Dobbiamo saper leggere i segni, se vogliamo vivere da cristiani nel mondo. Qual è la strada che Papa Francesco indica alla chiesa e a noi tutti per affrontare il nostro tempo?

Innanzitutto una via ‘rivoluzionaria’ cioè controcorrente: la via dell’amore e della misericordia, che ne è la carne. L’amore è sempre rivoluzionario perché rompe i confini, perché non accetta il ‘si è sempre fatto così’, perché inventa modi sempre nuovi per rispondere a quello di cui c’è bisogno. Non si può fare la madre con il manuale di pedagogia in mano, perché le domande sono sempre impreviste; e non si può dare a tutti la stessa cosa, perché quello che va bene per uno non va bene per l’altro, perché ciascuno ha bisogni diversi. L’amore ha proprio questa capacità di leggere la realtà viva, questa concretezza. È una via generativa quella che ci propone Francesco. Il singolare appello alle religiose, «siate madri, non zitelle», non era offensivo, e in realtà parlava a tutta la chiesa; perché ciascuno di noi, maschi e femmine, consacrati e laici ha sempre di fronte questa alternativa tra la sterilità e la generatività. Generare dice della nostra miracolosa capacità di mettere al mondo un figlio o di rimettere al mondo le persone che incontriamo: riconoscendole, consentendo loro una seconda nascita, favorendo le condizioni per una vita dignitosa, perché le loro qualità possano fiorire. E così, possiamo a nostra volta rinascere.

Misericordia è parola generativa. Sembra appartenere a un lessico un po’ pio e di parte, ma in realtà, nellasua sostanza, è l’unica alternativa alla cultura della indifferenza o del dominio. È nome di un movimento antropologico originario: lasciarsi toccare il cuore (miserere cordis). Chi ha il cuore indurito non è miscredente, è semplicemente disumano. Misericordia è la risposta generativa che Papa Francesco ha offerto al mondo per affrontare la questione delle disuguaglianze.

Noi abbiamo l’ossessione delle relazioni simmetriche, ma la simmetria non può esistere nelle relazioni umane: esiste solo nella matematica, che è una scienza astratta, formale.

L’astrazione è in realtà molto pericolosa, perché impone una equivalenza che di fatto non c’è e non assicura affatto la libertà dal dominio, anzi. Le relazioni vive non sono mai alla pari o perché siamo adulti e bambini, giovani e anziani, o perché siamo più capaci di fare una cosa e meno un’altra. Semplicemente, perché siamo diversi. L’unica alternativa è perciò la misericordia, via di concretezza alternativa a quella astratta delle procedure. La misericordia assume la disuguaglianza per promuovere il più debole. E non come paternalistico mezzo di controllo (aiuto in cambio di sottomissione), ma come via di capacitazione, perché tutti possano portare il loro contributo al mondo: là dove c’è una debolezza, una fragilità, io non domino, ma sollevo, accolgo. Per accompagnare e lasciarmi accompagnare.

P erché misericordia non è un valore, o un principio, ma un movimento di reciprocità, che ‘salva’ chi lo offre e chi lo riceve. Che cambia tutti, che immette qualcosa di nuovo nel mondo, al di là della misura stretta del contratto. Che genera. La misericordia poi non è un nostro prodotto, una nostra ‘buona azione’: noi possiamo essere misericordiosi solo perché abbiamo ricevuto la misericordia, possiamo dare perché abbiamo ricevuto.

Non siamo gli autori della misericordia, ma solo i mediatori. E possiamo esserlo solo se riconosciamo di essere noi per primi bisognosi: «Sono amato, dunque esisto; sono perdonato, quindi rinasco a vita nuova; sono stato ‘misericordiato’, quindi divento strumento di misericordia» (Misericordia et Misera 16). Così come possogenerare perché sono stato generato. Principio di relazione e liberazione reciproca, al quale la cultura contemporanea tristemente contrappone l’idea di individui sterili che fabbricano altri individui sterili. Contrariamente al senso comune la misericordia non ha un fondamento morale, non è un dover essere; piuttosto si radica nelle viscere, è legata alla maternità, alla nascita, al mettere e rimettere al mondo. Infatti l’etimologia, sia in ebraico che in arabo, ha a che fare con una radice che indica utero, grembo.

Misericordia è un movimento salutare, che aiuta a deintellettualizzare la fede, a renderla di nuovo vita.

Perché misericordia è concretezza: si radica nel vissuto del volere bene, del prendersi cura. Ha a che fare con persone concrete, con volti e non con statistiche. È amore incarnato, che tocca e si lascia toccare. È il linguaggio della sollecitudine, dell’abbracciare, fatto di gesti, di azioni, di ‘opere’. Per questo Papa Francesco ha richiamato, anche per i giovani, l’importanza delle opere di misericordia, con la loro ‘tattilità’ («se non lo hai toccato non lo hai incontrato»). Un contatto che ci aiuta a cambiare direzione. Ci converte.

Recuperare questo tratto della nostra fede è fondamentale. Ci riporta a una dimensione umana, dove siamo liberi di toccare l’altro con semplicità fraterna.

Se invece prevale l’ossessione immunitaria di non toccare e non essere toccati, la tattilità ritorna poi in forma violenta o pervertita, come si vede nelle tante forme degradate che colpiscono l’Occidente, e anche la Chiesa purtroppo.

Misericordia come concretezza, tocco che esprimendo affetto riconosce un valore e ‘rimette al mondo’. Modo di prendersi cura, che però non diventa possesso. Non si è misericordiosi per fare proselitismo. La misericordia fa rinascere l’altro alla libertà.

È un invito e non un ricatto. Mettere al mondo è anche accettare di fare i conti con la perdita. Le porte sono aperte, perché chi vuole possa entrare, e anche uscire.

L’ossessione del controllo snatura la chiesa. Concretezza non è però chiusura nel particolare, appiattimento sulla situazione così com’è. È piuttosto riconoscere quel contattocome la frase di un linguaggio universale: il linguaggio della comunione, dove «il tutto è superiore alla parte» (EG 234). Il che non significa che la parte è svalutata, ma che non può essere intesa come autosufficiente (nella logica della frammentazione) perché ‘tutto è connesso’: nel piccolo si vede il grande, nel povero si vede Gesù, nel bambino si vede il mistero dell’adulto che sarà. Tutto è legato insieme, nella vita. Ciò che è piccolo sta con la pienezza in un rapporto di tensione feconda: «Vi è una tensione bipolare tra la pienezza e il limite» (EG 222). Un’affermazione che richiama l’idea di ‘opposizione polare’ di Guardini: una dualità feconda, anziché un dualismo sterile. Se tutto è connesso, nello spazio e nel tempo, non si possono separare ecologia ambientale ed ecologia umana: «Quando non si riconosce nella realtà stessa l’importanza di un povero, di un embrione umano, di una persona con disabilità – per fare solo alcuni esempi – difficilmente si sapranno ascoltare le grida della natura stessa» (LS117).

E ancora: «Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono» (LS 120).

L’attenzione al mondo e agli altri non è un imperativo morale, nella prospettiva della misericordia, ma la conseguenza di una sollecitudine, un affetto, un desiderio, un avere a cuore: è un «innamorarsi del mondo» (LS11).

Questo movimento di uscita da sé, dalla misura stretta del rapporto costi-benefici, da una autoreferenzialità sterile per sbilanciarsi verso il mondo e gli altri è un movimento generativo. L’azione generativa è un’azione ‘in uscita’. E in questo movimento di perdersi, il soggetto, evangelicamente, si ritrova. In un mondo ossessionato dal bisogno di autoaffermazione dell’individuo, migliorare l’ambiente e favorire la dignità di tutti è fonte, ‘obliqua’ ma molto più autentica, di realizzazione di sé: «La nostra realizzazione passa attraverso quella degli altri: quando viviamo la mistica di avvicinarci agli altri con l’intento di cercare il loro bene, allarghiamo la nostra interiorità per ricevere i più bei regali del Signore». (EG 272).