Osservando la situazione attuale del pensiero e  delle  pratiche nel campo dell’organizzazione e del management sembrano emergere due aspetti storici e culturali di notevole rilevanza. Da un lato appare evidente come l’istanza della sostenibilità costituisca oggi un vettore evolutivo di sempre maggior forza e rilevanza nella nostra società. È chiaro come il rafforzarsi progressivo, ma altrettanto rapido, dell’onda socioculturale della ricerca di sostenibilità in tutte le sue diverse declinazioni stia oggi con inedita vitalità ispirando la configurazione di nuovi discorsi, idee e prospettive concettuali e stia anche stimolando sempre più visibilmente sperimentazioni strategiche  e  gestionali orientate a interpretare concretamente l’idea di sostenibilità e il suo valore nella gestione delle organizzazioni.

Il secondo fenomeno storico e culturale, non meno rilevante, oggi osservabile riguarda le condizioni in cui versa il discorso del management che abbiamo conosciuto a livello internazionale a partire dagli anni ’90. Utilizziamo il termine discorso per indicare quel reticolo di idee di fondo, valori, schemi, pratiche ma anche dispositivi, sistemi, strumenti che hanno caratterizzato storicamente il discorso e la pratica manageriale dagli anni ’90 ad oggi. L’accezione con la quale utilizziamo il termine “discorso manageriale” è quindi sintonica con l’idea weberiana di “spirito del capitalismo” successivamente ripresa a partire dagli anni ’90 da Boltanski e Chiapello nelle ricerche sul “nuovo spirito del capitalismo” che si andava costituendo tra la fine del II millennio e l’avvio del terzo.

Il fatto storico che oggi osserviamo con chiarezza è la crisi di credibilità, di legittimazione, di consenso, ma anche di efficacia e di funzionalità in cui versa il discorso manageriale contemporaneo, che in altre ricerche ho definito neomanagement. Il discorso neomanageriale vive oggi la fase discendente e conclusiva del suo ciclo vitale trentennale: oggi testimoniamo il tramonto di questo discorso, determinato da una molteplicità di fattori concorrenti, quali l’emergere di una critica sempre più autorevole, insistente e precisa sia sul piano scientifico che su quello del comune discorso sociale, a cui si aggiunge una evidente perdita di efficacia di questo discorso e delle sue pratiche e dispositivi di fronte ai problemi e alle sfide gestionali che le organizzazioni pongono oggi ai loro responsabili.

Un terzo rilevante  fattore che sta oggi accelerando la crisi del discorso neomanageriale è la quantità e intensità di malessere umano legato all’esperienza di lavoro che si è diffuso progressivamente negli ultimi 20 anni nelle organizzazioni. La vastità di questo malessere costituisce una minacciosa crepa nella solidità apparente del discorso gestionale che ne compromette la tenuta perché da un lato esso è incapace di rispondere costruttivamente al fenomeno della sofferenza che esso alimenta, non riuscendo nemmeno ad interpretarne il senso e le determinanti, dall’altro non è più in grado di censurare e rimuovere dal campo visivo il malessere che abita nelle organizzazioni contemporanee come se in questi decenni si fosse accumulata una montagna di polvere sotto il tappeto che non è più possibile nascondere alla vista. Il terzo aspetto storico di grande rilevanza è il fatto che proprio mentre si sviluppa e si approfondisce la crisi culturale del discorso neomanageriale il campo del management accusa un  clamoroso  ritardo di rinnovamento  rispetto all’appuntamento epocale con l’emergere dell’istanza della sostenibilità. Oggi il campo professionale del People e HR management e dell’organizzazione aziendale appare come un campo culturalmente conservatore che si consuma in un esercizio ormai storicamente sterile di ripetizione di una eredità di idee, pratiche e strumenti ormai logora e inadeguata alle sfide del presente.

Il campo del People Management oggi sembra proporre una logica di ripetizione senza fine di idee, schemi e soluzioni ereditati da un’epoca storica che si è ormai conclusa, dando luogo a proposte che costituiscono innovazioni solo apparenti perché riguardano solo aspetti metodologici, tecnici, spesso tecnologici, o ancora più superficialmente di relabelling di idee tradizionali con nuove parole più attrattive e à la page, ma che non hanno la forza delle innovazioni di tipo paradigmatico, ossia delle innovazioni che riguardano le idee di fondo, i paradigmi sottostanti alla gestione delle persone nelle organizzazioni e non solo gli strumenti metodologici. Da almeno un paio di decenni osserviamo nel vasto campo del People Management un vivace susseguirsi ciclico di innovazioni apparenti che riguardano il labelling delle idee e delle soluzioni tecnicometodologiche della loro implementazione, ma appare invece evidentemente assente un lavoro di innovazione paradigmatica che operi sulle idee profonde che ispirano pratiche e sistemi. Il campo del People Management in tutta la sua articolazione appare quindi oggi ad un occhio attento e critico, e al di là del suo vivace sforzo di apparire come un campo vitale e innovativo, dovuto a esigenze prevalentemente commerciali, come un campo radicalmente conservatore e statico, in piena contraddizione con i suoi dichiarati e in ormai totale distonia storica con l’emergere dell’istanza della sostenibilità, che al contrario esigerebbe un lavoro di rinnovamento profondo e paradigmatico a partire dalle ideeguida che orientano le pratiche e le proposte caratteristiche di questo campo. Il mondo della consulenza sembra finora contribuire grandemente a questa situazione di stallo ripetitivo dimostrandosi incapace di promuovere e realizzare un rinnovamento che interpreti un autentico salto di paradigma.

Affinché il campo professionale del People Management possa superare questa situazione storica di stallo ripetitivo e conservativo sono necessari due coraggiosi movimenti: il primo è un movimento di tipo criticoriflessivo che consenta di vedere e di affermare, come è stato molto difficile fare negli ultimi 20 anni, che il discorso neomanageriale presenta dei tratti profondi ed evidenti di insostenibilità e di degeneratività. È un discorso che nella situazione attuale tende a distruggere valore sia organizzativo che sociale e individuale più che a costruirne. Questo discorso appare oggi con chiarezza distonico con l’istanza emergente della sostenibilità e deve quindi essere congedato. Non è credibile riproporlo come discorso adeguato alla fase storica che stiamo vivendo, come tuttavia si osserva accadere ancora oggi insistentemente da parte di molta consulenza e in molte organizzazioni.

 

I TRATTI DI INSOSTENIBILITÀ DEL DISCORSO NEOMANAGERIALE

Il primo tratto profondo di insostenibilità del discorso manageriale contemporaneo è il suo orientamento radicale all’individualizzazione. Questo discorso attraverso un vasto spettro di strumenti concettuali e retorici opera una  ricorrente traduzione di problemi sistemici in problemi soggettivi e pone ai soggetti un’ingiunzione perentoria a trovare soluzioni individuali a problemi  sistemici i quali vengono pertanto regolarmente mandati in penombra in quanto sistemici e rimossi dal campo visivo sia sociale che soggettivo. Quest’opera discorsiva ma anche pratica di continua traduzione di problemi del contesto in problemi individuali costituisce naturalmente anche una grave violenza politica e psicologica, come molta ricerca oggi riconosce con maggiore chiarezza. I problemi sistemici, una volta individualizzati e scollegati dalle variabili contestuali rimosse in una zona d’ombra, tendono quindi a essere scaricati sulle spalle dei soggetti che finiscono col trovarsi in una condizione spesso insostenibile di tentativo irrealistico di risolvere individualmente problemi contestuali.

Il secondo tratto di insostenibilità del discorso gestionale contemporaneo è la sua propensione all’idealizzazione. Questo discorso propone insistentemente agli attori organizzativi modelli idealizzati di personalità, di comportamento, di valori, di competenze che pone come riferimenti da interiorizzare e a cui tendere ma su cui i soggetti sono anche costantemente valutati. Negli ultimi 30 anni abbiamo assistito a un’impressionante diffusione di questi modelli nelle organizzazioni lavorative e ne abbiamo testimoniato una progressiva sorprendente inflazione, che ne ha visti emergere ed affermarsi centinaia. Oggi abbiamo la consapevolezza storica e gestionale per affermare che l’utilizzo di questi modelli non è spesso efficace e anzi alimenta quelle derive psicologiche che Alain Ehrenberg ha definito come “malattie da inadeguatezza”: disturbi del processo di individuazione e della stima di sé, per usare le parole di Paul Ricoeur, o del narcisismo sano, per dirla in termini analitici.

Il terzo tratto di incompatibilità con la logica di gestione della sostenibilità è la intrinseca paradossalità del discorso neomanageriale. Questa paradossalità si percepisce già nel linguaggio, che è ricco di espressioni paradossali, contraddittorie ossimoriche che congiungono contrari, come “libertà controllata”, “imprenditività allineata”, “creatività compliant”, “passionalità funzionale”, “autenticità strategica” eccetera. Al di là dell’evidente paradossalità sul piano del linguaggio, che pure è una caratteristica molto determinante del discorso che oggi alcuni studiosi definiscono “managinario”, perché sospende la sua possibilità di creare e di esprimere significati riconoscibili e solidi, determinando un universale regime dell’insignificanza in cui vale tutto e il contrario di tutto, è in realtà nell’esperienza lavorativa quotidiana che i soggetti fanno ricorrentemente esperienza della paradossalità di questo modo di concepire la gestione organizzativa. Sempre più numerosi lavoratori vivono un’esperienza organizzativa segnata dalla contraddizione e dalla paradossalità, nel senso che sono inscritti in situazioni che chiamano perentoriamente a rispondere contemporaneamente a ingiunzioni opposte e contraddittorie ma tutte egualmente ineludibili, nel quadro di una narrazione che mentre la esacerba  nega la contraddittorietà stessa delle istanze opposte a cui i soggetti sono chiamati a rispondere, e la rimuove. Il lavoro si è negli ultimi anni trasformato in una esperienza paradossale e questo ha chiamato i soggetti ad una prestazione mentale ed emotiva di convivenza e di tentativo di risoluzione di queste contraddizioni che ha molto contribuito a deteriorare la qualità della vita di lavoro e spesso ha determinato l’insorgere di diffuse situazioni di malessere o addirittura sofferenza.

Il quarto tratto di incompatibilità del discorso manageriale contemporaneo con la logica della sostenibilità è la profonda ritemporalizzazione  dell’esperienza che esso ha generato. Il discorso  neomanageriale ha nell’arco di un trentennio riscritto la temporalità dell’esperienza di lavoro introducendo un nuovo regime di temporalità che con gli analisti contemporanei definiamo regime dell’urgenza permanente, in sé già un concetto paradossale. Si tratta della normalizzazione di una temporalità emergenziale che richiede a tutti di accelerare i ritmi delle attività e di tendere asintoticamente all’istantaneità della risposta e della soluzione dei problemi. La temporalità neomanageriale ha cancellato la possibilità sia psichica che sociale della latenza, della riflessività, del respiro del confronto interpersonale, tanto che in molti contesti aprire  spazi di analisi e di riflessività sulle dimensioni sia funzionali che sociali e soggettive dell’esperienza di lavoro è un comportamento ormai evidentemente stigmatizzato come una intollerabile inefficienza, che deve essere tassativamente  limitata e inibita. La nuova temporalità del management, celebrando la teologia dell’azione veloce e istantanea introduce i soggetti in un regime anche mentale di iperattivismo parossistico che, oggi lo constatiamo con evidenza, diviene un potente inibitore della possibilità di pensare, di pensare con altri e di restare in contatto con il proprio mondo interiore.

Questi e numerosi altri tratti che non abbiamo qui la possibilità di indicare collaborano e si intrecciano sinergicamente per generare una sorprendente rimozione collettiva della realtà effettiva dell’esperienza di lavoro che inibisce la funzione mentale e sociale dell’esame di realtà e determina sul piano del funzionamento  organizzativo e della gestione effetti di cecità manageriale e di incapacità di vedere, analizzare e comprendere i problemi ancor prima che di lavorare efficacemente per contenerli o risolverli, mentre sul piano del vissuto soggettivo del lavoro alimenta la diffusione del malessere.

Negli ultimi 30 anni anche il mondo della consulenza e della formazione ha contribuito attivamente e talvolta in modo decisivo al consolidamento e alla diffusione di questo discorso gestionale e dei suoi effetti di insostenibilità organizzativa e soggettiva.

È ormai necessario trovare collettivamente una via per uscire dalle secche di questo discorso, è importante oggi lavorare affinché esso sia congedato e dimesso sempre più diffusamente. Nonostante l’evidenza storica di tale esigenza, questo rimane un compito coraggioso e per certi versi rivoluzionario perché il regime discorsivo e simbolico che ha dominato a partire dagli anni ’90 è ancora oggi radicato, spesso dominante. Sulle sue fondamenta sono stati istituiti modi di rappresentare e raccontare il management, pratiche di gestione, strumenti, dispositivi e non ultimo un ampio mercato di servizi professionali e di sistemi con esso coerenti. Non secondario è anche il fatto che numerosi professionisti in ambito HR abbiano costruito la propria identità professionale proprio nel quadro di questa cornice discorsiva e abbandonarla significa per loro intraprendere un profondo lavoro di rivisitazione sul piano dell’identità professionale e del senso della propria azione professionale. Dobbiamo tuttavia contribuire in ogni modo possibile affinché il mondo delle pratiche di gestione possa procedere oltre il neomanagement e arrivare all’appuntamento storico con l’istanza della sostenibilità attraversando un cammino di trasformazione e di innovazione paradigmatica profonda, senza la quale perderà la scommessa  del  rinnovamento e del contributo al mondo che arriva.

 

I VALORI CHIAVE DEL MANAGEMENT GENERATIVO

Il secondo movimento necessario per superare la permanenza e l’egemonia del discorso gestionale contemporaneo neomanageriale è muovere nella direzione di una cultura di gestione sintonica con il principio della sostenibilità contributiva: è un movimento di tipo progettuale, di rinnovamento, di positiva costruzione di idee e pratiche, nonché di soluzioni, che possano costituire un autentico cambio di paradigma rispetto al pensiero dominante. Si tratta oggi di costruire un pensiero diverso del management e anche dell’educazione al management. L’ipotesi di lavoro che si intende proporre in questo contributo è che il management sostenibile e generativo sia una azione gestionale capace di generare 5 tipi diversi di valore e quindi di interpretare 5 equazioni fondamentali della produzione di valore attraverso la gestione delle persone e delle organizzazioni.

Il primo tipo di valore è quello della conoscenza e l’equazione che gli corrisponde afferma che il management sarà tanto sostenibile e generativo quanto sarà in grado di stimolare la produzione di conoscenza da parte degli attori organizzativi. Si tratta di orientare la gestione ad azioni e approcci in grado di stimolare e provocare l’elaborazione del pensiero, della conoscenza riflessiva attorno all’ esperienza di lavoro e al funzionamento organizzativo nelle loro complessità. I manager sostenibili e generativi saranno capaci di favorire l’elaborazione di conoscenza originale sia sul funzionamento organizzativo e sociale del contesto sia rispetto alle dinamiche psicologiche,    relazionali e sociali. A questo fine un tratto caratterizzante il management generativo sarà la capacità di costruire, sostenere e gestire luoghi, spazi e tempi organizzativi collettivi in cui possa essere coltivata la produzione sociale di conoscenza utile e situata, utile proprio perché situata nella concretezza effettiva dei problemi, delle sfide e dei processi caratterizzanti ogni singolo contesto.

Il secondo valore caratterizzante il management generativo è la fiducia. La seconda equazione fondativa del management sostenibile sottolinea il fatto che la gestione può essere generativa solo nella misura in cui promuove la costruzione della fiducia, intesa come asset organizzativo di fondamentale centralità per una gestione  sostenibile. La sfida della costruzione della fiducia, che si situa sul piano etico, è quella di agire alimentando il patrimonio di fiducia tra le  persone, tra l’organizzazione e le persone e anche delle persone in loro stesse. Su questo piano sarà necessario imparare a coltivare la fiducia interpersonale, a sostenere la fiducia nell’autenticità e nell’affidabilità della parola e degli impegni, la fiducia nella giustizia ed equità delle decisioni, delle policy, fiducia nella trasparenza comunicativa tra attori organizzativi e tra essi e l’organizzazione. Il management generativo sarà  consistentemente impegnato nella sfida della generazione di fiducia e lavorerà sia sul piano dei comportamenti che su quello delle strutture e dispositivi, dei processi, dei sistemi e delle regole che determinano il rapporto tra lavoratori e organizzazione. Questo investimento sulla questione della fiducia costituirà un indubbio elemento di forte discontinuità rispetto al periodo storico neomanageriale, che, al di là dei dichiarati trionfalistici e idealizzanti, ha rappresentato una fase nella quale si è molto diffusamente compromesso il capitale di fiducia relativo all’esperienza di lavoro, sia nei rapporti orizzontali che nei rapporti verticali con le autorità gerarchiche, e anche nelle relazioni istituzionali tra soggetti e organizzazione.

Il terzo valore di riferimento è quello del senso e la terza equazione richiama l’attenzione sul fatto che vi possa essere sostenibilità e generatività dell’esperienza di lavoro solo nella misura in cui essa sia anche una esperienza  di  senso, di orientamento a significati chiari, condivisi e mobilitanti. Da questo punto di vista va riconosciuto che il trentennio alle nostre spalle ha coinciso con una spaventosa crisi di senso dell’esperienza di lavoro nelle organizzazioni favorita dall’emergere delle esigenza di redditività finanziaria come unico senso del lavoro, ma ha anche consentito a chi sia rimasto in ascolto di questi anni di vedere oltre ogni evidenza come la redditività finanziaria non possa costituire un senso sufficiente per mobilitare le energie di impegno e creatività dei lavoratori di qualsiasi livello.

Il management sostenibile e generativo dovrà quindi orientarsi all’idea di purpose, facendo attenzione a non strumentalizzarla come l’ennesima buzzword di moda e in grado solo di fare una breve comparsa nel firmamento dei concettimeteora del discorso manageriale.

Il quarto valore chiave del management sostenibile e generativo è quello della soggettivazione. L’equazione sottostante richiama il fatto che la gestione possa essere generativa solo nella misura in cui sia capace di promuovere processi di soggettivazione nell’esperienza di lavoro. Promuo

vere la soggettivazione nei contesti di lavoro significa promuovere lo sviluppo di soggetti capaci di integrare in modo coerente il pensare, il sentire, il dire e l’agire e di evitare la possibilità patologica, sia esistenzialmente che organizzativamente, della scissione tra questi aspetti. La sfida consisterà nel promuovere soggetti capaci di agire nei contesti lavorativi sapendo ciò che pensano e sentono, in grado di esprimere e fare ciò che effettivamente pensano e sentono e in grado di lottare costruttivamente per ciò che conta, sia nell’interesse della propria integrità identitaria ed esistenziale, sia per la difesa di relazioni cooperative costruttive, sia per il perseguimento dell’interesse organizzativo e del compito primario istituzionale. È oggi evidente come il trentennio trascorso abbia purtroppo spesso contribuito a costruire soggetti di cartone, inconsistenti sul piano identitario ed etico, fragili sul piano della continuità del proprio pensiero e della propria azione, spesso ansiosamente e passivamente assoggettati all’esigenza di adeguare modelli idealizzati prescritti. La parola fondamentale del management che si orienti alla generatività e sostenibilità sarà in questa prospettiva l’idea dell’autorizzare, ossia dell’operare affinché le persone possano esprimere il valore del loro pensiero personale e possano sperimentare la necessaria libertà di giudizio, deliberazione decisione e azione nell’esercizio dei loro ruoli.

Infine, il quinto valore di riferimento del management sostenibile generativo è il legame. L’equazione corrispondente a questo valore ci ricorda il fatto che la gestione può essere generativa sono della misura in cui sia capace di promuovere la costruzione di legami solidi, significativi, affidabili, soddisfacenti tra le persone, con le autorità, con i colleghi e con l’organizzazione intera, superando l’orientamento che ha dominato nei decenni precedenti colonizzato dalla retorica e dalla pratica dello slegame e improntato ad esasperare una forma astratta e distruttiva di individualismo competitivo.

Perseguire questi cinque valori nella gestione di persone e organizzazioni significherà operare una autentica rivoluzione silenziosa e coraggiosa, assumendo riferimenti diversi da quelli che hanno ispirato la narrativa e la pratica manageriale effettiva negli scorsi decenni. Significherà costruire una testimonianza che anticipa il tempo che verrà e che potrà ispirare altri aprendo anche per loro sentieri imbattuti. A questo scopo, nel tempo presente, anche il mondo della formazione manageriale avrebbe la  responsabilità di riflettere su sé stesso e di interrogarsi in profondità su cosa significhi educare al management sostenibile e generativo, trasformandosi radicalmente prima di essere superato e reso obsoleto dal mondo che ci viene incontro.