Guardando al concetto di libertà e considerandolo nella sua evoluzione storica, si nota una difformità – quando non un ribaltamento – tra il suo significato attuale e quello originale.
Se infatti nell’antichità la libertà aveva un chiaro riferimento alla partecipazione alla “cosa pubblica”, oggi si tende più a pensarla come la protezione della sfera individuale rispetto alle ingerenza della collettività o delle istituzioni.
Come dire: la “libertà di” è diventata “libertà da”, assumendo una connotazione individualistica e negativa piuttosto che collettiva e affermativa.

 

Come è successo? Come si è arrivati ad identificare la libertà con la nostra sicurezza personale, privatizzandola e allontanandola progressivamente dalle istituzioni?

Se ripercorriamo i passi della storia italiana dal Sessantotto ad oggi, vediamo come da quel momento in poi nella cultura nostrana, sia di destra che di sinistra, sia andata affermandosi l’idea che le istituzioni bloccassero la libertà in una sorta di “gabbia di accaiao”, come diceva Max Weber.
Negli anni Settanta si scivolò poi nella lotta armata, che ebbe conseguenze negative sul piano sia teorico che politico – senza considerare qui quello umano e sociale. Da quel momento è venuta meno la possibilità di un’azione politica collettiva e radicata nella società: da un lato i movimenti di protesta si sono rivelati incapaci di raccogliersi attorno a obiettivi comuni e di istutizionalizzarsi, rimanendo ai margini della dialettica politica; dall’altro la politica si è difesa dai loro attacchi inconcludenti barricandosi all’interno delle istituzioni esistenti (Stato, partiti, sindacati, amministrazioni locali…), perdendo il contatto con le spinte che venivano dal basso.

Emblematico è stato – per uscire dalla dimensione italiana e comprendere come quanto descritto sia una tendenza generale – il recente e drammatico attacco a Capitol Hill, la più importante istituzione americana, da parte di un gruppo che si autodefiniva un “movimento di liberazione”.
Alla luce di tutto ciò, è facile capire perché l’azione politica, così come la conosciamo oggi, risulti depotenziata: si è persa la relazione tra libertà e istituzione, conditio sine qua non perché la politica possa essere produttiva e la libertà assumere senso e concretezza.

 

Come ripensare questa relazione?

È necessario ricondurre entrambi i concetti al loro significato originale, partendo dalla loro etimologia.
Le radici indoeuropee “leut” (da cui derivano il greco “ἐλευθερία” e il latino “libertas”) e “fria” (da cui derivano l’inglese “freedom” e il tedesco “freiheit”) rimandano alla fioritura, alla crescita comune, ad una potenza connettiva insita nel concetto di libertà.
Nel verbo “instituere”, invece, risuonano l’idea di movimento e quella di stabilità. La contraddizione è solo apparente, poiché “istituire” significa creare qualcosa di nuovo, che per funzionare deve necessariamente acquisire nel tempo una sua stabilità. Senza, però, perdere di vista il versante dell’innovazione, scivolando in un atteggiamento conservativo – esattamente ciò che è successo.

La Rivoluzione francese ha rovesciato la figura di un monarca che si identificava con lo Stato, istituendo strutture finalmente impersonali, in cui si articola la vita sociale di un Paese. Quelle strutture sono diventate una sorta di guardiano dell’ordine prestabilito, un bastione di difesa per tenere la società compatta.
Ciò ha contribuito alla trasformazione del concetto di libertà, che oggi non è più qualcosa da condividere, ma un bene da salvaguardare – non implica più il rapporto, la relazione, ma si identifica con l’autonomia, l’autosufficienza dell’individuo.

 

Come aggregare nuovamente quelli che sono diventati due poli?

Da qualche tempo a questa parte la concezione delle istituzioni sta cambiando: stanno nascendo un nuovo pensiero e una nuova pratica istituente, che danno vita a esperienze che operano nella società e fanno l’interesse del bene comune – a livello locale, famigliare, di volontariato.
In queste esperienze si riconosce quella libertà generativa, aperta all’altro e produttiva di alterità di cui parlano Mauro Magatti e Chiara Giaccardi nel loro libro “Voglio una vita generativa. Ripensare libertà e fraternità oltre la crisi”.

In questo modo è possibile tornare a comprendere il carattere di necessità e libertà delle istituzioni, che forniscono il canale entro cui sviluppare la propria esperienza.
La storia ci insegna infatti che gli interessi degli esseri umani non convergono mai spontaneamente – ce lo ricorda anche Freud, chiarendo che il principio di piacere da cui tutti siamo mossi produce conseguenze nocive se non è limitato dal principio di realtà.
Certo, il limite implica un disagio, ma è un disagio necessario per il vivere civile e sociale.
In quest’ottica, le istituzioni diventano protesi della vita umana, necessarie alla nostra sopravvivenza perché rendono la vita degli uni compatibile con quella degli altri.
In ultima analisi, rappresentano una mediazione: non eliminano la libertà ma la istituzionalizzano, la rendono durevole.

Allo stesso modo, il rapporto tra politica e istituzioni ha carattere di necessarietà, ma ciò non implica una neutralizzazione.
Il conflitto, cuore della prassi democratica, non può mai venire a mancare: l’azione delle istituzioni non è quella di bloccare, ma quella di arginare, delimitando i confini all’interno dei quali si determina il conflitto legittimo, tra parti con valori e interessi diversi.

 

Dobbiamo ricominciare a pensare insieme politica e società.

La politica risponde alle sollecitazioni della società attraverso le istituzioni, organismi viventi che nascono, crescono e muoiono quando vengono meno le motivazioni – e sono parole di Francesco Stoppa.
Questo è il nodo: le istituzioni vanno sempre vitalizzate, mobilitate verso obiettivi che attengono alla nostra esistenza, mantenendo il ruolo fondamentale di trasmettitore delle domande che vengono dal basso.

In qesto momento storico – che ci vede ancora impegnati ad uscire da una pandemia e già catapultati nella tragedia di una nuova guerra – si avverte il bisogno di re-istituire la vita, di creare nuove condizioni di esistenza. La pandemia ci ha insegnato che senza istituzioni la vita soccombe alle forze ostili che la minacciano e che le istituzioni, private della loro vitalità, sono destinate a deperire.
Ecco perché non dobbiamo smettere di proteggere e insieme arricchire la vita dentro le istituzioni, ponte necessario tra individuo e comunità, società e politica, e tra una generazione e l’altra. Quando il filo minaccia di spezzarsi la nostra vita regredisce.

 

È sempre il momento, ma oggi in particolare, di mettere mano alle istituzioni esistenti per trasformarle, ma anche di crearne di nuove più giuste e più adeguate, sfondando la linea del presente e spingendo lo sguardo nel futuro.

La direzione in cui guardare è quella di una libertà che sia patrimonio condiviso, che possa circolare.
Si infrange così quello schermo immunitario che ci siamo costruiti attorno e che ci ha portati ad affermare l’idea di una libertà murata dentro i confini del proprio corpo – l’ormai noto “sono libero di fare quello che voglio perché non faccio male a nessuno”. Oggi non possiamo più permettercelo.
É il momento di dare vita – ciascuno come può con i propri linguaggi e i propri strumenti – a istituzioni che consentano, anzi potenzino, il circolo della libertà

 

*dall’intervento di Roberto Esposito al ciclo di seminari online “Istituzione e Vita” – sintesi non rivista dall’autore