“Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore”.

Se si dovesse seguire l’indicazione che fa da incipit al nuovo brano di Fedez e che esorta a cercare un po’ di se’ stessi nelle canzoni di De André, si potrebbe brandire questo comandamento in quanto esemplificativo della genitorialità intesa come possibilità di creazione di vita e amore compassionevoli.

È un lungo processo che va imparato, prevede la comprensione di più emozioni madide di essenza e contraddizioni: la pietà, il rancore, l’altro, l’essere altro.

Ci sono aspetti della metastabilità dell’esistenza che accomunano tutti i genitori, ma prima ancora, la gente [GENIT-US p.p di GEN (v. gente)]. È questa la ragione per cui, anche chi non ha esperito la genitorialità della vita umana, è in grado di comprendere il meccanismo relazionale che sottende al desiderio e, quindi, alla generazione di una nuova vita.

Vi è una universalità nel sentire comune di essere Madri e Padri. Questa giunge da un’esperienza sconvolgente e drammatica ma necessaria e salvifica: l’esperienza dello statuto di orfano. Solo dopo essersi immersi in questa natura ontologica, risulta chiaro il processo che consente il perpetuarsi della vita, la sua celebrazione. Solo dopo si sperimenta, con coscienza, la comunione con il Creato.

Per poter essere figli, per poter essere padri, per poter comprendere e vivere un ruolo, bisogna prima privarsene, bisogna scegliere prima di essere orfani.

Orbati di tutto, si sperimentano così le geografie del vuoto, del desiderio in cui ci si muove con la consapevolezza del gioco dei contrari.

Dare vita presuppone una morte, esige il lutto dell’individualità in ragione della fioritura. Qui, muore il riflettersi ma nasce il riconoscersi nell’altro. Si usa la propria esistenza, si sceglie di usarla per creare altra esistenza, per dare senso, attraverso il figlio, alla vita integrata. E questo viene “Prima di ogni cosa”.