Mai cancellare le differenze nel nome dell’uguaglianza

di Mauro Magatti
04 Giugno 2021

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La maggior parte dei Paesi Ue ha già una legislazione che estende i crimini d’odio all’omotransfobia. E risale addirittura al 2010 la prima raccomandazione europea che ci chiedeva di adottare misure legislative per il contrasto ai crimini d’odio a causa «dell’orientamento sessuale» e «dell’identità di genere». Per l’Italia è dunque un dovere mettersi al passo con gli altri Paesi dell’Unione.

La proposta di legge Zan si ispira al principio della tolleranza, uno dei grandi valori della modernità occidentale che si esplicita attraverso il riconoscimento giuridico delle diversità. A cui si attribuisce pari dignità: non fa differenza essere bianchi o neri. Abili o disabili, maschi o femmine, etero, omo o non binari. Né, dunque, la propria opzione rispetto al genere in cui ci si riconosce (o meno). La democrazia ci ha faticosamente insegnato che convivere tra diversi è un valore. Un obiettivo sempre difficile da raggiungere, ma quanto mai prezioso. Che va perseguito contrastando l’insulto e la violenza.

La proposta di legge afferma altresì il diritto all’autodeterminazione individuale, un principio diventato sempre più importante nelle società contemporanee. Al di là di qualunque tradizione, obbligo religioso, culturale o etnico, al singolo individuo viene riconosciuto il diritto all’identità di genere. Che, come già recita la sentenza n. 221/2015 della Corte costituzionale, va visto come «elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona».

Per quanto connessi, questi due piani non coincidono. Il nodo sta nel diverso modo in cui viene pensata la tensione polare tra la società e l’io: da un lato sottolineando l’elemento collettivo; dall’altro il primato della libertà individuale.

In realtà, la vita sociale è quel particolarissimo tessuto relazionale costituito da individui che, benché socializzati, sono sempre in grado di prendere le distanze dall’ordine sociale nel quale vivono. Esistono organizzazioni sociali che reprimono la libertà di scelta. Altre invece che hanno imparato a valorizzare l’autonomia. Ciò non significa che il contesto sociale non conti o non esista.

La scelta individuale non si dà mai nel vuoto. Essa si attua sempre all’interno di un mondo sociale fatto di regole, norme, interessi, tradizioni, valori, istituzioni, etc. Che possono cambiare, certo. Ma che comunque non spariscono, e hanno sempre un peso, tanto maggiore quanto meno se ne è consapevoli. Il singolo sceglie, ma mai da solo. Anche per questo, la Corte Costituzionale, nel riconoscere il diritto soggettivo alla rettificazione dell’attribuzione di sesso, ha nel contempo affermato che «va escluso che il solo elemento volontaristico possa rivestire prioritario o esclusivo rilievo ai fini dell’accertamento della transizione» (sentenza 180, 2017). Come dimostrano le esperienze di altri Paesi, occorre comunque trovare un punto di mediazione tra il rispetto del diritto individuale e le legittime esigenze di tutela dei rapporti sociali.

Nel testo in discussione al Senato, ci sono diverse questioni aperte. La tolleranza sugli orientamenti di genere e sessuali deve comportare un’educazione basata sul genere neutro a partire dall’idea che i bambini non vanno influenzati nel loro processo di costruzione della identità? Come comportarsi quando un minorenne vuole intraprendere un percorso ormonale per cambiare sesso? E ancora, la protezione di questi nuovi modi di essere e di pensare richiede linee di azione attivamente promosse dalle istituzioni? Come, ad esempio, sembrerebbe far presagire la pubblicazione (poi ritirata) dell’ufficio scolastico della regione Lazio delle «Linee guida per le strategie di intervento e promozione del benessere dei bambini e degli adolescenti con varianza di genere». Già sul web e su varie testate giornalistiche girano le formule linguistiche più «giuste» e meno «discriminanti». Il rischio è che per questa via, si finisca nella direzione di quella neo-lingua che, come ci ammoniva Orwell, costituisce uno dei segni dei nuovi totalitarismi. Che Hannah Arendt qualificava come quei regimi che cercano di imporsi distruggendo le tradizioni politiche e l’ordine sociale precedente.

Eccoci dunque al nodo della questione: tolleranza significa equivalenza, perfetta indifferenza? E, dall’altra parte, distinguere (riconoscere delle differenze) vuol dire necessariamente discriminare? È ancora socialmente accettabile esprimere pubblicamente una opzione a favore di un determinato modello di comportamento sessuale oppure questo rischia di essere visto come «concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti»? In nome del sacrosanto principio di non discriminazione ha senso cancellare ciò che di buono c’è nella nostra cultura sulla relazione uomo-donna, o sul valore delle lotte per l’emancipazione femminile?

Il valore della tolleranza è inestimabile. E così la libertà personale, che va coltivata e sviluppata. Ma si deve evitare che per questa via si produca, come effetto paradossale, una nuova normatività, che in nome dell’uguaglianza delle differenze di fatto le cancella.

Una cultura della differenza richiede la fatica di ampliare gli spazi di scelta individuale preservando le differenze non individuali ed educare al dialogo e al rispetto senza annegare tutto nella indifferenza e nella indistinzione. Per non ritrovarci — come ha ammonito Michel Foucault — imprigionati nella temibile tenaglia individualizzazione-totalizzazione (forma estrema di risoluzione del rapporto individuo-società) è ragionevole sostenere che i temi dei diritti individuali sono — e dunque vanno — comunque mediati in rapporto a una qualche ipotesi (esplicita o implicita) di bene comune.