell’intera “esperienza scuola” (già annunciato dalle sirene apocalittiche di molti pensatori estremisti).

Occorre, ed è questa la tesi che voglio affermare, viverlo come un attraversamento, non per un ritorno alla normalità, ma per ritrovarci altrove, segnati dall’esperienza, trasformati.

Il tempo che ci è offerto è un tempo in cui apprendere, è un tempo che in-segna. Non l’avremmo desiderato, come ogni esilio, ma occorre farne un esodo.

E solo la riflessione, il ritorno sui passi compiuti, ci permetterà di attuarne il potenziale, riformulando innanzitutto mandato e senso della scuola.

Qualche prima traccia…

  1. Come evidente, la sfida posta dalla pandemia non è tanto una sfida per la scuola, bensì una radicale interrogazione per ogni persona. Veniamo messi in discussione nel nostro modo di vita e nel confronto con le dimensioni di fragilità, relazioni, paure, morte. Ci coinvolge dunque come uomini e donne, prima ancora che come docenti.

Le domande degli studenti, spesso cariche dell’energia appassionata di chi sente con forza pulsare la vita, interrogano innanzitutto la nostra personale e spesso precaria donazione di senso. La mancanza di un sistema di significazione forte e univoco, unito ai nostri personali disorientamenti e disincantamenti, ci spinge spesso ad abdicare, a vacillare nell’esercizio della testimonianza che lo studente necessita. L’urgenza posta dall’esodo spinge in due direzioni.

– Si parla spesso della necessità della formazione dei docenti, ma questa viene solitamente ridotta ad una trasmissione di contenuti tecnico-didattici, ad aggiornamenti burocratici, al limite alla trasmissione di cenni psicologici semplificati e utili soltanto ad una rappresentazione stereotipata dei più giovani. La formazione di cui si avverte l’esigenza è uno spazio continuo di ascolto del proprio agire, di penetrazione degli impliciti dell’attività educativa e di consapevolezza della propria postura; di indagine attenta e condivisa della realtà che abitiamo. Conoscersi è premessa di ogni conoscenza;

– Proprio il riconoscimento della debolezza delle nostre risposte, simili a sottili fili di seta, a flebili luci di candela, impone la necessità di un investimento sulle relazioni e sulle alleanze. In questi giorni di scuola a distanza sentiamo ampiamente parlare degli aspetti relazionali fondamentali nel rapporto educativo con gli studenti, ma troppo poco si sottolinea come la separazione della didattica digitale enfatizzi il vano e glorioso iper-individualismo dell’attività del docente. La collegialità è sopportata e spesso mal condotta, l’individualismo porta a segmentare le proposte disciplinari (separando anche le conoscenze), a competere per affermare piccoli spazi di illusorio potere, a precarizzare le relazioni professionali, ad impedire la già difficoltosa alleanza con le famiglie.

Essere forzati nell’isolamento dovrebbe farci rigenerare le relazioni, innanzitutto tra noi docenti e adulti.

 

  1. La lezione in pigiama di molti studenti in questi giorni, la narrazione genuina e ironica delle loro giornate, delle loro noie e passatempi, la condivisione delle peripezie familiari, è un’esperienza di inedita immersione nelle vite dei giovani. Proprio quando la distanza generazionale sembrava incolmabile, quanto ci sta accadendo è un potenziale tuffo nella realtà degli studenti, una prima mossa di una pedagogia capace di comprensione.

La prossimità alla vita degli studenti, nel momento della più materiale lontananza, fa intravedere una possibilità di recupero della connessione con il fluire della vita adolescente, per poi riaffermare la potenza di una realtà, la scuola, in cui riti, norme e spazi ne definiscano la differenza (niente pigiami, dunque). Un ambiente controambiente a servizio dell’irrompere della novità della vita che sempre i giovani rappresentano, ma capace di annodare alla razionalità digitale (inconsapevole) della app generation la ricchezza di una cultura che erroneamente si vorrebbe rendere inutile.

Quanto bisogno avremmo di vivere, con i nostri studenti, esperienze di vita vera che ci riavvicinino alle loro domande e processi di pensiero, riaccostandoli alla scuola e così assolvendo al compito di integrazione tra due mondi mentali dal cui incontro dipende, probabilmente, la futura risoluzione dei problemi più urgenti del nostro tempo.

  1. Lo stato di emergenza presentifica il tempo che diventa (ulteriormente) orizzontale, ma mai come ora la scuola ha il mandato di tenere aperta la dimensione verticale del tempo, ponendosi tra futuro e passato. La scuola abita il presente in modo inattuale, è un argine, una resistenza all’imporsi di uno sguardo presente-solo-presente che è divorato dall’angoscia, da uno stato di guerra, dalla cronaca.

La mediazione, il ponte, che la scuola distende dà profondità al tempo, ne ripercorre la storia, ne prepara il superamento perché il movimento del sapere rimanga avventuroso e appassionante.

Il nostro tempo è parte di un tempo più ampio, innanzitutto biografico, ma poi anche sociale, storico.

Perché la conoscenza si faccia connettore, occorre esplorare le molte forme attraverso cui incontrare e fruire il sapere. Il digitale, le nuove tecnologie, hanno una potenza enorme in questa direzione, permettendo e promettendo un accesso alla cultura e alle molte forme di racconto della realtà realmente inedito, nonché una sperimentazione didattica senza precedenti. Lo stiamo e lo dobbiamo imparare senza mitizzazioni.

  1. Alla lezione in pigiama, va detto, si correla strettamente l’esperienza, per gli adolescenti particolarmente struggente, della chiusura, dell’isolamento, dell’assenza. È un’esperienza del limite e dell’impossibilità, che deve essere pensata per trasformarsi in ricchezza (purché non si ecceda sulla scala del tempo e delle privazioni). Grazie alle limitazioni esterne, infatti, siamo nella condizione unica per la forma delle nostre e loro vite di essere facilitati e chiamati alla relazione con noi stessi, al contatto con l’interiorità, con la rivelazione di ciò che siamo, con la ricerca del nostro desiderio. E come ha insegnato Arendt “solo chi sa vivere con se stesso è capace di vivere con gli altri”. Questo aspetto, da molti sottolineato, insegna alla scuola almeno due grandi direzioni: la prima che occorre prendere molto sul serio la questione, detta malamente, dell’orientamento di adolescenti e giovani. È uno dei compiti precipui di un docente e si è così distanziato dal tema della verità e del significato, riducendosi a semplice informazione, tanto da rendersi inutile. Questi giorni mostrano invece che dobbiamo ritrovare spazi in cui permettere agli studenti di conoscersi e conoscere il proprio desiderio abitando il silenzio, la riflessione, il confronto con il limite e l’impossibile.

In secondo luogo, questo tempo deve aiutarci a rimettere al centro del nostro agire un’idea di scuola che sia palestra di relazioni e solidarietà: ci siamo stretti a coorte sospinti dall’emergenza, avvertendo un vago sentore di comunità, ma questa esperienza di solitudine trascina sotto gli occhi di ciascuno di noi il mandato costituzionale di una scuola che è via verso la cittadinanza, la vita insieme fatta innanzitutto dell’esercizio della responsabilità reciproca.

 

  1. L’attenzione ai più fragili e agli emarginati. La scuola del merito, dell’apertura di possibilità per tutti, della mobilità sociale si riduce nella realtà ad una scuola classista, staticamente bloccata nella conferma delle disuguaglianze vigenti, dimentica dei molti suoi “scarti”. La crisi economica che alla pandemia si correla deve essere l’occasione per rimettere al centro l’istruzione e la ricerca come veri tramiti di lotta alla disuguaglianza, ripensando il sapere come strumento di libertà e liberazione, la scuola come luogo dell’incontro tra diversi che nell’esperienza si confrontano, la produzione di conoscenze come valore riconosciuto e forma di partecipazione alla crescita della società.

Per questo dovremmo ridiscutere le forme della selezione e di riconoscimento del merito, i modi di sostegno strumentale alle famiglie, le modalità di insegnamento, perché sia valorizzante e inclusivo, la lotta all’abbandono scolastico, ma anche le forma, non una tantum, perché giovani e patrimonio culturale, ma anche giovani e attività produttive siano in costante relazione.

Sono primi passi e direzioni, traiettorie intraviste, spunti per apprendere insieme.

Parliamone e discutiamone, mettiamo in circolo idee, tensioni, riflessioni, tenendo sempre fisse le nostre antenne di adulti appassionati alla voce e ai gesti dei giovani. Se c’è infatti una lezione che tutti noi docenti ci troviamo a frequentare ogni giorno è l’inesauribile unicità di ognuna delle ragazze e dei ragazzi che accompagniamo. Da questo cammino di apprendimento, se avremo coraggio, usciremo trasformati, ben più di quanto auspichiamo.

“Quando avrai perso la testa, come l’ho persa Io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come premio” don Lorenzo Milani